E li tratterà con verga di ferro.
Per l’addestramento venni inviato al campo Arthur Currie, nella zona settentrionale delle Grandi pianure, insieme a un paio di migliaia di altri infelici. E quando dico “campo” dico proprio campo, perché gli unici edifici in muratura servivano a proteggere l’equipaggiamento. Mangiavamo e dormivamo in tenda, facevamo vita all’aperto, se quella si chiama vita, cosa che, a quel tempo, sarei stato certamente incline a negare. Abituato com’ero a un clima caldo, mi sembrava che il Polo Nord fosse appena a qualche chilometro e si avvicinasse sempre più. Forse era cominciata una nuova Era glaciale.
Comunque, il moto riscalda, e i capi facevano in modo che ci scaldassimo.
Il primo giorno, ci svegliarono assai prima dell’alba Avevo faticato ad abituarmi al cambiamento di fuso orario, e provavo la sensazione di essermi appena addormentato. Mi pareva anche impossibile che qualcuno pretendesse che mi buttassi giù dal letto nel cuore della notte Ma facevano sul serio, eccome! Da qualche parte, un altoparlante stava trasmettendo una marcia militare, capace di svegliare anche i morti, e uno scocciatore che era arrivato di corsa urlando: — Tutti fuori! Diii corsa! Scat-tare — tornò indietro di soppiatto, mentre mi giravo dall’altra parte tirandomi le coperte sulle orecchie, rovesciò la mia brandina e mi scaraventò sulla nuda e gelida terra. In quel gesto non c’era nulla di personale, se ne andò senza nemmeno assicurarsi che cadendo non mi fossi fatto male.
Dieci minuti dopo, in pantaloni, maglietta e scarpe, ero in fila con gli altri, sommariamente allineati, per iniziare gli esercizi proprio mentre il sole a est si affacciava timidamente all’orizzonte. Di fronte a noi c’era un tipo dalle spalle larghe e l’aria da carogna, vestito esattamente come noi, salvo che, mentre io sembravo, e mi sentivo, l’opera di un imbalsamatore maldestro, lui, con il mento rasato di fresco, i calzoni dalla piega impeccabile e le scarpe lustre come specchi, si presentava aitante, sveglio, calmo e riposato. Dava addirittura l’impressione di non avere affatto bisogno di dormire, tutt’al più, una revisione ogni tanto e una buona ripassata con l’aspirapolvere quando era necessario.
Berciò: — C’gnia! At-tenti! Sono il sergente Zim, vostro comandante di compagnia. Quando vi rivolgerete a me dovete salutare e dire “signore”. Saluterete e direte “signore” a chiunque porti un bastone da istruttore… — Intanto si batteva sul palmo una canna robusta, che poi fece roteare con destrezza per mostrare che cosa intendeva per bastone da istruttore. Ne avevo notati molti con un aggeggio così, quando eravamo arrivati la sera prima, e avevo subito pensato di procurarmene uno anch’io: conferiva un certo prestigio. Ma ora dovetti cambiare idea. — … poiché non abbiamo abbastanza ufficiali per addestrarvi. Quindi vi addestreremo noi. Chi ha starnutito?
Nessuna risposta.
— Chi ha starnutito?
Una voce rispose: — Io.
— Io, cosa?
— Ho starnutito.
— Ho starnutito, signore!
— Ho starnutito io, signore. Sono raffreddato, signore.
— Ma guarda! — Zim si avvicinò all’uomo che aveva starnutito e gli agitò il bastone sotto il naso. — Come ti chiami?
— Jenkins… signore.
— Jenkins! — Il tono di Zim era disgustato, sprezzante. — Scommetto che una volta o l’altra, solo perché hai il raffreddore, starnutirai durante una ronda notturna, eh?
— Spero di no, signore.
— Anch’io. Ma tu sei raffreddato. Mmm… provvediamo subito. — Puntò il bastone. — La vedi quell’armeria laggiù? — Guardai anch’io e non vidi niente, salvo praterie sconfinate e un edificio che pareva sorgere lungo la linea dell’orizzonte. — Fuori dai ranghi. Fai un giro attorno a quell’armeria. Di-corsa! Bronski! Fallo correre.
— Signorsì, sergente. — Uno degli altri cinque o sei portatori di bastone partì di corsa dietro Jenkins, lo raggiunse dopo pochi passi e con un colpetto di bastone lo incitò ad accelerare il passo. Zim tornò a rivolgersi a noi, che ancora rabbrividivamo sull’attenti. Camminò in su e in giù, ci squadrò da capo a piedi con aria profondamente delusa. Alla fine si fermò, scosse la testa e parlò quasi tra sé (ma aveva una voce tonante): — Proprio a me doveva capitare!
Ci guardò. — Pezzi di somari. Macché somari, peggio! Miserabile mucchio di scimmioni rinsecchiti, pastefrolle, fantocci che non siete altro. In vita mia non ho mai visto un branco così disgustoso di cocchi di mamma… parlo con voi! Tacchi uniti! Punte aperte! Pancia in dentro! Petto in fuori! Testa alta! Sto parlando con voi!
Tirai in dentro la pancia, anche se non ero sicuro che si stesse rivolgendo a me. Continuò così per un bel pezzo. In compenso, ascoltandolo, dimenticai che avevo la pelle d’oca per il freddo, Elencò tutte le nostre manchevolezze, con abbondanza di particolari, senza mai ripetersi ed evitando il ricorso a oscenità o bestemmie. (Seppi poi che le teneva in serbo per le occasioni specialissime, e questa non lo era.) Invece di sentirmi insultato, in qualche modo finii per restare affascinato dalla padronanza di linguaggio del sergente. Chissà che figurone avrebbe fatto durante le nostre discussioni in classe!
Alla fine si calmò e parve sul punto di piangere. — È intollerabile! — concluse, amareggiato. — Devo fare qualcosa, assolutamente. I soldatini di piombo che avevo a sei anni mi davano più soddisfazioni. Ok! C’è qualcuno di voialtri mammalucchi deciso a farmi rimangiare quello che ho detto? C’è un solo uomo in questa mandria informe? Si faccia avanti!
Seguì un breve silenzio, al quale contribuii efficacemente. Non che dubitassi di avere la peggio: ne ero sicuro. Poi si levò una voce, proprio in fondo alla fila. — Credo che ci riuscirò io… signore.
Zim parve rincuorato. — Bene! Fai un passo avanti così potrò vederti. — La recluta obbedì. Era imponente una spanna più alto del sergente Zim, e più largo di spalle. — Come ti chiami, soldato?
— Breckinridge, signore. Peso novantacinque chili e non credo di essere una pastafrolla rinsecchita.
— Hai qualche preferenza a proposito di lotta?
— Signornò, può scegliere la morte che preferisce. Per quanto mi riguarda, non mi formalizzo.
— D’accordo, lotta libera. Comincia quando vuoi. — Zim gettò via il bastone.
La lotta cominciò… ed era già finita. La robusta recluta giaceva a terra, e con la destra si reggeva il polso sinistro Non aprì bocca.
Zim si chinò su di lui. — Rotto qualcosa?
— Ho paura di sì… signore.
— Mi dispiace. Sono stato un po’ precipitoso. Sai dov’è l’infermeria? Non importa… Jones! Accompagna Breckinridge all’infermeria. — Mentre i due stavano per allontanarsi, Zim diede una pacca sulla spalla al giovanottone e gli disse a bassa voce: — Tra un mesetto proveremo di nuovo, eh? Ti mostrerò com’è andata.
Forse doveva essere una conversazione confidenziale ma si trovavano a pochi passi da me, che stavo lentamente congelando.
Poi Zim gridò: — Molto bene. Un uomo, almeno, ce l’abbiamo in questa compagnia. Mi sento già meglio. Ne abbiamo qualche altro, per caso? Credete che almeno due di voi rospi scrofolosi potrebbero farcela a sfidarmi? — Faceva scorrere lo sguardo lungo la fila. — Fegati di lattante, gente senza spina dorsale… Oh! Sì, sì. Fatevi avanti.
Due uomini vicini di posto si fecero avanti insieme; immagino che si fossero accordati sul momento, ma erano lontani da me, e non avevo sentito niente. Zim sorrideva — I nomi, coraggio.
— Heinrich.
— Heinrich che cosa?
— Heinrich, signore. Bitte - Parlò in fretta con l’altra recluta che aggiunse: — Lui non parla molto bene l’inglese standard, signore.
— Meyer, mein Herr - precisò il secondo uomo.
— Non importa, in tanti lo parlano male quando arrivano qui… neanche io lo conoscevo bene. Di’ a Meyer di non preoccuparsi, imparerà. Ma ha capito almeno quello che dobbiamo fare?
— Jawohl, mein Herr - confermò Meyer.
— Certo, signor sergente. Capisce lo standard, solo che non lo parla bene.
— Benissimo. Dove ti sei beccato quelle due cicatrici alla faccia, a Heidelberg?
— Nein… signornò. A Königsberg.
— Fa lo stesso. — Zim, dopo essersi battuto con Breckinridge, aveva raccolto il suo bastone e ora lo faceva roteare. — Ne volete anche voi uno a testa, per caso?
— Non sarebbe sportivo, signore — rispose prontamente Heinrich. — Meglio usare solo le mani, se siete d’accordo.
— Come volete. Anche se forse vi ho fregato. Königsberg, eh? Regole particolari?
— Come potrebbero esserci regole, signor sergente, in una lotta a tre?
— Osservazione intelligente. Bene, allora rimaniamo d’accordo che gli occhi strappati vanno restituiti al termine dell’incontro. E puoi dire al tuo Korpsbruder che sono pronto. Cominciate pure quando volete. — Zim gettò via il bastone. Qualcuno lo raccolse.
— Lei scherza, signor sergente. Noi non strappiamo gli occhi.
— Niente cavamento d’occhi, allora, d’accordo. Vi sbrigate sì o no? Altrimenti tornatevene in fila con gli altri.
Non sono certo di aver visto tutto. Forse qualche particolare mi si è chiarito in seguito, durante le esercitazioni, non so. Ma vi riferirò i fatti come li ricordo: i due aggirarono il nostro comandante di compagnia, uno da una parte e uno dall’altra, tenendosi però a debita distanza. Da questa posizione l’uomo che lotta da solo può scegliere fra quattro mosse fondamentali, traendo vantaggio dalla mobilità e dalla migliore coordinazione di movimenti di cui beneficia rispetto agli altri due. Il sergente Zim affermava infatti (e a ragione) che qualsiasi gruppo è più debole di un uomo solo, a meno che non sia perfettamente addestrato a operare collettivamente. Per esempio, Zim avrebbe potuto disorientarne uno con una finta, balzare sul secondo mettendolo fuori combattimento, magari spezzandogli un ginocchio, per occuparsi poi del primo a suo piacimento.
Invece li lasciò attaccare insieme. Meyer lo aggredì all’improvviso, con l’intenzione di colpirlo al corpo e gettarlo a terra, penso io, mentre Heinrich sarebbe intervenuto dopo, lavorandosi il caduto, magari colpendolo con lo stivale. Così, almeno, si profilava la cosa.
Ed ecco, invece, quello che credo di avere visto. Meyer non portò a segno il suo colpo al corpo. Il sergente Zim si girò di scatto per affrontarlo, allungando intanto un calcio all’indietro che raggiunse Heinrich in pieno ventre… L’istante dopo, Meyer veniva catapultato in aria da un potente allungo di Zim.
Quello che posso assicurarvi è che a pochi istanti dall’inizio dell’incontro c’erano due giovani tedeschi che riposavano tranquilli al suolo, quasi piedi contro piedi, uno a faccia in su e uno a faccia in giù, mentre Zim stava ritto accanto a loro, senza nemmeno ansimare. — Jones — chiamò. — Ah, già, Jones non c’è. Mahmud! Porta un secchio d’acqua, poi rimettili in fila con gli altri. Chi ha preso il mio stuzzicadenti?
Pochi minuti dopo i due erano svegli, bagnati fradici, e allineati con gli altri. Zim ci guardò e s’informò cortesemente: — C’è qualcun altro? O dobbiamo passare alle esercitazioni?
Pensavo che nessun altro si sarebbe fatto avanti, e forse lo pensava anche Zim. Ma dal fondo della fila, a sinistra, dove si allineavano i più bassi di statura, un ragazzo uscì dai ranghi e si fece avanti. Zim lo squadrò dall’alto in basso. — Tu da solo? Non vuoi sceglierti un socio?
— Da solo, signor sergente.
— Come vuoi. Nome.
— Shujumi, signore.
Zim spalancò gli occhi. — Qualche parentela con il colonnello Shujumi?
— Mi onoro di essere suo figlio, signore.
— Senti, senti! Molto bene. Cintura nera?
— Signornò. Non ancora.
— Hai fatto bene a dirmelo. Bene, Shujumi, dobbiamo attenerci alle regole o chiamo direttamente l’ambulanza?
— Come preferisce, signore. Ma penso, se posso esprimere un parere, che attenersi alle regole sia più prudente.
— Non capisco in che senso, ma sono d’accordo con te. — Zim gettò via il bastone, poi i due indietreggiarono, si misero di fronte e s’inchinarono.
Presero a girare in tondo, uno di fronte all’altro e in posizione raccolta, facendo qualche finta con le mani. Somigliavano, nel complesso, a due galli da combattimento.
All’improvviso si toccarono… il piccoletto era a terra e il sergente Zim stava volando al di sopra della sua testa. Ma non atterrò con il tonfo sordo e paralizzante che aveva tramortito Meyer. Rotolò e fu subito in piedi. Lo stesso fece Shujumi. Furono di nuovo l’uno di fronte all’altro. — Banzai! - gridò Zim e sorrise.
— Arigatò - rispose Shujumi, e sorrise di rimando.
Si toccarono ancora, quasi senza fermarsi, e pensai che il sergente si facesse un altro volo. Invece no: scivolò in avanti, ci fu un groviglio di gambe e braccia, e quando l’agitazione cessò, vidi che Zim si stava accostando il piede sinistro di Shujumi all’orecchio destro.
Con la mano libera, Shujumi batté sul terreno. Subito Zim lo lasciò andare. Si fecero un inchino.
— Ancora una volta, signore?
— Mi spiace, no. Abbiamo ancora molto da fare. Un altro giorno. Per il divertimento… e l’onore. Forse avrei dovuto dirti che è stato il tuo onorevole padre a addestrarmi.
— Proprio come avevo immaginato, signore. Al piacere di un altro incontro.
Zim gli batté sulla spalla. — Torna in fila, soldato. C’pagnia, at-tenti!
Poi, per venti minuti, ce la spassammo con una serie di esercizi che mi lasciarono grondante di sudore quanto prima ero illividito dal freddo. Zim conduceva gli esercizi, eseguendoli con noi e impartendo ordini a gran voce. A guardarlo, non aveva una piega fuori posto, e quando terminammo non aveva nemmeno il fiatone. Dopo quel mattino, non guidò più gli esercizi (non lo vedemmo mai più prima di colazione: un graduato beneficia di alcuni vantaggi) ma quel mattino lo fece, e al termine, quando fummo tutti sfiniti, ci condusse al trotto verso le tende, urlando come un matto per tutto il percorso: — Pas-so! Di-corsa! Sbrigatevi, marmotte.
Trottavamo sempre e dappertutto, al campo Arthur Currie. Non ho mai saputo chi fosse questo Currie, ma doveva essere stato un maratoneta.
Breckinridge era già nella tenda che fungeva da mensa, con il polso ingessato. Lo sentii dire: — È una roba da nulla, oggi non ho fatto sul serio con quello. Vedrete la prossima volta… Lo sistemerò io…
Avevo i miei dubbi. Shujumi, forse, ma quel bestione lì… Non era nemmeno in grado di capire quanto era stato surclassato. Zim mi era risultato antipatico fin dal primo istante, ma almeno aveva stile.
La colazione era ottima, i pasti in genere erano di notevole qualità, molto diversi dalle brodaglie che ci rifilavano a scuola. E se uno voleva buttarsi sul piatto e ingozzarsi mangiando con le mani, nessuno aveva da ridire, per fortuna, visto che i pasti erano praticamente l’unico istante in cui ti lasciavano respirare senza sbraitarti dietro.
Il menù della colazione non aveva niente a che fare con quello che ero solito mangiare a casa. Se mamma avesse visto come i civili che ci servivano sbattevano il cibo da tutte le parti sarebbe impallidita e si sarebbe ritirata in camera sua. Il cibo, tuttavia, era caldo e abbondante e la cucina, per quanto semplice, non era male. Mangiai il quadruplo del solito e ingurgitai tazze su tazze di caffè bollente, con zucchero e panna. Del resto avrei divorato una balena senza nemmeno perdere tempo a levarle la pelle.
Jenkins arrivò con il caporale Bronski alle calcagna proprio mentre io attaccavo il secondo piatto. Si fermarono un attimo vicino al tavolo di Zim, che mangiava da solo, poi Jenkins si lasciò cadere su uno sgabello libero accanto al mio. Sembrava che stesse parecchio male, era pallido, esausto, e respirava a fatica: — Ti verso un po’ di caffè — gli dissi.
Scosse la testa.
— Mangia, è meglio — insistetti. — Le uova strapazzate vanno giù come niente.
— Non posso mangiare. Quel delinquente, quel maledetto! — E prese a maledire Zim con voce monotona e incolore. — Gli ho chiesto soltanto di lasciarmi tornare in branda e di saltare la colazione. Bronski non ha voluto, ha detto che dovevo dirlo al comandante di compagnia. Sono andato da lui, gliel’ho chiesto dicendo che mi sentivo male. Dopo avermi toccato la fronte e sentito il polso mi ha detto che non potevo marcare visita fino alle nove. Non mi ha lasciato tornare alla mia tenda. Brutto disgraziato! Ma io una notte l’aspetto di fuori, vedrai.
Gli misi le uova strapazzate nel piatto e gli versai il caffè. Lui cominciò subito a mangiare. Zim si alzò da tavola mentre noi ancora mangiavamo, e si fermò al nostro tavolo.
— Jenkins?
— Eh? Signorsì.
— Alle nove precise marcherai visita e ti farai visitare dal medico.
Jenkins contrasse la mascella. Rispose lentamente: — Non ho bisogno di medicine, signore. Mi passerà.
— Nove precise. È un ordine. — E Zim se ne andò. Jenkins prese a inveire contro il sergente. Alla fine si calmò, ingoiò una forchettata di uova strapazzate e disse a voce più alta: — Non posso fare a meno di chiedermi che specie di madre ha potuto mettere al mondo un uomo simile. Mi piacerebbe proprio vederla, solo per curiosità. Credete che ce l’abbia, una madre?
Era una domanda retorica, ma esigeva una risposta. A capotavola, a diversi sgabelli di distanza da noi, sedeva un caporale istruttore. Aveva finito di mangiare e mentre fumava giocherellava con uno stuzzicadenti. Evidentemente aveva sentito. — Jenkins…
— Eh? Signore?
— Sei così poco informato sui sergenti?
— Ecco… sto imparando.
— Non hanno madri. Chiedilo a qualsiasi soldato semplice che abbia terminato il corso. — Soffiò il fumo verso di noi. — Si riproducono per cariocinesi, come tutti i microbi.