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Avanti, scimmioni! Volete vivere in eterno?

UN SERGENTE AL SUO PLOTONE, 1918


Mi viene sempre la tremarella prima del lancio. Mi hanno fatto l’iniezione, naturalmente, e la preparazione ipnotica, so benissimo che in realtà non ho paura. Lo psicoanalista della nave, che mi ha controllato le onde del cervello e fatto un sacco di domande mentre ero addormentato, mi assicura che non si tratta di paura, che è una cosa senza importanza, un po’ come il tremito di un cavallo da corsa che scalpita prima dell’inizio della gara.

Sarà. Non sono mai stato un cavallo da corsa, quindi non mi pronuncio. So una cosa sola: che tutte le volte, immancabilmente, è la stessa storia.

Trenta minuti prima dell’ora fissata, dopo che ci eravamo adunati nel vano di lancio della Rodger Young, il nostro comandante di squadrone giunse per l’ispezione. Non era il vero comandante dello squadrone, era il sergente, il sergente Jelal della Fanteria spaziale mobile, detto Gelatina. Il comandante, il tenente Rasczak, c’era rimasto durante l’ultimo lancio. Jelly era un finno-turco di Alexandretta, un ometto olivastro a cui non avresti dato due soldi, e invece io l’ho visto con i miei occhi agguantare due soldati alti il doppio di lui, sbattere le due teste una contro l’altra come se fossero state noci e farsi da parte mentre quelli crollavano a terra.

Fuori servizio non era cattivo, per essere un sergente. Si poteva persino chiamarlo Gelatina in sua presenza. Non i nuovi arrivati, naturalmente, ma solo quelli che avevano fatto almeno un lancio di combattimento.

Al momento, però, era in servizio. Ognuno di noi aveva ispezionato il proprio equipaggiamento da battaglia (si tratta della pellaccia, mi spiego?), quello che fungeva da sergente ci aveva già passati in rivista attentamente dopo l’adunata, e adesso Gelatina ci ispezionava di nuovo, con faccia feroce e occhi ai quali non sfuggiva niente.

Si fermò davanti all’uomo di fronte a me e gli premette un pulsante della cintura per avere i dati circa le sue condizioni fisiche. — Fuori dai ranghi!

— Ma, sergente, è solo un po’ di raffreddore. Il medico ha detto che…

Gelatina lo interruppe. — Ma sergente, un corno! — sbraitò. — Il medico non deve mica lanciarsi… e nemmeno tu, con la febbre che ti ritrovi. Credi che abbia tempo di stare qui a discutere con te prima di un lancio? Fuori, ho detto!

Jenkins ci lasciò, immusonito e furente. La cosa seccava anche a me. Visto che il tenente ci aveva lasciato le penne, durante l’ultimo lancio, c’era stata una rivoluzione nei quadri, e io mi trovavo ora a essere vicecapo della seconda squadra. Senza Jenkins, nella squadra c’era un vuoto che non avevo modo di colmare. Brutto affare. Significava che uno avrebbe potuto trovarsi nei guai, chiedere aiuto e non avere nessuno che glielo avrebbe dato.

Gelatina non scartò nessun altro. Finita l’ispezione si fermò di fronte a noi, ci squadrò ben bene e scosse la testa disgustato.

— Che manica di schiappe! — brontolò. — Se in questo lancio ci restate secchi tutti quanti, forse allora si potrebbe cominciare daccapo a mettere insieme il gruppo di uomini che il tenente si illudeva di fare di voi. E magari neanche, con quello schifo di reclute che si arruolano al giorno d’oggi. — D’improvviso s’impettì e prese a urlare: — Allora, cocchi di mamma, ci tengo solo a ricordarvi che ognuno di voi, tra munizioni, armature, strumenti, addestramento eccetera, compreso tutto quello che vi siete mangiato, è costato al governo qualcosa come mezzo milione. Aggiungeteci i trenta centesimi che ognuno di voi vale, e vedrete che si tratta di una bella somma. — Ci fulminò con lo sguardo. — Perciò, cercate di portare a casa la pelle. Di voi possiamo anche fare a meno, ma è quel patrimonio che avete addosso che ci sta a cuore. Non voglio eroi nel mio squadrone. Al tenente non sarebbero piaciuti. Avete un compito da svolgere. Andate giù, fate quello che dovete fare, tenete aperte le orecchie per quando vi sarà ordinato di rientrare e tenetevi pronti per il recupero, secondo l’ordine stabilito. Intesi? — Altra occhiataccia. — Il piano d’operazione dovreste averlo memorizzato in ipnosi. Ma siccome quando uno non ha cervello è inutile cercare di ipnotizzarlo, ve lo ripeterò ancora una volta, a voce. Sarete lanciati su due linee d’attacco, distanziate a due chilometri. Controllate la posizione rispetto a me appena atterrate, e mentre vi portate al riparo controllate anche posizione e distanza nei confronti dei compagni di pattuglia, su tutti e due i lati. Nel frattempo, avrete già sprecato dieci secondi, perciò fracassate e distruggete tutto quello che vi viene a tiro fino a quando non toccate terra. — (Ce l’aveva con me: come vicecaposquadra mi sarei trovato ultimo sul fianco sinistro senza nessuno a coprirmi dall’altra parte. Cominciai a tremare.) — Una volta atterrati tutti, raddrizzate le linee. Regolate gli intervalli! Fate solo questo! Dodici secondi. Poi avanzate a balzi, pari e dispari. I vicecapisquadra si occuperanno del conto dei secondi e guideranno il movimento a tenaglia. — Fissò me. — Se la manovra sarà eseguita correttamente, cosa di cui dubito, le due ali si saranno congiunte nel momento in cui suonerà la ritirata. E a questo punto si rientra alla base. Nessuna domanda?

Non ce ne furono. Non ce n’erano mai.

Lui continuò. — Un’ultima cosa. Questa è una semplice incursione, non un combattimento. È una dimostrazione di potenza bellica a scopo intimidatorio. La nostra missione è far capire ai nemici che avremmo potuto distruggere la loro città, ma non l’abbiamo fatto, e che possiamo provocare danni ingenti anche se ci asteniamo da un bombardamento totale. Non dovete prendere prigionieri. Ucciderete soltanto se non potrete farne a meno, ma l’intera area dell’incursione dovrà essere rasa al suolo. Non voglio vedere nessuno di voialtri scansafatiche tornare a bordo con bombe inesplose. Ci siamo capiti? — Controllò l’ora. — I Rompicollo di Rasczak hanno una reputazione da difendere. Prima di morire il tenente mi ha incaricato di dire che vi terrà costantemente d’occhio, e che si aspetta di vedere i vostri nomi risplendere di gloria!

Gelatina guardò il sergente Migliaccio, capo della prima sezione. — Cinque minuti per il Padre — concesse. Alcuni dei ragazzi uscirono dai ranghi e si inginocchiarono davanti a Migliaccio, non solo quelli che aderivano alla sua stessa fede.

Musulmani, cristiani, agnostici, ebrei, chiunque volesse una parola da lui, prima di un lancio, lo trovava là. Ho sentito dire che un tempo c’erano eserciti i cui cappellani non combattevano a fianco dei compagni. Non l’ho mai capito. Mi spiego: come fa un cappellano a benedire qualcosa che non è disposto a fare lui stesso? In ogni modo, nella Fanteria spaziale mobile tutti si lanciano e tutti combattono, compreso il cappellano, il cuoco e il gatto. Una volta iniziata la scivolata lungo il tubo di lancio, a bordo dell’astronave non sarebbe rimasto un solo Rompicollo. Salvo Jenkins, s’intende, ma non era colpa sua.

Io non mi avvicinai. Temevo sempre che da vicino qualcuno si accorgesse che tremavo. Del resto il Padre poteva benedirmi ugualmente dal punto in cui si trovava. Ma fu lui stesso ad accostarsi a me, appena l’ultimo di quelli in ginocchio si fu rialzato, premendo il suo elmetto contro il mio per parlarmi in privato.

— Johnnie — mormorò — è il tuo primo lancio come graduato.

— Già. — In realtà non ero un graduato, come del resto Gelatina non era un ufficiale.

— Volevo dirti solo una cosa, Johnnie. Porta a casa la pelle. Sai quello che devi fare. Fallo. Fallo e basta. Non cercare di guadagnarti una medaglia.

— Grazie, Padre. Non lo farò.

Aggiunse sottovoce qualcosa, in un linguaggio che non conoscevo, mi batté la mano sulla spalla e tornò di corsa alla sua squadra.

Jelly gridò: — At-tenti! — E tutti scattammo.

— Squa-drone!

— Squa-drone! — fecero eco Migliaccio e Johnson.

— Per squadre, a tribordo e a babordo, prepararsi per il lancio! Via!

— Squadre! Pronti alle capsule! Via!

— Pattuglie! — Dovetti aspettare che le pattuglie Quattro e Cinque s’infilassero nelle capsule e scivolassero giù per il tubo di lancio prima che la mia capsula apparisse lungo il binario del portello e potessi ficcarmici dentro. Mi chiedevo se quei famosi guerrieri dell’antichità avessero provato lo stesso terrore nell’infilarsi dentro il cavallo di Troia, o se fosse un privilegio tutto mio. Gelatina era addetto alla chiusura di ogni capsula. Si premurò personalmente di chiudere la mia. Nel farlo si chinò verso di me e disse: — Testa a posto, Johnnie. Non è niente di più di un’esercitazione.

La calotta si chiuse sopra di me e mi ritrovai solo. Niente di più di un’esercitazione, a sentire lui! Cominciai a tremare come una foglia.

Poi, nella cuffia, sentii Gelatina dal tubo centrale: — Ponte di comando! Rompicollo di Rasczak… pronti per il lancio!

— Diciassette secondi, tenente! — sentii rispondere dall’allegra voce di contralto della comandante dell’astronave, il capitano Deladrier. E ci soffrii a sentirla chiamare Gelatina “tenente”. D’accordo, il nostro tenente era morto e forse Gelatina avrebbe preso il suo posto, ma per ora eravamo ancora i Rompicollo di Rasczak.

La comandante aggiunse: — Buona fortuna, ragazzi.

— Grazie, capitano.

— Tenetevi pronti! Mancano cinque secondi.

Ero tutto legato con le cinghie: vita, fronte, stinchi. Ma tremavo più che mai.


Va meglio, una volta scaricati. Fino a quel momento, si stava nel buio più completo, rigidi come mummie per via dell’accelerazione, riuscendo appena a respirare, sapendo che attorno nella capsula c’è soltanto azoto (anche ammesso che si potesse sollevare il casco, e non si può), sapendo che la capsula è bloccata nel tubo di lancio e che se l’astronave viene colpita prima che ti sparino fuori, non hai nemmeno il tempo di dire amen. Crepi così, senza poterti muovere, senza poter fare niente.

È quell’attesa interminabile nel buio che dà la tremarella: pensi che si siano dimenticati di te… forse la nave è stata colpita ed è rimasta in orbita, senza vita, e tra poco farai la stessa fine anche tu, morirai soffocato, senza poterti muovere… oppure la nave esploderà, e farai in tempo ad arrostire vivo…

Poi la manovra d’arresto dell’astronave ci colpì d’improvviso e io smisi di tremare. Gravità otto, a occhio e croce, forse anche dieci. Quando un’astronave è pilotata da una donna la faccenda non è mai piacevole: uno si ritrova lividi dappertutto. Sì, lo so, come piloti valgono più degli uomini, le loro reazioni sono più rapide e tollerano un maggior numero di gravità. Possono accelerare e decelerare più rapidamente, quindi le probabilità di cavarsela sono maggiori per tutti, per te come per loro. Detto ciò, non è piacevole ricevere in piena spina dorsale un urto pari a dieci volte il proprio peso normale.

Devo ammettere, però, che il capitano Deladrier sapeva il fatto suo. Dopo avere bloccato la Rodger Young, non sprecò un solo istante. Immediatamente la sentii ordinare: — Tubo di lancio centrale… fuoco! — Ci furono due scossoni di rinculo mentre Gelatina e quello che fungeva da sergente di squadrone venivano scaricati. Poi, subito: — Tubi di babordo e tribordo a tiro automatico… fuoco! — E uno dopo l’altro cominciammo a schizzare fuori dai tubi.

Bump, e la tua capsula scatta in avanti di un posto. Bump, e scatta di nuovo, proprio come cartucce che vanno a inserirsi nella canna di una vecchia arma automatica al posto di quelle appena sparate. Ecco, proprio questo eravamo in effetti, salvo che le canne del fucile nel nostro caso erano due tubi di lancio gemelli costruiti dentro lo scafo di un’astronave da trasporto truppe, e ogni cartuccia costituiva una capsula grande abbastanza (ma non un filo di più) per contenere un soldato di fanteria con tutto il suo equipaggiamento da combattimento.

Bump… Ero abituato a sentirmi sbalzare fuori al bump numero tre. Ora, invece, facevo da fanalino di coda: ero l’ultimo di tre pattuglie complete. È un’attesa noiosa, anche se le capsule escono una al secondo. Cercavo di contare i bump. Dodici, tredici, quattordici (con un tonfo un po’ diverso dagli altri: era la capsula vuota dentro cui si sarebbe dovuto trovare Jenkins).

Poi finalmente… clang! È il mio turno, la capsula entra nella camera di scoppio e… buuum! L’esplosione colpisce con una forza tale che, al confronto, la manovra di arresto del pilota diventa una carezza affettuosa. E d’improvviso il nulla. Assolutamente nulla. Niente rumore, niente pressione, niente peso. Si fluttua nell’oscurità, in caduta libera, forse da quattro o cinquemila metri oltre l’atmosfera, precipitando senza peso verso la superficie di un pianeta mai visto. Ma a questo punto non tremo più, è l’attesa che logora. Una volta scaricati, la paura cessa perché, se qualcosa dovesse andare male, tutto avverrebbe con una tale rapidità che ci si ritroverebbe morti senza nemmeno rendersene conto.

Subito sentii la capsula deformarsi e ondeggiare, poi si stabilizzò in modo che tutto il mio peso poggiasse sulla schiena, aumentando rapidamente, fino a raggiungere quello definitivo che avrei avuto in rapporto alla forza di gravità del pianeta (gravità 0,87, ci avevano detto) via via che la capsula raggiungeva la velocità definitiva per i rarefatti strati superiori dell’atmosfera. Un pilota che sia veramente un artista (e il nostro capitano lo era) deve avvicinarsi ed eseguire la manovra di frenata in modo che la velocità di lancio, quando si viene sparati fuori dal tubo, coincida con quella di rotazione del pianeta a una data latitudine. Le pesanti capsule possono così penetrare attraverso i venti deboli degli strati superiori dell’atmosfera senza subire deviazioni sensibili dalla loro posizione. Ovviamente ogni squadrone è ugualmente destinato a disperdersi durante la discesa e a deviare dalla perfetta formazione in cui è stato scaricato. Un cattivo pilota, però, può peggiorare enormemente questo effetto e disperdere i componenti di un gruppo in un’area così vasta da metterli nell’impossibilità di riunirsi per la ritirata e soprattutto di portare a termine la loro missione. Un fante può combattere soltanto se viene recapitato esattamente sulla sua zona d’operazione. In un certo senso, quindi, i piloti sono essenziali al buon esito dell’attacco tanto quanto la fanteria stessa.

La mia capsula penetrò nell’atmosfera con estrema facilità, e io capii subito che il capitano ci aveva sganciati in modo perfetto. La cosa mi rallegrò, non solo perché avremmo toccato terra in formazione compatta, evitando di sprecare tempo prezioso a regolare le distanze, ma anche perché un pilota che sa eseguire con precisione lo sganciamento è altrettanto abile nel riprenderti a bordo.

L’involucro esterno incendiandosi doveva essersi sfaldato in maniera non uniforme, visto che mi ritrovai a testa in giù. Poi il resto dell’involucro volò via e subito mi raddrizzai. I freni a scossa del secondo involucro entrarono in azione, e cominciò un ballo che si fece sempre più frenetico via via che il secondo involucro si sfaldava. Uno dei fattori che aiutano i membri della fanteria incapsulata a raggiungere l’età della pensione è questo: gli strati che si staccano l’uno dopo l’altro non solo rallentano gradualmente la discesa della capsula, ma riempiono di rottami il cielo sovrastante l’area da attaccare. Da terra, per ogni uomo in caduta, i radar localizzano almeno una dozzina di bersagli, ciascuno dei quali potrebbe essere un uomo, una bomba o qualsiasi altra cosa. Ce n’è a sufficienza per provocare un collasso nervoso a qualsiasi computer balistico, il che succede regolarmente.

Per complicare ancor più le cose, nei secondi che seguono il lancio della truppa, l’astronave sgancia una serie di capsule fasulle che scendono più rapidamente, dal momento che non si sfaldano. In tal modo precedono la fanteria, esplodono e svolgono il ruolo di falsi bersagli, confondendo i radar e ancor di più le idee di coloro che si apprestano a darci il “benvenuto”. Nel frattempo l’astronave, saldamente collegata al segnale direzionale del comandante di plotone, indifferente ai disturbi radar che ha provocato, vi segue in ogni minimo spostamento, calcolando l’impatto per utilizzare il dato in futuro.

Dissoltosì anche il secondo involucro, il terzo aprì automaticamente il primo paracadute. La fase fu breve, ma tutto funzionò nel migliore dei modi. Uno strappo energico a parecchie gravità, poi il paracadute se ne andò per la sua strada e io per la mia. Il secondo paracadute durò più a lungo e così il terzo. Dentro la capsula cominciava a fare un caldo infernale: era tempo di pensare all’atterraggio.

Il terzo involucro si sfaldò subito dopo il distacco del terzo paracadute. Ormai non avevo più niente intorno a me, salvo la tuta potenziata e un uovo di materia plastica. Ero ancora legato con le cinghie all’interno dell’abitacolo, impossibilitato a muovermi, ed era ormai tempo di decidere dove e come sarei atterrato. Senza muovere le braccia (non potevo) schiacciai con il pollice il tasto che attivava il calcolo della distanza dal suolo, che lessi sul quadrante luminoso posto all’interno del casco.

Tre chilometri. Già un po’ troppo vicino per i miei gusti, tanto più che ero l’ultimo. L’uovo aveva raggiunto una velocità costante, quindi non dovevo più restarci chiuso dentro. A giudicare dalla sua temperatura, non si sarebbe disintegrato tanto presto. Così premetti un pulsante con l’altro pollice e me ne liberai.

La prima scarica recise tutte le cinghie, la seconda frantumò il guscio di plastica in otto pezzi… e mi ritrovai all’aperto, seduto a mezz’aria e con la possibilità di guardarmi attorno. Ma c’era di più: tutti gli otto pezzi saltati via erano rivestiti di metallo allo scopo di emanare gli stessi riflessi della mia tuta potenziata. Gli addetti ai radar, esseri viventi o cibernetici che fossero, avrebbero avuto in quel momento il loro daffare per individuarmi fra tutta quella paccottiglia, senza contare le altre migliaia di frammenti e rottami che piovevano da tutte le parti e fluttuavano sopra e sotto di me. Durante l’addestramento, a un fante spaziale mobile si fa constatare da terra, sia a occhio nudo sia con il radar, quanto un lancio confonda le idee di chi sta giù a difendersi. Questo gli serve a vincere la sensazione di trovarsi allo scoperto nei momenti che precedono l’atterraggio. Quella sensazione può facilmente provocare panico, e così si rischia di aprire un paracadute troppo presto diventando un facile bersaglio o di dimenticarsi di aprirlo rompendosi come minimo le caviglie, se non addirittura l’osso del collo.

Mi stirai ben bene, tanto per sgranchirmi, e mi guardai attorno. Poi tornai a chinarmi e mi lanciai in un bel tuffo a faccia in giù, per osservare meglio. Sotto era notte, come previsto, ma i visualizzatori a infrarossi permettono di vedere perfettamente, quando uno ci ha fatto l’abitudine. Il fiume che tagliava la città in diagonale era quasi sotto di me, me lo vedevo correre incontro nitido. La sua temperatura doveva essere superiore a quella del terreno. Non m’importava atterrare su una sponda o sull’altra, mi bastava non finirci dentro: avrei perso tempo prezioso.

Notai un lampo verso destra, su per giù alla mia altezza. Qualche indigeno maldisposto probabilmente aveva centrato uno dei frammenti del mio uovo di plastica. Azionai subito il mio primo paracadute individuale, nell’intento di spostarmi, se possibile, fuori della portata del suo tiro. Mi preparai allo scossone, mi lasciai trasportare, poi fluttuai all’ingiù per circa venti secondi prima di sbarazzarmi del paracadute. Non volevo richiamare l’attenzione su di me scendendo a una velocità diversa da quella del materiale che mi circondava. Evidentemente funzionò, visto che me la cavai.

A circa duecento metri da terra azionai il secondo paracadute. Mi accorsi subito che sarei andato a finire diritto nel fiume. Calcolando che sarei passato circa trenta metri al di sopra di un capannone dal tetto piatto che sorgeva in riva al fiume mi sbarazzai del paracadute e ricorrendo ai propulsori della tuta atterrai in modo un po’ avventuroso sul tetto dell’edificio. Contemporaneamente, cercai il segnale del sergente Jelal.

Scoprii di avere toccato terra sulla sponda sbagliata: la stella di Gelatina brillava sul rilevatore posto all’interno del mio casco molto più a sud di dove avrebbe dovuto essere. Quindi ero io che mi trovavo troppo a nord. Mi portai verso il lato del tetto che guardava sul fiume. Nel contempo calcolai distanza e posizione del capopattuglia più vicino a me, scoprii che era spostato di oltre un chilometro e gli gridai: — Ace, lo schieramento! — Gettai una bomba dietro di me mentre rimbalzavo via dall’edificio e mi accingevo ad attraversare il fiume. Ace rispose come mi sarei dovuto aspettare. Sarebbe dovuto stare al mio posto, ma non aveva voluto abbandonare la sua pattuglia; nello stesso tempo, non gli andava di prendere ordini da me.

Alle mie spalle, il capannone saltò in aria, e lo scoppio mi investì mentre mi trovavo ancora sopra il fiume e non al riparo degli edifici della riva opposta come avevo calcolato. Per poco i miei giroscopi non andarono in pezzi e, quello che è peggio, io con loro. Avevo regolato la bomba sui quindici secondi e… o mi ero sbagliato? D’improvviso mi resi conto che mi ero lasciato prendere dall’ansia, la cosa peggiore che possa capitare quando si è in zona di operazioni. Poco più di un’esercitazione, aveva detto Gelatina, ecco la cosa da tenere presente. Fare le cose con calma e farle bene, a costo di metterci un mezzo secondo in più.

Mentre atterravo ricontrollai la posizione di Ace e dovetti ripetergli di allineare meglio la sua pattuglia. Non mi rispose, ma se ne stava già occupando. Lasciai perdere. Fin tanto che Ace faceva quello che doveva fare, potevo anche chiudere un occhio sulla sua insubordinazione… per ora. Ma una volta tornati a bordo (se Gelatina mi confermava come caposquadra in seconda) avremmo scambiato due parole a quattr’occhi e messo in chiaro chi di noi era il capo. Lui era un caporale di carriera e io soltanto un soldato facente funzioni di caporale, ma lui, in quel momento, era mio subordinato, e ci sono circostanze in cui la disciplina è tutto.

Quello non era certo il momento di pensarci, però. Mentre balzavo al di là del fiume avevo individuato un magnifico bersaglio e volevo raggiungerlo prima che qualcun altro lo notasse: un bel gruppo di costruzioni posto su una collina, probabilmente edifici pubblici, templi o un palazzo. Era qualche chilometro fuori dall’area che stavamo battendo, ma una delle regole del “distruggi” e “squagliatela” è di usare almeno la metà delle proprie munizioni all’esterno dell’area assegnata. In questo modo, il nemico non sa mai esattamente dove ti trovi. Altra regola fondamentale è quella di spostarsi continuamente e agire con la massima rapidità. Quando si lotta contro un numero preponderante di nemici il segreto del successo sta tutto nella rapidità e nella sorpresa.

Stavo richiamando all’ordine Ace per la seconda volta e già caricavo il mio lanciarazzi. La voce di Gelatina si sovrappose nel circuito globale: — Squadrone! Avanzare!

Il mio diretto superiore, sergente Johnson, gli fece eco: — A balzi, numeri dispari, avanzare!

L’ordine mi concedeva venti secondi durante i quali dovevo soltanto aspettare il mio turno, perciò balzai sull’edificio più vicino, puntai il lanciarazzi e localizzai il bersaglio. Poi, dopo aver azionato il primo espulsore, che dà al razzo il tempo di cercarsi l’obiettivo, premetti il secondo espulsore e il proiettile partì. Balzai di nuovo a terra. — Seconda squadra, numeri pari! — dissi. Calcolai mentalmente e diedi l’ordine: — Avanzare!

E feci lo stesso anch’io, balzando sulla vicina fila di edifici. Mentre ero a mezz’aria, spazzai la riva del fiume con il lanciafiamme. Avevano l’aria di costruzioni di legno, e mi pareva giunto il tempo di farne un bel falò. Con un po’ di fortuna quei capannoni potevano contenere materiale infiammabile o magari esplosivi. Mentre mi posavo a terra, il lanciabombe a Y che portavo sulle spalle fece partire due piccoli ordigni HE, uno a destra e l’altro a sinistra, a un paio di centinaia di metri di distanza, ma non riuscii a vederne l’effetto perché in quel preciso istante il mio primo razzo raggiunse l’obiettivo e si scatenò l’inconfondibile (se se n’è già visto uno in precedenza) bagliore di un’esplosione atomica. Non era niente di particolare, naturalmente, meno di due kiloton di ipotetico rendimento, ma d’altra parte nessuno ci tiene a provocare una catastrofe cosmica a due passi da sé, vero? Comunque era sufficiente a far saltare via la testa di quella collina e indurre tutta la città a precipitarsi nei rifugi. Senza contare che gli indigeni che si fossero trovati all’aperto a guardare in su, per almeno un paio d’ore non sarebbero stati in grado di vedere niente, nemmeno il sottoscritto. Il bagliore, s’intende, non avrebbe abbagliato me e i miei compagni: noi guardiamo attraverso i visualizzatori dei caschi rivestiti di piombo e durante l’addestramento veniamo allenati a proteggere la vista con la massima prontezza.

Chiusi per un attimo gli occhi, poi li riaprii fissandoli su un abitante della città che stava sbucando dall’apertura di un edificio proprio di fronte a me. Mi guardò, lo guardai, poi lui fece per alzare qualcosa, un’arma suppongo. In quell’istante Gelatina ordinò: — Numeri dispari, avanzare!

Non avevo tempo da perdere con quel tale: mi trovavo ancora a mezzo chilometro buono dal punto in cui avrei dovuto essere in quel momento. Con il lanciafiamme che tenevo con la sinistra abbrustolii l’indigeno, poi balzai sull’edificio dal quale era uscito e iniziai a contare. Un lanciafiamme serve prima di tutto a incendiare, ma è ottimo anche come arma difensiva, quando il tempo stringe, perché non occorre prendere la mira con troppa cura.

L’ansia e l’agitazione di arrivare in tempo mi fecero saltare troppo in alto, con una traiettoria troppo ampia. La tentazione di trarre tutto il possibile dai propulsori è sempre forte, ma non fate mai questa sciocchezza poiché finite per trovarvi in aria abbastanza a lungo da offrire un magnifico bersaglio al nemico. Il modo corretto di avanzare è quello di sfiorare ogni edificio che si incontra, sfruttando il riparo che offre prima di rimbalzare via. L’importante è non fermarsi mai in un posto più di un secondo o due. Il nemico, così, non avrà il tempo di prendervi di mira. Spostarsi di continuo, ecco il segreto: trovarsi regolarmente altrove.

Il balzo, tuttavia, mi riuscì male: troppo lungo per atterrare su una fila di edifici, troppo corto per raggiungere quella successiva. Mi accorsi che stavo planando sulla sommità di una costruzione. Non un bel tetto piatto sul quale potessi fermarmi tre secondi per lanciare un altro piccolo razzo A, ma una giungla di tubi e puntelli e altre strutture. Forse uno stabilimento, o un impianto chimico, ma comunque l’ultimo posto su cui atterrare. E, per colmo di sventura, in quel punto stazionava una mezza dozzina di indigeni. Si trattava, fra l’altro, di umanoidi alti quasi tre metri, molto più magri di noi e con una temperatura più alta della nostra. Non portano indumenti, e visti attraverso i visualizzatori risaltano come insegne al neon. A occhio nudo, di giorno, sembrano ancora più buffi. Comunque, preferisco combattere con loro piuttosto che con gli aracnidi. Quelli sono mostri che mi fanno venire la pelle d’oca.

Se quei tizi si trovavano sul tetto prima che il mio razzo esplodesse, non erano in grado di vedere né me né altro. Ma non potevo esserne sicuro, e in ogni caso non volevo scontrarmi con loro, non era quello lo scopo dell’incursione. Perciò, con qualche balzo in più, deviai dal mio percorso spargendo una manciata di pillole incendiarie tanto per tenerli occupati. Poi atterrai, saltai di nuovo, chiamai: — Seconda squadra! Numeri pari… Avanzare! — e continuai la mia marcia per colmare la distanza, cercando a ogni nuovo balzo di individuare un bersaglio che valesse il lancio di un razzo A. Me ne restavano ancora tre, di razzi così, e non intendevo riportarmeli a bordo. D’altra parte mi era stato inculcato il concetto che le armi atomiche dovevano rendere per quello che costavano… ed era solo la seconda volta che mi venivano concesse in dotazione.

Al momento, stavo cercando di individuare l’impianto idrico. Colpirlo significava rendere inabitabile l’intera città costringendo gli abitanti a evacuarla senza ricorrere a spargimenti di sangue: proprio il genere di missione che ci era stata affidata. L’impianto, secondo la carta topografica che avevamo studiato sotto ipnosi, doveva essere circa cinque chilometri più a nord del punto in cui mi trovavo.

Però non riuscivo a vederlo. Forse i miei balzi non mi portavano abbastanza in alto. Fui tentato di andare ancora più in su, ma ricordai quello che Migliaccio mi aveva raccomandato, cioè di non cercare a tutti i costi di procurarmi una medaglia, e così rinunciai. Regolai sull’automatico il lanciabombe a Y, in modo che mollasse un paio di confetti ogni volta che mi posavo. Tra un balzo e l’altro appiccavo fuochi qua e là, a casaccio, intanto cercavo di scoprire l’acquedotto idrico o qualche altro bersaglio degno di nota.

Ecco, qualcosa c’era, alla distanza giusta… Impianto idrico o no, era certo un bersaglio importante. Balzai sulla cima dell’edificio più alto che si trovava nelle vicinanze, presi bene la mira e mollai il terzo razzo. Mentre tornavo giù, sentii la voce di Gelatina: — Johnnie… Red. Manovra di ricongiungimento.

Confermai l’ordine, sentii Red che confermava a sua volta, e sintonizzai il mio segnale sull’emissione intermittente, in modo che Red sapesse esattamente dov’ero. Poi, mentre ordinavo: — Seconda squadra! Cominciare l’accerchiamento. Comandanti di pattuglia, confermare l’ordine — rilevai la posizione esatta di Red.

Le pattuglie Quattro e Cinque risposero: — Ricevuto. — Ace invece disse: — Abbiamo già iniziato la manovra. Guarda che resti indietro.

Il segnale luminoso di Red indicava che l’ala destra si trovava quasi di fronte a me, a una ventina di chilometri. Per tutti i diavoli! Ace aveva ragione, dovevo sbrigarmi, altrimenti non sarei riuscito a coprire in tempo la distanza. Tra l’altro, dovevo sbarazzarmi di un paio di quintali di munizioni e altre cosette che avevo ancora addosso, trovando il tempo di usarle. Eravamo atterrati in formazione a V, con Red e io al vertice delle due estremità della tenaglia. Ora dovevamo chiuderla, formando un cerchio intorno al punto di raccolta: il che significava che dovevamo percorrere più spazio degli altri e fare ugualmente la nostra parte.

L’avanzata a balzi era finita, quando cominciammo la manovra di ricongiungimento. Potevo smetterla di contare e concentrarmi sulla necessità di fare in fretta. Anche se ci si muoveva velocemente il pericolo era in agguato ovunque. All’inizio potevamo beneficiare dell’enorme vantaggio della sorpresa: avevamo toccato terra senza venire colpiti (perlomeno, speravo che nessuno fosse stato centrato durante l’atterraggio) e lo schieramento che avevamo assunto ci consentiva di sparare all’impazzata senza timore di colpirci l’un l’altro, mentre i nemici rischiavano di centrarsi a vicenda nel tentativo di respingerci, ammesso che potessero individuarci. (Non sono un esperto di teoria dei giochi, ma credo che nessun calcolatore avrebbe potuto analizzare quello che stavamo facendo in tempo utile per prevedere la nostra mossa successiva.)

Adesso, però, gli sbarramenti difensivi cominciavano a farsi sentire, più o meno coordinati che fossero. Schivai per un pelo due granate che scoppiarono tanto vicine da farmi battere i denti nonostante la protezione della tuta potenziata. A un tratto fui persino sfiorato da una sorta di raggio che mi fece rizzare i capelli sul cranio e mi lasciò per qualche istante paralizzato, come se avessi ricevuto la scossa. Se la tuta non fosse stata già predisposta al balzo, temo che non mi sarei più mosso di là.

Cose del genere spingono a chiedersi chi ce l’ha fatto fare di entrare nell’Esercito, solo che in quel momento io avevo altro per la testa che cercare una risposta. Per ben due volte, saltando alla cieca sui tetti, ero atterrato nel bel mezzo di un gruppo di nemici… ed ero schizzato via all’istante, aprendomi il varco a colpi di lanciafiamme.

In tale concitazione, avevo coperto in un tempo minimo quasi metà del mio tragitto, circa sei chilometri, senza però riuscire a indirizzare con precisione i proiettili che avevo sparato. Il mio lanciabombe a Y si era scaricato due salti prima. Trovandomi solo in una specie di cortile, mi fermai per ricaricarlo con la riserva di bombe HE. Approfittai della sosta per rilevare la posizione di Ace. Potei così verificare che avevo percorso una distanza sufficiente per permettermi di dedicare un po’ di tempo agli ultimi due razzi A di cui disponevo. Saltai in cima al più alto edificio che si trovava nelle vicinanze.

Si stava facendo giorno. Rialzai i visualizzatori a infrarossi e diedi un rapido sguardo a occhio nudo, cercando qualsiasi cosa alle nostre spalle che potesse costituire un bersaglio. Non avevo tempo per fare il difficile.

C’era qualcosa all’orizzonte, in direzione dello spazioporto, forse una torre di controllo o addirittura un’astronave. (Quasi di fianco, e circa alla stessa distanza, sorgeva un’enorme struttura che non riuscii assolutamente a identificare.) Lo spazioporto si trovava alla distanza massima di lancio, comunque lo mostrai al razzo e gli dissi: — Cerca di arrivarci, bello! — Lo feci partire, poi puntai l’altro razzo verso il bersaglio più vicino, lo scagliai e balzai via a mia volta.

L’edificio che mi era servito da riparo fu colpito nell’attimo in cui mi alzavo in aria. Forse uno dei pelleossa aveva pensato, e a ragione, che valesse la pena sacrificare l’edificio pur di abbattere uno di noi, oppure qualcuno dei miei compagni stava distribuendo bombe in maniera un po’ troppo disinvolta. Comunque fosse, non mi fidavo di fare un altro balzo, nemmeno a volo radente, perciò decisi di attraversare un paio di edifici, invece di superarli.

Calai di nuovo il visualizzatore sugli occhi e nel toccare terra afferrai il grosso lanciafiamme che portavo a tracolla. Con un raggio-lama a piena potenza attaccai un muro di fronte a me: una sezione di parete cadde e io mi precipitai con impeto nello squarcio.

E feci marcia indietro anche più in fretta.

Non capii che razza di edificio avessi sfondato. Chiesa o quartier generale militare, qualsiasi cosa fosse si presentava come un enorme stanzone con all’interno tanti spilungoni scheletrici quanti mai avrei voluto vederne in tutta la vita.

Probabilmente non si trattava di una chiesa, visto che uno dei pelleossa sparò al sottoscritto, già intento a svignarsela velocissimo. Il proiettile rimbalzò sulla tuta potenziata, rintronandomi le orecchie e facendomi barcollare, ma senza ferirmi. Bastò comunque a ricordarmi che non potevo andarmene senza lasciare un ricordino della mia visita. Afferrai la prima cosa che mi venne a tiro e la lanciai. La mossa seminò il panico. Come continuano a ripeterci al corso base, fare subito qualcosa di concreto è molto meglio che dissertare a posteriori sul modo in cui si sarebbe dovuto operare.

Per puro caso avevo fatto la cosa giusta. La bomba che avevo lanciato era di un tipo speciale, ne avevamo in dotazione solo una a testa, con l’istruzione di usarla soltanto nel caso si fosse presentata l’occasione adatta a sfruttarla in pieno. Mentre la tiravo, il congegno si mise a gracidare nel linguaggio pelleossa qualcosa di simile a: “Sono una bomba a trenta secondi… Ventinove… Ventotto… Ventisette…”.

Era studiata per far saltare i nervi al nemico. Forse ci riusciva, ma sta di fatto che metteva a dura prova anche i miei. Una bomba che esplode subito è senz’altro meno efferata. Non aspettai certo la fine del conto alla rovescia: schizzai via, chiedendomi se quei poveracci avrebbero trovato un numero sufficiente di porte e finestre per squagliarsela in tempo.

Al vertice del balzo rilevai la posizione di Red e nell’atterrare quella di Ace. Stavo rimanendo di nuovo indietro. Dovevo sbrigarmi.

Tre minuti più tardi, per fortuna, avevo colmato la distanza. Red era al mio fianco sinistro, a soli ottocento metri. Fece rapporto a Gelatina, che udimmo ruggire soddisfatto, rivolto all’intero squadrone: — Il cerchio è chiuso, ma il segnale non è ancora arrivato. Avanzare lentamente al centro e completare l’azione di disturbo, distruggendo quello che resta. Ma attenti ai compagni che avete di fianco. Non abbattete anche loro. Ottimo lavoro, finora, perciò non rovinate tutto. Squadrone! Per squadre… adunata!

Pareva un ottimo lavoro anche a me, nel complesso: la città era quasi tutta in fiamme e, sebbene fosse ormai pieno giorno, risultava difficile stabilire se fosse meglio procedere a occhio nudo o con i visualizzatori, tanto il fumo era denso.

Johnson, il nostro caposquadra, ordinò: — Seconda squadra, appello!

Gli feci eco: — Pattuglie Quattro, Cinque e Sei… appello! — La varietà di circuiti messi a nostra disposizione dai nuovi apparecchi di comunicazione semplificava molto le cose. Gelatina poteva parlare con tutti, fanti e capisquadra, un caposquadra poteva chiamare l’intera squadra e i suoi graduati, e lo squadrone poteva adunarsi impiegando la metà del tempo, cosa essenziale quando i secondi sono preziosi. Ascoltavo la pattuglia Quattro rispondere all’appello, e intanto facevo l’inventario delle munizioni che mi restavano lanciando una bomba verso un pelleossa sbucato da un angolo. Il ridicolo spilungone sparì e io schizzai altrove. “Completare l’azione di disturbo” aveva ordinato Gelatina”.

Ci fu un attimo di silenzio durante l’appello della Quattro, finché il capopattuglia non si ricordò che spettava a lui rispondere al posto di Jenkins. La pattuglia Cinque filò via che era una bellezza, cominciavo a sentirmi molto più tranquillo quando, anche nella pattuglia di Ace, l’appello si interruppe dopo il numero quattro.

Chiamai: — Ace, dov’è Dizzy?

— Zitto — disse lui. — Numero sei, segnalare la propria presenza.

— Sei! — rispose Smith.

— Sette!

— Pattuglia Sei, manca Flores — terminò Ace. — Il capopattuglia si allontana in perlustrazione.

— Un uomo assente — riferii a Johnson. — Flores, pattuglia Sei.

— Assente o morto?

— Non lo so. Il capopattuglia e il vicecaposquadra si allontanano per cercarlo.

— Johnnie, lascia che ci vada solo Ace.

Non sentii e perciò non risposi. Percepii, invece, la voce di Johnson che riferiva a Gelatina, che in risposta imprecò. Ora, intendiamoci, non è che volessi guadagnarmi una medaglia, ma tocca proprio al vicecaposquadra andare in cerca dei dispersi: è lui il segugio, l’ultimo a mettersi in salvo, l’uomo sacrificabile. Il capopattuglia ha altro da fare, mentre, come ormai avrete capito, il vicecaposquadra non è affatto necessario finché il caposquadra è vivo.

In quel preciso istante mi sentivo decisamente sacrificabile, anzi quasi sacrificato poiché mi stava giungendo il più dolce suono dell’universo: il segnale. La lancia che doveva portarci a bordo stava per atterrare. Ancora qualche istante e avrei sentito suonare la ritirata. Il segnale è un razzo robot che viene lanciato a terra dalla lancia, si conficca nel terreno e inizia a diffondere quella musichetta tanto gradita. La lancia atterra automaticamente sopra il razzo tre minuti dopo, ed è meglio tenersi pronti perché l’autobus non aspetta, e dopo quello non ne partono altri.

Ma non si pianta in asso un commilitone, finché resta un’ultima speranza che sia ancora vivo.

Questo, i Rompicollo di Rasczak e nessun altro reggimento di Fanteria spaziale mobile lo faranno mai. Si va a cercarlo, costi quel che costi.

Sentii Gelatina ordinare: — Forza, ragazzi! Avvicinarsi. Formare il cerchio di protezione. Tenersi pronti!

E sentii la voce dolcissima del segnale: - … per la gloria eterna della Fanteria, splenda il nome, splenda il nome di Rodger Young!

Desideravo filarmela in quella direzione con tanta intensità da sentirmi quasi male. Invece andavo da tutta un’altra parte, inseguendo il segnale di Ace e seminando bombe, pillole incendiarie e gli altri ordigni che mi restavano per essere il più leggero possibile. — Ace, hai individuato il suo segnale?

— Sì. Torna indietro, non servi!

— Ormai ti vedo a occhio nudo. Dov’è Dizzy?

— Proprio davanti a me, a circa quattrocento metri. Sgombera! Me la vedo io, è un mio uomo.

Non risposi. Mi limitai a tagliare in senso obliquo per raggiungere Ace nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi Dizzy.

Trovai il mio capopattuglia chino su Flores, un paio di spilungoni stesi a terra e altri che se la davano a gambe. Planai accanto a lui. — Tiriamolo fuori dalla tuta… La lancia sarà qui da un momento all’altro.

— Ma è ferito gravemente!

Guardai e mi resi conto che aveva ragione: c’era effettivamente un buco nella tuta e il sangue sgorgava copiosamente. Non sapevo che cosa fare. Per raccogliere un ferito lo si estrae dalla tuta potenziata, poi lo si prende tra le braccia (i propulsori di una tuta potenziata permettono qualsiasi sforzo) e si schizza via. Senza la tuta un uomo pesa meno delle munizioni che ha scaricato durante l’attacco.

— Che cosa facciamo?

— Lo trasportiamo — disse Ace, in tono sbrigativo. — Agguantalo per la cintura, a sinistra. — Lui lo agguantò a destra, e insieme riuscimmo a metterlo in piedi. — Reggi forte. Ora… pronto a balzare… uno… due!

Prendemmo il volo insieme. Poco lontano, senza slancio. Un uomo solo non sarebbe riuscito a sollevare Flores da terra: una tuta corazzata è molto pesante. In due, si poteva anche farcela.

Iniziammo a inanellare un balzo dietro l’altro, mentre Ace teneva il tempo per coordinare i nostri sforzi. A ogni atterraggio, eravamo costretti a modificare la presa e a rimettere in assetto il corpo di Dizzy Flores. I suoi giroscopi dovevano essere fuori uso.

Udimmo il segnale interrompersi mentre la lancia planava sul razzo robot. La vidi atterrare. Era ancora molto lontana. Sentimmo il sergente di squadrone gridare: — In ordine di numero, prepararsi a salire a bordo!

E Gelatina che sbraitava: — Annulla quell’ordine!

Finalmente ci ritrovammo all’aperto, nella radura, e vedemmo la lancia ritta sulla coda. Udimmo anche la sirena che ne annunciava il decollo. Lo squadrone era ancora a terra, in cerchio di protezione, raccolto dietro lo scudo che avevano formato.

A quel punto arrivò l’ordine di Gelatina: — In ordine di numero, salire a bordo!

Eravamo ancora troppo distanti. Vedevo gli uomini staccarsi uno alla volta dalla prima pattuglia e infilarsi nella lancia, mentre il cerchio di protezione si stringeva.

Poi una figura si allontanò dal cerchio e si diresse verso di noi a una velocità possibile solo a un comandante di squadrone.

Gelatina ci raggiunse mentre eravamo in aria, afferrò Flores per il lanciabombe a Y e ci aiutò a trasportarlo.

Tre balzi furono sufficienti per arrivare alla lancia. Tutti gli altri erano entrati, ormai, ma il portello era ancora aperto. Vi infilammo Flores, poi richiudemmo il portello proprio nell’istante in cui il pilota della lancia urlava che gli avevamo fatto perdere l’appuntamento e avremmo fatto tutti la fine dei topi. Gelatina non gli badò. Deponemmo Flores a terra e ci sdraiammo accanto a lui. Schiacciati dall’accelerazione, udimmo Gelatina borbottare tra sé: — Tutti presenti, comandante. Tre uomini feriti, ma tutti presenti.

Devo dire una cosa riguardo alla comandante Deladrier: non esiste pilota migliore di lei. Il rendez-vous tra una lancia e l’astronave in orbita deve essere calcolato con esattezza assoluta. Come avvenga non lo so, ma è così. Ed è impossibile ritardarlo o anticiparlo.

Lei ci riuscì. Vide sul suo monitor che la lancia non era decollata in tempo, fece marcia indietro, riprese velocità, arrivò al momento giusto e ci raccolse a bordo, così a occhio, senza avere il tempo di fare i calcoli. Se mai il padreterno dovesse avere bisogno di un aiutante per tenere in ordine il corso delle stelle, so a chi potrebbe rivolgersi.

Flores morì durante il viaggio di ritorno alla base.

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