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Ciò che otteniamo facilmente, lo stimiamo poco… Sarebbe davvero strano se un bene prezioso come la libertà non costasse caro prezzo.

Thomas Paine


Fu durante la notte seguente l’espulsione di Hendrick che raggiunsi il fondo dell’abisso. Non riuscivo a dormire. Vi assicuro che bisogna aver fatto la vita di campo per capire fino a che punto una recluta deve precipitare psicologicamente perché una cosa del genere possa succedere. Quel giorno, però, io non avevo svolto esercitazioni, quindi non ero fisicamente provato. Solo la spalla mi faceva ancora male, anche se il medico mi aveva sbattuto di nuovo in servizio, e poi c’era quella lettera di mia madre che mi torturava la mente. Infine, ogni volta che chiudevo gli occhi risentivo quel “crac!” e vedevo Ted abbattersi contro il palo della fustigazione.

Non mi importava di avere perso i galloni. Non m’interessavano più: ero pronto ad andarmene, anzi, ero decisissimo a farlo. Se non fossimo stati nel cuore della notte, e avessi avuto carta e penna a portata di mano, sono sicuro che mi sarei dimesso seduta stante.

Ted aveva commesso un brutto errore, di quelli le cui conseguenze durano tutta la vita. E lui le avrebbe senz’altro sentite, perché, pur odiando la vita al campo (e chi non la odiava?), aveva fatto ugualmente del suo meglio per arrivare in fondo e guadagnarsi il diritto di voto. Intendeva entrare in politica, ne parlava continuamente. Diceva che, una volta ottenuta la cittadinanza, avrebbe fatto chissà quali cambiamenti. “Aspettate e vedrete!” diceva sempre.

Be’, ormai non avrebbe più potuto aspirare a cariche politiche: un solo istante di annebbiamento e si era giocato la carriera.

Come era successo a lui, poteva succedere a me. Se avessi fatto anch’io uno sbaglio? L’indomani, o la settimana successiva? Nemmeno la possibilità di presentare le dimissioni, in quel caso… Buttato fuori e con la schiena piagata dalla frusta!

Era tempo di ammettere che avevo sbagliato e che papà aveva ragione, tempo di firmare quel pezzetto di carta, tornare a casa e dire che ero pronto a iscrìvermi a Harvard, per poi mettermi a lavorare con lui… se ancora mi voleva, tempo di parlare al sergente Zim, appena faceva giorno, e dirgli che ne avevo abbastanza. Ma non prima che fosse mattina, perché non si sveglia il sergente Zim. A meno che non si tratti di un caso che perfino lui potrebbe definire di emergenza, credetemi, non lo si sveglia! Proprio il sergente Zim, poi, che…

Il sergente Zim.

Quell’uomo mi lasciava sconvolto quasi quanto quello che era successo a Ted. Finito il processo, dopo che Ted era stato portato via, Zim si era trattenuto e aveva detto al capitano Frankel: — Posso parlare con il comandante di battaglione?

— Naturalmente. Anch’io volevo pregarti di restare per scambiare due parole. Siediti.

Zim aveva sbirciato nella mia direzione, imitato dal capitano. Non avevano avuto bisogno di dirmi che dovevo uscire: ero sparito di colpo. Non c’era nessuno nell’ufficio esterno, salvo un paio di impiegati civili. Non avevo osato allontanarmi, perché il capitano poteva ancora avere bisogno di me. Avevo trovato una sedia dietro una fila di schedari e mi ci ero seduto.

Così li avevo sentiti parlare attraverso la tramezza divisoria contro la quale appoggiavo la testa. Il comando, pur essendo l’edificio (e non la tenda) che ospitava in permanenza le apparecchiature di comunicazione e gli schedari, a livello di strutture e materiali era però appena più di una baracca: i divisori interni erano sottilissimi. Dubito che gli impiegati potessero ascoltare, dato che portavano la cuffia ed erano chini sulle macchine da scrivere… E poi non contavano. Non che io volessi ascoltare una conversazione privata. Però… ma sì, lo confesso, ero curioso.

Zim aveva esordito: — Signor capitano, chiedo di essere trasferito in un reparto di combattimento.

Frankel aveva risposto: — Non ho sentito, Charlie. Quest’orecchio mi dà ancora dei problemi. — Zim replicava: — Parlo sul serio, capitano. Questo non è più un compito per me.

Frankel, irritato: — Piantala di seccarmi con i tuoi problemi, sergente. Aspetta almeno che abbia sbrigato questi rapporti. Cosa diavolo t’è successo?

Zim, in tono impacciato: — Capitano, quel ragazzo non meritava dieci frustate.

Frankel: — Certo che no. Sai benissimo chi ha sbagliato, come lo so io.

— Signorsì. Lo so.

— E allora? Lo sai meglio di me che questi ragazzi sono come belve feroci a questo punto del corso. Sai quando è prudente voltare loro le spalle, e quando non lo è. Conosci la teoria e gli ordini riguardanti l’articolo nove zero otto zero: mai dare loro l’occasione di violarlo. Naturalmente, prima o poi, qualcuno ci prova. Se non fossero tipi aggressivi, non sarebbero materiale adatto per la vita militare. Se sono inquadrati sono abbastanza docili, e si può anche voltare loro le spalle quando mangiano, dormono o ascoltano una lezione teorica. Ma portali sul campo per un’esercitazione pratica, o qualsiasi altra cosa che li ecciti, e diventeranno esplosivi quanto il fulminato di mercurio. Tu lo sai. Tutti gli istruttori lo sanno. Siete addestrati apposta per captare il pericolo e per prevenire l’incidente prima che capiti. Mi spieghi come ha fatto una recluta, un pivellino, a farti quel livido sopra l’occhio? Non avrebbe mai dovuto metterti le mani addosso. Avresti dovuto stenderlo a terra privo di sensi appena hai capito quello che stava per succedere. Perché, allora, non sei stato più pronto? Hai perso il mordente?

— Non lo so — aveva risposto Zim. — Ho paura che sia così.

— Se fosse vero, altro che mandarti in combattimento, sergente! Ma non è vero. Ti ho visto all’opera solo tre giorni fa. Dunque, cos’è che ti ha fatto sbagliare?

La risposta di Zim era arrivata con lentezza. — Ho paura di averlo classificato “innocuo”.

— Nessuno di loro è innocuo.

— Signornò. Ma questo era così serio, impegnato, così ostinatamente deciso a farcela. Non c’era tagliato, però ce la metteva tutta, e questo deve avermi reso inconsciamente troppo tranquillo nei suoi confronti. — Una pausa, poi Zim aveva aggiunto: — Forse anche perché mi era simpatico.

Frankel aveva sbuffato. — Un istruttore non può permettersi di avere simpatie.

— Lo so, capitano. Ma succede. Sono tutti bravi ragazzi. Ormai, i peggiori li abbiamo scartati. L’unico difetto di Hendrick, per esempio, oltre quello di essere un po’ maldestro, era la convinzione di sapere tutto. Ma non ci badavo: anch’io mi illudevo di sapere tutto, alla sua età. I peggiori sono tornati a casa, e quelli rimasti qui sono ragazzi in gamba, desiderosi di fare bella figura, scattanti, svegli come cuccioli di razza. Molti saranno anche ottimi soldati.

— Eccolo, il punto debole. Ti era simpatico, e hai mancato di mostrarti duro al momento opportuno. Lui ne esce con un processo, la fustigazione e l’espulsione per cattiva condotta. Bel risultato, vero?

Zim aveva dichiarato, serissimo: — Sa il cielo quanto vorrei accollarmela io, quella fustigazione.

— Avresti dovuto usare la tua autorità, invece di ricorrere alla mia. Che cosa credi che abbia pensato io? Che cosa credi che abbia temuto, dal momento in cui ti ho visto entrare con quel livido? Ho fatto del mio meglio per liquidare la cosa con una punizione normale, e quell’idiota se la sarebbe cavata con poco. Come potevo pensare che fosse tanto cretino da ammettere davanti a tutti di averti picchiato? È deficiente, ecco cos’è! Avresti dovuto incoraggiarlo a dimettersi qualche settimana fa, invece di coccolartelo fino a quando si è messo nei guai. Me l’ha dichiarato in faccia, davanti a testimoni, costringendomi a prenderne atto in forma ufficiale, e così… Chi poteva salvarlo a quel punto? Chi poteva evitargli il processo? E allora bisognava andare fino in fondo, prendere la medicina e ritrovarsi con un civile di più che ci odierà fino alla tomba. Doveva essere frustato, lo capisci? Né tu né io possiamo accollarci la punizione, anche se la colpa è nostra. Il reggimento deve fare di tutto affinché l’articolo nove zero otto zero sia rispettato. La colpa è nostra… ma i lividi sono suoi.

— La colpa è mia, capitano. Per questo chiedo di essere trasferito. Ecco, signor capitano, io credo che sia meglio, per il bene dell’arma.

— Tu credi, eh? Ma sono io che decido quello che è meglio nell’interesse del mio battaglione, sergente. Charlie, chi credi che sia stato a fare il tuo nome per averti con noi? E perché? Dodici anni fa, ti ricordi? Allora eri caporale. E dov’eri?

— Qui, come lei sa benissimo, capitano. Proprio qui in queste dannate pianure. Non ci fossi mai tornato!

— Lo diciamo tutti. Ma in effetti sì tratta del compito più importante e delicato dell’Esercito, quello di trasformare cuccioli bisognosi di sculacciate in uomini veri. Chi era il cucciolo più bisognoso di sculacciate di tutta la tua sezione?

— Mmm… — rispose Zim. — Non direi che fosse proprio il peggiore, signor capitano.

— No, eh? Però faticheresti molto a citarne uno più disastroso. Io odiavo persino la terra dove camminavi, caporale Zim.

Zim era rimasto sorpreso, e un po’ ferito. — Davvero, capitano? Io non la odiavo affatto… anzi, mi era simpatico.

— Logico! L’odio è un altro lusso che un istruttore non può permettersi. Charlie, non dobbiamo né amarli né odiarli. Dobbiamo addestrarli. Ma se effettivamente allora io ti ero simpatico, avevi uno strano modo di manifestarlo. Ti sono sempre simpatico? Non rispondere: non m’importa di esserti simpatico o no, o meglio, non voglio saperlo. Lascia perdere. L’importante è che allora io ti disprezzavo, passavo il tempo a immaginare i sistemi per toglierti di mezzo. Ma tu eri sempre pronto e non mi hai mai dato l’occasione di finire sotto processo per infrazione all’articolo nove zero otto zero. E per questo sono qui, grazie a te. E adesso, per rispondere alla tua richiesta, ti ricorderò l’ordine che mi ripetevi di continuo quando ero una recluta. Lo ripetevi tanto spesso che mi pareva d’impazzire ogni volta che lo dicevi. Te ne ricordi? Io sì, e adesso sono io a dirlo a te: “Soldato, tu devi solo tacere ed essere soldato!”.

— Signorsì.

— Aspetta, non andartene. Questa brutta faccenda non è del tutto negativa: ogni reggimento di reclute ha bisogno di una lezione severa per quanto riguarda l’articolo nove zero otto zero, lo sappiamo tutti e due. I ragazzi non hanno ancora imparato a pensare, non leggono mai le disposizioni e raramente ascoltano. Però vedono. La disavventura toccata al giovane Hendrick un giorno o l’altro potrebbe salvare dall’impiccagione qualcuno dei suoi compagni. Mi dispiace solo che questa lezione sia venuta proprio dal mio battaglione. Ma vorrei che fosse l’ultima. Raduna i tuoi istruttori e avvertili. Per ventiquattr’ore i ragazzi saranno sotto choc. Poi ciascuno si chiuderà in sé, e la tensione comincerà a diffondersi. Verso giovedì o venerdì qualcuno comincerà a riflettere sul fatto che Hendrick se l’è cavata con poco, mettiamo con un numero di frustate inferiore a quello che viene inflitto a chi guida in stato di ubriachezza, e forse si dirà che vale anche la pena di prenderle, per levarsi il gusto di appioppare uno schiaffo all’istruttore più odioso. Sergente, quello schiaffo non deve andare a segno. Mi hai capito?

— Sissignore.

— Voglio che tutti siano dieci volte più prudenti del solito, voglio che mantengano le distanze, voglio che abbiano gli occhi anche sulla nuca, voglio che stiano in guardia come topi a una mostra di gatti. Presta attenzione a Bronski… Gli farai un predicozzo a parte: ha la tendenza a fraternizzare.

— Farò il predicozzo a Bronski, signor capitano.

— Ricordatene, perché quando il prossimo ragazzo penserà di passare alle vie di fatto, dovrà essere fermato in tempo, non voglio che succeda un pasticcio come oggi. L’istruttore non dovrà lasciarsi nemmeno sfiorare con un dito, altrimenti lo degraderò. Che lo sappiano. Dobbiamo insegnare a quei marmocchi che non è solo pericoloso, ma anche impossibile violare il nove zero otto zero, che il solo fatto di pensarci procura un viaggio nel paese dei sogni, un secchio d’acqua in faccia e una mascella ammaccata… Ma nient’altro.

— Sissignore, sarà fatto.

— Sarà meglio per tutti. Non solo degraderò l’istruttore che manca al suo dovere, ma lo porterò di persona là fuori sul prato e gli somministrerò io stesso la punizione. Non voglio che un altro di questi ragazzi finisca attaccato a quel palo a causa dell’imprudenza dei suoi insegnanti. Puoi andare, sergente Zim.

— Sissignore. Buongiorno, capitano.

— Buongiorno? E come sarebbe possibile? Senti, Charlie…

— Sì, signor capitano?

— Se questa sera non hai troppo da fare, perché non prendi un paio di scarpe leggere e l’imbottitura e vieni al circolo ufficiali, così ci sgranchiamo un po’ le ossa? Verso le otto, diciamo.

— Sissignore.

— È un invito, non un ordine. Se è vero che sei giù di giri, potrebbe aiutarti a ritrovare la calma.

— Mmm… il signor capitano sarebbe disposto a fare una piccola scommessa?

— Cosa? Io che me ne sto qui seduto a questa scrivania e mi muovo su questa sedia girevole? Ah, no! A meno che tu non acconsenta a combattere con un piede dentro un secchio di cemento. Scherzi a parte, Charlie, abbiamo avuto una brutta giornata tutti e due, e il peggio non è ancora venuto. Se la concludiamo con una bella sudata e qualche bozzo sulla testa, forse ci riuscirà di dormire, alla faccia di tutti i cocchi di mamma.

— Verrò, capitano. Stia leggero a cena… Anch’io ho voglia di sfogarmi per un paio di cosette.

— Non mangerò affatto. Resterò qui a sudare su questo dannato rapporto, che il comandante di reggimento si compiacerà di scorrere dopo cena, e che un tale che non nomino mi ha costretto a terminare in ritardo. Perciò, forse non arriverò puntuale al nostro appuntamento. E ora sparisci, Charlie, e non seccarmi più. A stasera.

Il sergente Zim era uscito così in fretta che avevo avuto appena il tempo di chinarmi per fingere di allacciarmi una scarpa, rendendomi invisibile, dietro gli schedari, mentre lui attraversava il locale.

Il capitano Frankel stava già sbraitando. — Attendente! Attendente! Attendente!!!… Possibile che debba chiamarti tre volte? Come ti chiami? Un’ora di lavoro straordinario, così imparerai. Trovami i comandanti delle compagnie E, F e G, i miei saluti a tutti, e vorrei vederli stasera prima della rivista. Poi fai un salto alla mia tenda e prendimi un’uniforme da parata pulita, berretto, bandoliera, scarpe, nastrini. Niente medaglie. Lasciami tutto steso sulla sedia. Poi presentati alla visita medica alle sei. Se con quel braccio puoi grattarti, come ti ho visto fare, vuol dire che la spalla è tornata a posto. Hai tredici minuti esatti prima della visita medica. Scattare, soldato!

Ce l’avevo fatta, rintracciando due dei comandanti nella doccia degli istruttori anziani (un’ordinanza può entrare dappertutto) e il terzo alla sua scrivania: gli ordini che si ricevono non sono mai impossibili, sembrano tali perché lo sono quasi. Mentre disponevo in bell’ordine sulla sedia l’uniforme del capitano Frankel, era squillata la chiamata per la visita medica. Senza rialzare la testa Frankel aveva borbottato: — Lascia perdere l’ora di straordinario. Puoi andare. — Così ero arrivato in tenda proprio in tempo per beccarmi dell’altro straordinario per “uniforme, macchie due” e vedere la miserevole conclusione del periodo trascorso da Ted Hendrick sotto le armi.

Perciò, ne avevo di cose su cui riflettere quella sera, mentre non riuscivo a prendere sonno. Che il sergente Zim lavorasse sodo l’avevo sempre saputo, ma immaginavo che si sentisse eternamente tronfio e soddisfatto di quello che faceva. Sembrava così impettito, così sicuro di sé, così in pace con la sua coscienza e con il mondo intero, a vederlo!

L’idea che quell’irriducibile robot potesse capire di aver sbagliato, ed esserne così consapevole da detestarsi e desiderare di scappare via, di nascondere la faccia tra gente sconosciuta, con la scusa che sarebbe stato “meglio per il bene dell’arma”, mi sconvolgeva totalmente in un certo senso, perfino più di quanto mi avesse destabilizzato la fustigazione di Ted.

Sentire poi il capitano Frankel che gli dava ragione, sulla gravità dell’errore, s’intende, e poi gli faceva la paternale e lo strigliava ben bene…

Incredibile! I sergenti non ricevono lavate di testa: i sergenti le fanno! È una legge di natura.

Ma dovevo ammetterlo: le parole che Zim aveva dovuto ascoltare, e ingoiare, erano così umilianti e avvilenti che al confronto la peggiore sfuriata che io avessi ricevuto o sentito fare da un sergente era una canzone romantica. E il capitano non aveva nemmeno alzato la voce.

Quell’incidente era talmente assurdo che non mi venne nemmeno la tentazione di parlarne con gli altri.

E il capitano Frankel? Noi gli ufficiali non li vedevamo spesso. Si facevano vedere alla rivista serale, arrivavano con calma all’ultimo minuto e non facevano nulla che potesse provocare in noi sudori freddi. Una volta alla settimana passavano in rassegna le truppe, facendo in privato commenti con i sergenti, che inevitabilmente causavano dispiaceri a qualcun altro, non a loro. Inoltre ogni settimana decidevano quale compagnia si fosse guadagnata l’onore di sorvegliare l’insegna del reggimento. A parte questo, qualche volta arrivavano all’improvviso per un’ispezione, sempre lindi, immacolati e distanti, accompagnati da un leggero odore di acqua di colonia, per poi sparire di nuovo.

Certo, uno o più ufficiali ci accompagnavano sempre durante le marce di addestramento, e due volte il capitano Frankel aveva fatto sfoggio delle sue doti atletiche. Ma gli ufficiali non lavoravano, perlomeno non svolgevano compiti materiali e potevano vivere senza preoccupazioni visto che i sergenti erano sotto di loro, non sopra. E invece si scopriva all’improvviso che il capitano Frankel lavorava così sodo da saltare i pasti, ed era talmente impegnato nelle varie mansioni burocratiche da avvertire la mancanza di moto e ridursi a sprecare le serate di libertà per “fare una bella sudata”.

Quanto alle preoccupazioni, Frankel mi era sembrato anche più mortificato di Zim per la disavventura di Hendrick. E sì che non aveva mai visto Hendrick in faccia, prima: aveva perfino dovuto chiedergli come si chiamava.

Nel complesso, ero tormentato dalla sensazione di essermi completamente sbagliato sul mondo che mi circondava, come se tutto fosse totalmente diverso da come si presentava. Era un po’ come scoprire che la propria madre è una sconosciuta, un’estranea che si nasconde dietro una maschera. Di una cosa, però, ero sicuro: non volevo affatto scoprire che cosa fosse in realtà l’ambiente militare. Se era talmente duro che perfino gli dei, cioè sergenti e ufficiali, potevano sentirsi infelici, era certamente troppo duro per Johnnie! Come si fa a non commettere errori in un ambiente impenetrabile e incomprensibile come quello? Non volevo finire impiccato, non volevo rischiare una fustigazione, nemmeno sotto il controllo di un medico convocato affinché il malcapitato non subisse lesioni permanenti. Nessuno, nella mia famiglia, era mai stato fustigato (tralasciando, ovviamente, qualche sculacciata a scuola, che non era affatto la stessa cosa). Nella nostra famiglia criminali non ce n’erano né dal lato materno né da quello paterno. Eravamo una famiglia orgogliosa. L’unica cosa che ci mancava era il diritto di voto, ma papà lo considerava non un onore, ma una perdita di tempo. Se io fossi stato frustato… be’, probabilmente gli sarebbe venuto un colpo.

Eppure Hendrick non aveva fatto niente che io non avessi pensato di fare almeno un migliaio di volte. Perché non l’avevo fatto? Per paura, suppongo. Sapevo bene che gli istruttori, tutti, senza eccezione, potevano farmi passare ogni velleità, così avevo tenuto il becco chiuso e incassato pazientemente. Tutta vigliaccheria, caro Johnnie! Perlomeno, Hendrick aveva dimostrato di avere fegato. Io non ne avevo, e un uomo che non ha fegato, nell’Esercito stona.

Senza contare, poi, che il capitano Frankel non aveva nemmeno imputato il fatto al temperamento di Ted. Anche se non mi fossi tirato addosso il nove zero otto zero, per mancanza di coraggio, in qualsiasi momento sarei forse potuto incorrere in qualcosa di più grave, magari non per colpa mia, e finire ugualmente legato al palo della vergogna?

Squagliatela, Johnnie, finché sei ancora in tempo!

La lettera di mia madre non faceva che confermare la mia decisione. Avevo potuto indurire il cuore nei confronti dei miei genitori finché si erano opposti alle mie decisioni, ma adesso che si erano addolciti, non me la sentivo più. Adesso che la mamma si era addolcita, perlomeno.

Mi aveva scritto:


… purtroppo devo dirti che tuo padre non permette ancora che in casa si faccia il tuo nome. Però, bambino mio, questo è solo il suo modo di rimpiangerti, dato che lui non può piangere, come me. Devi capire, figlio caro, che tuo padre ti ama più della sua vita, più di quanto ami me, e che tu l’hai ferito profondamente. Dice a tutti che ormai sei un uomo in grado di prendere da solo le decisioni, e che lui è fiero di te. Ma è l’orgoglio che lo fa parlare così, l’amaro dolore di un uomo forte ferito nel profondo dell’animo dall’essere che ama di più. Devi capire, Juanito, che non parla di te in casa e non ti scrive perché non può, perlomeno non ancora. Lo farà quando il suo dolore sarà diventato più tollerabile. Io me ne accorgerò subito, e intercederò per te… e saremo di nuovo riuniti.

Quanto a me, figliolo, che cosa potrebbe fare di tanto grave un figlio da perdere l’affetto della sua mamma? Tu puoi farmi soffrire, ma non per questo ti amerò meno. Dovunque tu sia, qualunque sia la tua scelta, sarai sempre il mio bambino, quello che si sbucciava le ginocchia e correva da me per farsi consolare. Ora non posso più tenerti in braccio, ma posso sempre consolarti, se ne hai bisogno. E i ragazzi hanno sempre bisogno della loro mamma, anche quando diventano uomini, vero, tesoro? Spero che tu mi scriva per dirmi che è così.

Però devo dirti, visto che non scrivi da tanto tempo, che forse per il momento è meglio (e fino a quando non te lo dirò io) che tu mi scriva presso zia Eleonora. Lei mi passerà subito la lettera… e non ci saranno discussioni. Mi capisci?

Tanti baci dalla tua mamma.


Capivo, eccome! E se papà non poteva piangere, io sì. Piansi, infatti.

Alla fine mi addormentai, e quasi subito mi svegliò l’allarme. Tutto il reggimento fu spedito nella zona di tiro e dovette sorbirsi una finta battaglia, senza munizioni. Però avevamo addosso tutto l’armamentario non corazzato, compresa la cuffia ricevente, e subito dopo che ci eravamo distribuiti arrivò l’ordine di congelarci.

Mantenemmo il congelamento per circa un’ora, e dico proprio mantenemmo, osando sì e no respirare. Se fosse passato un topo in punta di piedi, in confronto a noi avrebbe fatto un baccano del diavolo. Qualcosa, forse un coyote, arrivò di corsa e mi scavalcò. Non battei ciglio. Non avevo mai sofferto tanto freddo in vita mia, e stare così immobile…

Ma non ci badavo: sapevo che quello era il mio ultimo congelamento.


Il mattino seguente non sentii nemmeno la sveglia: per la prima volta da molte settimane dovettero farmi uscire dal sacco richiamandomi all’ordine con il “simbolo” del comando, e arrivai appena in tempo per la prima pagliacciata mattutina. D’altra parte, era inutile dare le dimissioni prima di colazione, dato che come primo passo dovevo presentarmi a Zim. Ma lui non c’era a colazione. Chiesi a Bronski il permesso di parlare con il comandante di compagnia, e lui mi rispose: — Figurati, accomodati pure — senza neanche chiedermi il perché.

Ma è impossibile parlare a uno che non c’è. Subito dopo la colazione ci mettemmo in marcia, e Zim non si era ancora visto da nessuna parte. Era una marcia andata-e-ritorno, con il rancio trasportato sul posto a mezzo di elicotteri. Un vero lusso, dato che quando le razioni non venivano consegnate prima dell’inizio della marcia, voleva dire che avremmo sofferto la fame fino al ritorno, salvo masticare quello che avevamo nascosto in tasca… e io non avevo niente: quel mattino avevo altro a cui pensare.

Il sergente Zim arrivò con le razioni e distribuì la posta, il che, invece, non era un lusso insolito. Una cosa va riconosciuta: nella Fanteria spaziale mobile ti lasciano senza mangiare, senza bere, senza dormire, il tutto quando meno te l’aspetti, ma la posta te la consegnano trattenendola solo il minimo indispensabile. Era nelle tue mani, te la recapitavano con il primo mezzo disponibile, e al primo istante di pausa potevi leggertela, anche durante le manovre. La cosa non aveva mai avuto importanza ai miei occhi, dato che (a parte un paio di lettere di Carl) avevo ricevuto solo cartoline insulse fino a quando non mi aveva scritto mia madre.

Non mi avvicinai nemmeno quando Zim procedette alla distribuzione. Pensavo che non fosse ancora il momento opportuno per parlargli: meglio aspettare di essere di nuovo in vista del quartier generale. Perciò rimasi sorpreso quando lui mi chiamò e mi mostrò una lettera. Scattai di corsa e presi la missiva.

Ed ebbi un’altra sorpresa, perché era una lettera del signor Dubois, il mio professore di storia e filosofia morale. Mi sarei aspettato una lettera da Babbo Natale piuttosto che da lui.

Quando la lessi, la mia meraviglia arrivò al massimo. Osservai di nuovo l’indirizzo e il mittente, prima di convincermi che l’aveva scritta proprio lui ed era destinata proprio a me. Diceva:


Ragazzo mio,

avrei voluto scriverti già da tempo per esprimerti la mia soddisfazione e il mio orgoglio nell’apprendere che non solo ti eri arruolato, ma che avevi scelto la mia stessa arma. Non per esprimerti la mia sorpresa, però: da te non mi aspettavo di meno, salvo, eventualmente, la felicissima scelta del corpo. Questo è il genere di soddisfazioni che pur non essendoci riservate molto spesso, fanno accettare con gioia le fatiche della professione di insegnante. Ovviamente, dobbiamo setacciare molta sabbia e molti sassi prima di trovare una pepita d’oro, ma anche poche pepite sono una ricompensa eccezionale.

Ormai la ragione per cui non ti ho scritto subito ti sarà evidente. Molti giovani, e non sempre a causa di colpe gravi, vengono allontanati durante il corso di addestramento. Ho aspettato (tenendomi però in contatto con le mie conoscenze) fino a che non hai superato il momento del “magone” (tutti noi lo conosciamo molto bene quel magone!) per essere certo, salvo incidenti o malattie, che avresti completato l’addestramento e la ferma.

Ora stai attraversando la parte più dura del servizio… e non dico in senso materiale (ormai la fatica fisica non può più spaventarti: l’hai sperimentata a fondo), ma in senso spirituale… la profonda, dolorosa e sconcertante necessità di mutare il proprio atteggiamento e il proprio modo di valutare fatti e circostanze, indispensabile per fare, di un cittadino in potenza, un individuo conscio delle proprie responsabilità. Ma forse farei meglio a dirti: la parte più dura l’hai già passata nonostante le tribolazioni che ancora ti aspettano e gli ostacoli, sempre più ardui, che ancora dovrai superare. È proprio quel “magone” a risultare decisivo e conoscendoti bene so di avere aspettato quanto basta per essere certo che quello almeno l’hai superato, altrimenti a quest’ora saresti già tornato a casa.

Una volta raggiunta quella vetta spirituale, si prova qualcosa, un “qualcosa” di assolutamente nuovo. Forse non avrai parole per definirlo (io non ne avevo, quand’ero una recluta come te). Perciò, potresti permettere a un vecchio compagno d’armi di prestartele, visto che a volte le parole aiutano molto. Sono semplicemente queste: il destino più nobile che può toccare a un uomo è quello di mettere il proprio corpo mortale tra la sua adorata casa e la desolazione di una guerra. Queste parole non sono mie, naturalmente, come ti sarai accorto. Le verità fondamentali sono immutabili, e quando un uomo perspicace riesce a esprimerne una non è più necessario, per quanto il mondo si evolva, formularla diversamente. Questa è appunto una verità immutabile, valida dovunque e in ogni tempo, per tutti gli uomini e tutte le nazioni.

Dammi tue notizie, ti prego, se puoi sacrificare a un vecchio insegnante un po’ del tuo prezioso tempo libero per buttare giù due righe di tanto in tanto. E se ti capita d’incontrare qualcuno dei miei vecchi compagni d’armi, presenta loro i miei più cari saluti.

Buona fortuna, fante! Tu mi hai reso orgoglioso.

Jean V. Dubois

Tenente colonnello

di Fanteria spaziale mobile a riposo


La firma era sorprendente quanto la lettera stessa. Quel vecchio brontolone era un tenente colonnello? Mamma mia, e pensare che il nostro comandante di reggimento era soltanto maggiore! Il signor Dubois a scuola non aveva mai fatto sfoggio del suo grado. Avevamo pensato (ammesso che pensassimo qualcosa) che fosse stato un caporale o giù di lì, congedato per avere perso una mano e incaricato di un corso tanto leggero da non richiedere nemmeno l’esame: un corso che noi seguivamo come uditori. Naturalmente si sapeva che Dubois era un veterano, in quanto il corso di storia e filosofia morale doveva essere tenuto da un cittadino con diritto di voto. Ma uno della Fanteria spaziale mobile? Non ne aveva affatto l’aria. Spocchioso, lievemente sprezzante, simile al tipo umano del maestro di ballo, ben diverso da bestioni come noi.

Eppure la firma parlava chiaro.

Per tutta la marcia di ritorno non pensai ad altro che alla lettera. Non assomigliava a nulla di ciò che ci aveva detto in classe. Con questo non intendo dire che contraddicesse qualcosa che avesse espresso a lezione, era completamente diversa nel tono. Inoltre, quando mai un tenente colonnello chiamava in privato una recluta “compagno d’armi”?

E pensare che quando lui era solo il “signor Dubois”, e io uno dei ragazzi che seguivano il suo corso, pareva che ignorasse perfino la mia esistenza… tranne una volta, però, in cui mi aveva fatto andare in bestia affermando che avevo troppi soldi e troppo poco buon senso. (D’accordo, mio padre avrebbe potuto comperare tutta la scuola e offrirmela come regalo di Natale. Ma era forse un crimine? Non erano mica affari suoi.)

Aveva sempre pontificato sul “valore”, confrontando la teoria marxista con quella ortodossa sull’“uso”. — Naturalmente — aveva detto un giorno — la definizione del valore proposto da Marx è confutabile. Aggiungete tutto il lavoro che vi pare, non trasformerete una torta di fango in una torta di mele. Resterà una torta di fango senza nessun valore. Per corollario, il lavoro non qualificato può facilmente sottrarre valore: un cuoco incapace può trasformare tutta la farina e le mele, già dotate di valore per conto loro, in una porcheria immangiabile, di valore zero. Al contrario, un grande chef può cavare dagli stessi materiali un qualcosa di valore assai superiore a quello di una banale torta di mele, e con lo stesso sforzo che un cuoco normale impiega per preparare un dolce normale. Questi esempi culinari possono demolire la teoria marxista sul valore e illustrare la verità della definizione del buon senso che invita a misurarlo in termini di uso. — Dubois aveva puntato il moncherino verso di noi. — Tuttavia… voi, laggiù svegliatevi!… tuttavia la bizzarra mistica del Capitale, turgida, tormentata, confusa, nevrotica, priva di scientificità, illogica… Insomma, quel sussiegoso impostore di Karl Marx ebbe la fuggevole intuizione di una verità veramente importante. Se avesse posseduto una mente analitica, avrebbe potuto formulare la prima vera definizione esatta del valore, e questo pianeta avrebbe potuto risparmiarsi infiniti guai. O forse no — aggiunse. — Tu!

Io avevo sussultato nel banco.

— Evidentemente non sei in grado di stare attento, ma forse potrai spiegare alla classe se il concetto di “valore” è relativo o assoluto.

Avevo ascoltato, semplicemente non vedevo la ragione per cui non avrei dovuto ascoltare con gli occhi chiusi e la spina dorsale rilassata. Ma la sua domanda mi coglieva alla sprovvista: non avevo letto la lezione assegnata per quel giorno. — Assoluto — avevo risposto, a caso.

— Sbagliato — aveva detto Dubois, gelido. — Il “valore” non ha significato se non in relazione agli esseri viventi. Il valore di un oggetto è sempre relativo a una particolare persona, è completamente personale e diverso per quantità per ciascun essere vivente. Il “valore di mercato” è una convenzione, una rozza valutazione della media dei valori personali, che devono essere quantitativamente diversi, altrimenti il commercio sarebbe impossibile.

Mi ero chiesto che cosa avrebbe detto mio padre se l’avesse sentito definire “convenzione” il valore di mercato… avrebbe sbuffato disgustato, probabilmente.

— Questo valore così personale è determinato da due fattori per ogni essere vivente: primo, che cosa egli può fare di questo oggetto, qual è l’uso dell’oggetto rispetto a lui… e secondo, che cosa deve fare per procurarselo, ovverosia, il costo dell’oggetto. Una vecchia canzone afferma che “le cose migliori non costano niente”. Non è vero. È falso, spudoratamente falso! E fu questo il tragico errore che portò alla decadenza e al crollo le democrazie del Ventesimo secolo. Quei nobili esperimenti fallirono perché il popolo era stato indotto a credere che bastava votare per ottenere ciò che si voleva… e ottenerlo senza fatica, senza sudore, senza lacrime. Nessuna cosa di valore è gratuita. Perfino il respiro della vita procede attraverso lo sforzo e il dolore. — Sempre guardando me, aveva aggiunto: — Se voi, ragazzi e ragazze, doveste guadagnarvi i vostri passatempi sgobbando come deve fare un neonato per mantenersi in vita, sareste certamente molto più felici… e molto più ricchi. Stando così le cose per molti di voi, compiango la miseria della vostra ricchezza. Tu! Ti ho appena consegnato il premio per la corsa dei cento metri. Ti rende felice?

— Penso che mi farebbe piacere.

— Rispondi senza tergiversare, per favore. Tu hai avuto il premio… qua, te lo metto per scritto: “Primo premio ai campionati, gara dei cento metri”. — Si era avvicinato effettivamente al mio banco e mi aveva appuntato il foglietto sul petto. — Ecco! Sei felice? Ha un valore per te, o non ne ha?

Ero fuori di me. Prima quella frecciata sui ragazzi ricchi, una tipica cattiveria di chi ha pochi soldi in tasca, e adesso quella commedia. Mi ero strappato il foglietto e gliel’avevo restituito.

Dubois aveva fatto una faccia meravigliata. — Non eri contento di averlo?

— Sa benissimo che sono arrivato quarto.

— Esattamente. Il premio per il primo posto per te è senza valore, perché non te lo sei guadagnato. Ma ti godi la modesta soddisfazione di essere arrivato quarto, dato che te lo sei meritato. Spero che qualcuno di voi morti in piedi capisca quale vuoi essere la morale di questa piccola messa in scena. Il poeta che scrisse i versi di quella canzone intendeva dire che le cose migliori non si possono acquistare con il denaro, il che è vero, proprio come è falso il significato letterale di quelle parole. Le cose più belle della vita sono al di là del denaro. Il loro prezzo è agonia, sudore, devozione. E il prezzo richiesto per la più preziosa di tutte le cose della vita è la vita stessa, costo ultimo per un valore assoluto.


Rimuginavo le parole del signor Dubois, del colonnello Dubois, e riflettevo su quella straordinaria lettera, mentre tornavamo verso il campo. Poi smisi di pensare perché la banda si allineò a noi e per un po’ cantammo canzoni francesi: La Marsigliese, Madelon, Figli della fatica e del pericolo, poi Legione straniera, Mademoiselle d’Armentière.

È bello sentire la banda che suona: ti tira su di morale quando credi di non farcela più nemmeno a fare un passo. Dapprima c’era stata solo musica in scatola, e solo per la rassegna e le sveglie. Ma un po’ alla volta si era scoperto chi sapeva suonare, erano arrivati gli strumenti e avevamo organizzato una banda del reggimento, tutta nostra. Perfino il direttore e il tamburo maggiore erano reclute.

Non dico che i suonatori fossero sbucati dal nulla, tutt’altro. Avevano avuto il permesso di studiare, l’incoraggiamento a farlo, e potevano esercitarsi durante il tempo libero, alla domenica e alla sera. Infine, avevano ottenuto il permesso di schierarsi tutti insieme quando eravamo in parata, invece di restare nei ranghi dei rispettivi squadroni. Molte delle cose che facevamo erano organizzate in quel modo. Il nostro cappellano, per esempio, era una recluta. Era più anziano di noi e aveva ricevuto gli ordini religiosi in una oscura setta di cui non avevo mai sentito parlare. Ma metteva molta passione nelle sue prediche, a prescindere dall’ortodossia delle sue convinzioni (non me ne intendo). Comunque, era senz’altro in grado di capire i problemi di una recluta. E poi cantare in coro era divertente. Del resto, la domenica mattina non sapevamo dove andare.

La banda soffriva per la mancanza di affiatamento, ma bene o male ce la faceva. Al campo c’erano quattro cornamuse e alcune uniformi scozzesi, donate da Lochiel di Cameron, che aveva perso il figlio al campo Arthur Currie durante un’esercitazione. Presto si scoprì che una delle reclute sapeva suonare la cornamusa: aveva imparato quando faceva il boy scout in Scozia. In breve tempo ci trovammo con ben quattro cornamuse, magari non molto intonate ma con tanto fiato. A sentirle per la prima volta, il loro suono sembra strano, e quattro ragazzi che si esercitano con la cornamusa possono portarvi alla pazzia. Era un po’ come se ognuno tenesse un gatto sottobraccio e si ostinasse a mordergli la coda.

Ma pian piano impararono. La prima volta che le nostre cornamuse segnarono il passo in testa alla banda, eseguendo Alamein Death, i capelli si rizzarono tanto da sollevare il berretto. Mi vennero anche le lacrime agli occhi.

Non potevamo portare in marcia la banda al completo perché i suonatori non godono di privilegi speciali, com’è logico. Tromboni e tamburi dovevano restare a casa, perché anche i membri della banda dovevano portare l’armamento completo come gli altri: e potevano caricarsi solo di strumenti talmente piccoli da poter essere aggiunti a tutto il resto. Ma la Fanteria spaziale mobile aveva strumenti che nessun’altra banda possiede, credo, come una scatoletta poco più grande di un’armonica, un congegno elettronico che riesce a imitare il suono del corno e in cui si soffia allo stesso modo. Si marcia senza sapere quando si arriva e all’improvviso si sente il richiamo alla banda, e ogni suo componente lascia cadere l’equipaggiamento senza nemmeno fermarsi, mentre i commilitoni se ne fanno carico, e corre verso il punto dove il gruppo si riunisce e inizia a suonare con vigore…

È un conforto. D’un tratto, mentre smettevamo di cantare perché la banda era ormai troppo lontana, mi resi conto di sentirmi meravigliosamente bene.

Cercai di capirne il motivo. Forse perché fra un paio d’ore saremmo stati al campo e avrei potuto presentare le dimissioni?

No. Quando avevo deciso di dimettermi avevo effettivamente provato un senso di pace, le mie paure si erano sopite e avevo potuto addormentarmi. Adesso si trattava di qualcosa di diverso, che non aveva una spiegazione, ne ero certissimo.

Poi capii. Avevo superato il magone!

Quel nodo di cui il colonnello Dubois aveva scritto, mi era andato giù. Avevo effettivamente superato la vetta, e adesso la mia strada era facile, in discesa. La prateria che avevamo attraversato era completamente piatta, ma nonostante questo io mi ero arrampicato faticosamente in salita per tutta l’andata e per circa metà del ritorno. Poi, a un certo punto, penso mentre cantavamo, avevo superato la collina ed era tutto in discesa. L’armamento non mi pesava più sulla schiena e la mia mente era serena, sgombra.

Quando arrivammo al campo non mi recai a parlare con il sergente Zim: non ne avevo più bisogno. Invece fu lui a parlarmi, facendomi segno di avvicinarmi quando rompemmo le righe.

— Sì, signore?

— Avrei una domanda personale da farti, perciò non sei obbligato a rispondermi. — S’interruppe, e io mi chiesi, rabbrividendo, se per caso sospettasse che avevo udito il suo colloquio del giorno precedente con il capitano.

— Con la posta di stamattina — riprese — hai ricevuto una lettera. Ho notato, per puro caso, perché non sono affari miei, il nome del mittente. Si tratta di un nome alquanto comune, in certi posti. Ecco la domanda personale alla quale non sei tenuto a rispondere: chi ti ha scritto quella lettera manca per caso della mano sinistra?

Immagino di essere rimasto a bocca aperta. — Come fa a saperlo, signore?

— C’ero anch’io quando è successo. È il colonnello Dubois, vero?

— Sì, signore — risposi. E aggiunsi: — È stato il mio insegnante di storia e filosofia morale alle superiori.

Ritengo che quella sia stata l’unica volta in cui mi sia riuscito di impressionare, anche se di poco, il sergente Zim. Le sue sopracciglia si alzarono di un millimetro e gli occhi si dilatarono per una frazione di secondo. — Ah, sì? Hai avuto una grossa fortuna. — Poi: — Se non ti dispiace, quando gli risponderai, scrivi che il sergente Zim gli invia i suoi ossequi.

— Certo, signore. Ah… credo che abbia mandato un messaggio per lei, signore.

— Cosa?

— Ecco, non ne sono sicuro, ma… — Tolsi di tasca la lettera e lessi: — “Se ti capita d’incontrare qualcuno dei miei vecchi compagni d’armi, presenta loro i miei più cari saluti.” È per lei, signore?

Zim parve pensarci, guardandomi come se vedesse, attraverso me, cose e luoghi diversi. — Come? Oh, sì sì. È anche per me. Ti ringrazio molto. — Poi, di colpo, l’argomento fu chiuso, e disse, secco: — Nove minuti all’ispezione. Devi ancora fare la doccia e cambiarti. Scat-tare, soldato.

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