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Mi fece paura e l’amo mollai,

A voltarmi neanche pensai,

Fino a casa non mi fermai

Ma mi chiusi nella stanza di mamma

Yankee Doodle fatti duro,

Yankee Doodle bello mio,

Pensa alla musica, tieni il passo

E le ragazze portati a spasso!


In realtà, non avevo mai pensato seriamente di arruolarmi E, comunque, non nella Fanteria. Figuriamoci! Avrei preferito piuttosto prendere dieci frustate sulla pubblica piazza e sentirmi dire da mio padre che ero la vergogna di un casato onoratissimo.

Verso l’ultimo anno delle superiori avevo parlato a mio padre del fatto che stavo accarezzando l’idea di arruolarmi come volontario nel Servizio federale. Credo che qualsiasi ragazzo ci pensi, quando il diciottesimo compleanno si profila all’orizzonte, e il mio cadeva proprio nella settimana in cui dovevo sostenere la maturità. In genere tutti ci fanno un pensierino, soppesano i pro e i contro, poi finiscono per fare qualcos’altro: s’iscrivono all’università, si cercano un impiego e così via. Probabilmente avrei fatto lo stesso anch’io, se il mio più caro amico non avesse preso la decisione fermissima di prestare il servizio militare. Carl e io eravamo sempre stati inseparabili: avevamo frequentato il liceo e adocchiato le ragazze insieme, fissato appuntamenti a quattro, partecipato alle stesse compagnie e smanettato insieme con gli elettroni nel laboratorio di casa sua. Io non sono molto portato per la teoria, ma in compenso me la cavo bene con il saldatore. Carl era la mente e io eseguivo le sue istruzioni. Era divertente. Tutto quello che facevamo insieme era divertente. I genitori di Carl non erano ricchi, al contrario di mio padre, ma questo per noi non rappresentava un problema. Quando papà mi regalò un elicottero Rolls, in occasione del mio quattordicesimo compleanno, l’apparecchio fu tanto di Carl quanto mio, e allo stesso modo io consideravo il laboratorio che Carl aveva in cantina.

Quindi, quando Carl mi annunciò che prima di continuare gli studi avrebbe firmato una ferma di due anni, capii che non potevo tirarmi indietro. Era fermamente convinto della sua scelta, sembrava pensare che fosse naturale, giusto e ovvio.

Così, gli dissi che mi sarei arruolato anch’io.

Mi guardò scuotendo la testa. — Il tuo vecchio non te lo permetterà.

— Ah, no? E come potrebbe impedirmelo? — Infatti non poteva, perlomeno legalmente. Il servizio militare è la prima scelta veramente libera che un ragazzo può fare in vita sua. Qualche volta è anche l’ultima. Quando un giovane, o una giovane, raggiunge il suo diciottesimo compleanno, può arruolarsi volontario e nessuno ha il diritto di opporsi.

— Te ne accorgerai — disse Carl, e cambiò argomento.

Ne parlai a mio padre, presentandogli la cosa con molta diplomazia, tanto per sondare il terreno.

Lui posò il giornale e il sigaro, poi mi guardò. — Figliolo, ti sta dando di volta il cervello? — disse.

Risposi che non mi pareva affatto.

— Eppure, a sentirti si direbbe di sì. — Sospirò. — Mah! Del resto, dovevo aspettarmelo. È una fase prevedibile nella vita di un ragazzo. Ricordo quando hai imparato a camminare. Non eri più un bambino. Sinceramente, per un certo periodo sei stato una piccola peste. Hai rotto un vaso Ming di tua madre. Apposta, ci scommetterei la testa, però eri troppo piccolo per renderti conto del suo valore e così te la sei cavata con uno schiaffo sulla mano. Mi ricordo anche il giorno in cui hai provato a fumare di nascosto uno dei miei sigari, e quanto sei stato male. Tua madre e io ci siamo guardati bene, quella sera a tavola, dall’osservare che non avevi mangiato niente e, finora, non te ne avevo mai parlato. I ragazzi devono fare certe esperienze e imparare a loro spese che è meglio evitare i vizi dei grandi. Ti abbiamo visto mentre diventavi adolescente e iniziavi ad accorgerti che le ragazze erano diverse… e meravigliose. — Sospirò di nuovo. — Stadi normalissimi, ripeto. E l’ultimo, quello che segna la fine dell’adolescenza, è quando un ragazzo decide di arruolarsi per indossare una bella uniforme, oppure si mette in testa di essere innamorato, come nessuno lo è stato mai prima di lui, e pretende di sposarsi senza perdere un minuto di tempo. Oppure entrambe le cose. — Sorrise con malinconia. — Nel mio caso, si trattava proprio di entrambe. Ma riuscii a evitarle tutte e due in tempo per non comportarmi da imbecille e rovinarmi la vita.

— Ma, papà, non mi rovinerei affatto la vita! Si tratta solo di una ferma, non della scelta di intraprendere la carriera militare.

— Facciamola finita con questa storia, vuoi? Stammi a sentire, e lascia che ti dica io quello che farai, e di tua spontanea volontà. Prima di tutto, la nostra famiglia non si occupa di politica e cura solo i propri interessi da oltre cento anni. Non vedo perché proprio tu dovresti rompere questa lodevole tradizione. Immagino che queste idee te le abbia messe in testa quel tale a scuola… come si chiama? Sai di chi parlo.

Parlava del nostro insegnante di storia e filosofia morale: un veterano, naturalmente. — Il signor Dubois.

— Già. Che nome idiota, sembra fatto apposta per lui. Straniero, senza dubbio. Dovrebbe essere proibito dalla legge utilizzare le scuole come centri di reclutamento. A proposito, bisogna che scriva una lettera di protesta. Un contribuente avrà pure i suoi diritti!

— Ma, papà, ti assicuro che lui non c’entra affatto. Lui… — M’interruppi, non sapendo come spiegarmi. Dubois si dava un mucchio di arie e si comportava come se nessuno di noi valesse abbastanza per prestare il servizio militare. Mi era antipatico. — Lui, caso mai, fa di tutto per scoraggiarci.

— Mmm. Purché non sia uno stratagemma per portarmi fuoristrada. Lasciamo perdere. Dopo la maturità, studierai economia a Harvard, questo lo sai già. Dopodiché, andrai alla Sorbona, viaggerai un po’ e incontrerai qualcuno dei nostri agenti per imparare come si trattano gli affari all’estero. Poi tornerai a casa e andrai a lavorare. Inizierai con il solito posto di secondo piano, magazziniere o qualcosa del genere, tanto per salvare la forma, ma in breve ti troverai dirigente, perché io non ringiovanisco certo e prima prenderai il mio posto meglio sarà. Appena sarai pronto e lo desidererai sarai tu il capo. Allora, che cosa te ne pare come programma, paragonato a quello di buttare via due anni preziosi?

Non dissi niente. Per me quei discorsi non erano una novità, ci avrei pensato.

Papà si alzò e mi mise una mano sulla spalla. — Figliolo, non credere che non ti capisca. Comprendo le tue ragioni, ma devi guardare in faccia la realtà. Se ci fosse una guerra, sarei il primo a dirti di fare il tuo dovere e metterei gli affari al servizio dello sforzo militare. Ma, grazie al cielo, il tempo delle guerre è superato. Il nostro pianeta è pacifico, felice e in ottime relazioni con gli altri. Perciò, che diavolo sarebbe questo cosiddetto Servizio federale? Parassitismo, puro e semplice. Un organismo privo di funzioni, incredibilmente antiquato, che vive alle spalle dei contribuenti. Una costosissima soluzione per dare modo a persone inferiori, che altrimenti resterebbero senza lavoro, di vivere qualche anno a spese dello Stato e darsi delle arie per tutta la vita. È questo che vuoi fare?

— Carl non è inferiore a nessuno.

— Scusami. Carl è un caro ragazzo, ma mal consigliato. — Si accigliò, poi sorrise. — Figliolo, avevo in mente di farti una sorpresa, un regalo per la maturità. Invece te ne parlo subito, e chissà che non ti aiuti a levarti dalla testa queste sciocchezze. Non che io sia preoccupato di ciò che potresti fare, sono convinto che tu sia dotato di un certo buon senso, nonostante la tua giovane età. Ma sei confuso, lo so. E questo ti chiarirà le idee. Riesci a indovinare di che cosa si tratta?

— Ecco… non so.

Rise. — Una vacanza su Marte.

Dovevo essere rimasto a bocca aperta. — Accidenti papà, non avevo idea…

— Volevo farti una bella sorpresa, e vedo che ci sono riuscito. Lo so che a voi giovani piace viaggiare, sebbene io non capisca proprio che gusto ci si trovi, dopo averlo provato una volta. Comunque, per te è il momento di godertela… e fare un viaggio da solo. Sì, da solo, non te l’avevo detto? Sarai padrone di fare quello che vuoi, anche perché, quando avrai le tue responsabilità, non ti resterà nemmeno il tempo per una gita sulla Luna. — Riaprì il giornale. — No, non ringraziarmi. Sparisci, invece, e lasciami finire di leggere il giornale. Aspetto gente, e saranno qui tra poco. Affari, s’intende.

Me la svignai. Senza dubbio lui pensava di avere sistemato la cosa e, probabilmente, anch’io lo credevo. Marte! Un viaggio su Marte, e da solo! Ma a Carl non dissi niente. Avevo il vago sospetto che avrebbe considerato quel viaggio come un tentativo di corruzione. E forse lo era. Comunque, a Carl riferii solo che mio padre e io avevamo opinioni diverse sulla questione.

— Già — disse lui. — Anche con mio padre è lo stesso. Ma si tratta della mia vita, non della sua.

Ci pensai seriamente durante l’ultima lezione del corso di storia e filosofia morale. Quelle lezioni erano diverse da tutte le altre perché, pur essendo obbligatorio frequentarle, non era necessario ottenere la promozione. Al signor Dubois, inoltre, non sembrava importare affatto che noi lo capissimo o meno. Ti puntava addosso il suo moncherino sinistro (non chiamava mai per nome) e sparava una domanda. E la discussione cominciava.

Ma quell’ultimo giorno parve intenzionato a scoprire che cosa avevamo imparato. Una nostra compagna gli disse a bruciapelo: — Mia madre sostiene che la violenza non ha mai risolto niente.

— Ah, sì? — Il signor Dubois la guardò come se non la vedesse. — Sicuramente i cartaginesi sarebbero lieti di saperlo. Perché tua madre non va a dirglielo? O perché non lo fai tu?

Non era la prima volta che litigavano, visto che nella sua materia non si poteva essere bocciati non c’era bisogno di tenersi buono il signor Dubois.

— Mi sta prendendo in giro? — ribatté lei, irritata. — Lo sanno tutti che Cartagine è stata distrutta migliaia di anni fa.

— Mi era sembrato che fossi tu a non saperlo — disse lui con aria cupa. — Ma, dal momento che lo sai, non sembra anche a te che la violenza abbia deciso il destino di quella città in maniera alquanto definitiva? In ogni caso, non stavo prendendo in giro te personalmente, stavo deridendo una teoria decisamente assurda, abitudine alla quale non rinuncerò mai. A chiunque si attenga alla dottrina storicamente inesatta, e completamente immorale, che la violenza non ha mai risolto niente, vorrei consigliare di evocare i fantasmi di Napoleone Bonaparte e del duca di Wellington, e lasciare che discutano la cosa tra loro. Il fantasma di Hitler potrebbe fare da arbitro e la giuria potrebbe essere formata dal dodo, dall’alca impenne e dal piccione viaggiatore. La violenza e la forza bruta nella storia hanno risolto più situazioni di qualsiasi altro elemento, e chiunque pensa il contrario è un illuso. Le specie intelligenti che hanno dimenticato questa verità fondamentale hanno regolarmente pagato l’errore con la vita e la libertà.

Sospirò. — Un altro anno, un’altra classe… e, per me, un altro fallimento. A un ragazzo si possono insegnare delle nozioni, ma non lo si può indurre a pensare. — D’improvviso puntò il moncherino verso di me. — Tu. Qual è la differenza morale, se c’è, tra un soldato e un civile?

— La differenza — risposi con prontezza — è nel campo delle virtù civiche. Un soldato si fa carico personalmente della responsabilità riguardante la sicurezza del corpo politico di cui è membro, difendendolo, se necessario, al prezzo della propria vita. Un civile, no.

— Le parole esatte del libro — disse lui, sprezzante. — Ma le capisci? Credi a quello che hai detto?

— Ecco… non so, signore.

— Ma certo che non lo sai! Scommetto che nessuno di voi saprebbe riconoscere la virtù civica nemmeno se si materializzasse e vi urlasse in faccia. — Consultò l’orologio. — E con questo abbiamo finito, ma finito sul serio. Forse ci incontreremo di nuovo in circostanze più allegre, o forse no. Potete andare.


Di lì a poco ci fu l’esame di maturità e tre giorni dopo il mio compleanno, seguito a meno di una settimana da quello di Carl… e ancora non avevo detto al mio amico che non mi sarei arruolato. Naturalmente lui l’aveva capito da sé, ma non ne avevamo discusso apertamente. Era troppo imbarazzante. Così, mi limitai a combinare un appuntamento con lui per il giorno seguente al suo compleanno e andammo insieme all’ufficio di reclutamento.

Sugli scalini del Palazzo federale incontrammo Carmencita Ibañez, una nostra compagna di classe e una delle più deliziose rappresentanti del suo sesso. Carmen non era la mia ragazza. In realtà, non era la ragazza di nessuno, dato che non usciva mai due volte di fila con lo stesso ragazzo e ci trattava tutti con la stessa gentilezza un po’ impersonale. Io, però, la conoscevo bene: veniva spesso a nuotare nella nostra piscina olimpionica. A volte ci veniva insieme a un compagno, a volte insieme a un altro. A volte, su insistenza di mia madre, veniva da sola. Mia madre diceva che Carmencita esercitava un’ottima influenza. Una volta tanto, aveva ragione.

Carmencita ci vide e ci aspettò, sorridendo. — Ehi, ragazzi!

— Salve, Occhi belli - dissi. — Che cosa ci fai da queste parti?

— Non lo immagini? Oggi è il mio compleanno.

— Davvero? Cento di questi giorni.

— E così vengo ad arruolarmi.

— Oh… — Credo che Carl fosse sorpreso quanto me.

Ma Carmencita era fatta così: non era una chiacchierona e sapeva tenere per sé i fatti suoi. — Dici sul serio? — aggiunsi con aria idiota.

— Perché dovrei scherzare? Voglio fare il pilota spaziale… o, almeno, intendo provarci.

— Non vedo perché non dovresti riuscirci — disse subito Carl. Aveva ragione, anzi adesso so che aveva ragione da vendere. Carmen era piccola e minuta, con un’ottima salute fisica e riflessi perfetti, campionessa di tuffi e bravissima in matematica. Io me l’ero cavata con un sette in algebra e un sei in matematica finanziaria; lei aveva frequentato tutti i corsi di matematica che la nostra scuola offriva e, oltre a quelli obbligatori, aveva seguito corsi di perfezionamento. Ma non mi era mai venuto in mente di chiedermi perché lo facesse. La verità era che Carmencita era così bella che nessuno pensava potesse anche avere un cervello.

— Anche noi… cioè, anch’io sono qui per arruolarmi — disse Carl.

— Lo stesso vale per me — dissi io. In realtà, non avevo ancora deciso, ma la mia bocca parlò per conto suo.

— Magnifico!

— Chiederò anch’io di diventare pilota spaziale — proseguii in tono fiero. Carmencita non si mise a ridere. Disse invece con grande serietà: — Che bellezza! Magari durante l’addestramento incapperemo uno nell’altro. Lo spero.

— Alludi a un’eventuale collisione? — disse Carl. — Non sarebbe il modo migliore di diventare pilota.

— Non essere sciocco, Carl. Parlavo di un incontro a terra. Anche tu vuoi diventare pilota?

— Io? No — disse Carl. — Non ho la stoffa del camionista. Opterei per la Ricerca e sviluppo in campo astronomico, se mi accettano. Vorrei occuparmi di elettronica.

— Capirai! Così magari ti spediscono a congelare su Plutone. Sto scherzando. Ti dico invece “in bocca al lupo”. Allora, ci decidiamo a entrare?

Il centro di reclutamento era nell’atrio, una specie di chiosco, separato dalla sala da una ringhiera. Alla scrivania sedeva un sergente con una vistosissima uniforme da parata e il petto ricoperto di nastrini che per me non significavano niente. Il braccio destro gli era stato portato via talmente di netto che la giacca era stata confezionata senza manica. Inoltre, avvicinandosi alla ringhiera, si poteva vedere che non aveva le gambe.

La cosa non pareva avvilirlo. Carl disse: — Buongiorno. Voglio arruolarmi.

— Anch’io — feci eco.

Lui ci ignorò. Dalla sua sedia accennò una specie di inchino e disse: — Buongiorno, signorina. In che cosa posso esserle utile?

— Voglio arruolarmi anch’io.

Lui sorrise. — Brava ragazza. Vada nella stanza due zero uno e chieda del maggiore Rojos. Si occuperà di lei. — La guardò dalla testa ai piedi. — Pilota? — chiese.

— Se è possibile…

— Ne ha tutte le caratteristiche. Bene, vada dalla signorina Rojos.

Con un ringraziamento al sergente e un arrivederci a noi, Carmencita se ne andò. L’uomo riportò la sua attenzione su di noi e ci studiò senza nemmeno l’ombra dell’interesse che aveva dimostrato per Carmencita. — Allora — chiese — dove volete arruolarvi? In salmeria?

— Oh, no! — protestai. — Voglio fare il pilota.

Mi fissò, poi distolse lo sguardo senza fare commenti. — E tu? — chiese a Carl.

— Vorrei entrare nel corpo di Ricerca e sviluppo — rispose Carl con aria seria. — Specializzazione elettronica, possibilmente. Mi risulta che le probabilità di essere ammessi sono abbastanza buone.

— Sono buone, se superi l’esame — ribatté severo il sergente. — Ma bisogna avere i numeri, sia come capacità sia come preparazione. Sentite, ragazzi, avete idea del perché mi tengono dietro questo tavolo?

Io non capii la domanda. Carl chiese: — Perché?

— Perché il governo se ne infischia che voi vi arruoliate o no. Perché è diventata una moda, per certa, troppa, gente, fare una ferma, guadagnarsi il diritto di voto e appiccicarsi un nastrino all’occhiello per darsi le arie del veterano, magari senza avere mai partecipato a un combattimento. Ma se voi siete decisi ad arruolarvi e io non riesco a dissuadervi, allora dobbiamo prendervi, perché è un vostro diritto costituzionale. Tutti, maschi e femmine, hanno diritto per nascita a servire il governo e ad assumere la piena cittadinanza, ma la verità è che non sappiamo più come utilizzare i volontari in servizi che siano veramente utili. Non tutti possono essere dei veri militari e a noi non servono molti uomini. Inoltre, quelli che si presentano, nella maggior parte dei casi, non sono esattamente materiale di prima scelta. Avete idea di quello che occorre per essere un buon soldato?

— No — confessai.

— Molta gente crede che bastino due mani, due piedi e un cervello idiota. Può darsi, se è per farne carne da cannone. È possibilissimo che a Giulio Cesare questo bastasse. Ma, al giorno d’oggi, un soldato semplice è uno specialista talmente esperto che potrebbe considerarsi un maestro in qualsiasi altro campo. Non possiamo correre rischi con degli stupidi. Quindi, per quelli che insistono nel voler fare il servizio militare, ma non hanno la stoffa necessaria, abbiamo dovuto escogitare tutta una lista di impieghi talmente sudici, massacranti e pericolosi che se ne tornano a casa prima del tempo con la coda tra le gambe o perlomeno si ricorderanno per tutta la vita che il diritto di voto è un privilegio importante e che per ottenerlo hanno dovuto pagare un grande prezzo. Prendete la ragazza che era qui prima. Vorrebbe diventare pilota. Spero che ci riesca, abbiamo sempre bisogno di bravi piloti, non ce ne sono mai abbastanza. Forse ce la farà, ma se fallisse potrebbe finire in Antartide e i suoi begli occhi, non vedendo altro che luce artificiale, diventerebbero rossi mentre le sue mani si riempirebbero di calli per il duro e sporco lavoro.

Avrei voluto dirgli che il meno che Carmencita sarebbe potuta diventare era programmatrice di computer per l’osservazione del cielo, visto che era veramente geniale in matematica. Ma l’uomo stava proseguendo con il suo discorso.

— Perciò, mi mettono seduto qui, per scoraggiarvi. Guardate. — E fece ruotare un poco la sedia girevole affinché vedessimo bene che era senza gambe. — Poniamo che non finiate a scavare gallerie sulla Luna né a fare da cavie per nuove cure contro le malattie, non potendo servire ad altro. Facciamo l’ipotesi che da voi si possano effettivamente ricavare due combattenti. Guardate me. Ecco che cosa può capitarvi, se non ci restate del tutto e procurate ai vostri genitori un bel telegramma di condoglianze. Il che è molto più probabile, perché di questi tempi, sia durante l’addestramento sia in combattimento, sono pochi quelli che restano solo feriti. È più probabile lasciarci le penne e finire in una bara. Io sono una rara eccezione. Ho avuto fortuna… ammesso che vogliate chiamarla fortuna.

Tacque per un attimo, poi riprese: — Quindi, perché voi due non ve ne tornate a casa, vi iscrìvete all’università e dopo vi mettete a fare i chimici, gli assicuratori o quello che vi pare. Un periodo sotto le armi non è un gioco da ragazzi. È autentico servizio militare, duro e pericoloso perfino in tempo di pace, oppure è solo una perdita di tempo. Non è una vacanza e nemmeno un’avventura romantica. Allora?

— Io mi arruolo — dichiarò Carl.

— Anch’io.

— Vi rendete conto che non vi è concesso scegliere quello che volete fare?

— Credevo che potessimo indicare le nostre preferenze — disse Carl.

— Sicuro. Ed è l’unica cosa che potete fare di testa vostra fino al termine della ferma. L’ufficiale addetto allo smistamento prende in considerazione la specializzazione da voi indicata. Per prima cosa controlla se per quella specializzazione ci sono richieste. Poi, ammesso che ci siano, magari in fondo al Pacifico, vi mette alla prova per stabilire la vostra preparazione e predisposizione. Una volta su venti è costretto ad ammettere che tutto quadra e quindi vi accontenta, almeno fino a quando non vi arriva un bel dispaccio che vi destina a qualcosa di completamente diverso. Negli altri diciannove casi vi boccia subito su tutta la linea e si convince che siete fatti apposta per andare a collaudare gli impianti di sopravvivenza installati su Titano. — Sulla faccia del sergente si dipinse un’espressione meditabonda. — Si gela su Titano. Ed è incredibile quante volte capita che gli impianti non funzionino. D’altra parte, bisogna collaudarli sul posto. Le prove di laboratorio non danno garanzie al cento per cento.

— Io posso presentare le mie credenziali per quanto riguarda l’elettronica — dichiarò Carl con fermezza — sempre che ci siano richieste.

— Sì, eh? E tu, bello?

Esitai. D’improvviso mi resi conto che, se non coglievo quell’occasione, mi sarei chiesto per tutto il resto della vita se, oltre a essere figlio di mio padre, possedevo qualche altra dote. — Voglio tentare.

— D’accordo, allora. Però, dopo, non venite a dirmi che non ho fatto il possibile per dissuadervi. Avete portato i certificati di nascita? Vediamo i vostri documenti.

Dieci minuti più tardi, ancora non avevamo prestato giuramento, eravamo all’ultimo piano e ci stavano sottoponendo ad analisi mediche di ogni genere e tipo. Lo scopo della visita, a mio parere, era questo: se una persona non era già malata, cercavano in ogni modo di farla ammalare. Se il tentativo falliva, la arruolavano.

Chiesi a uno dei medici quale fosse la percentuale di scartati a quella visita. Mi guardò sorpreso. — Noi non scartiamo mai nessuno. La legge non ce lo permette.

— Come? Ma allora, mi scusi dottore, qual è lo scopo di questa messa in scena?

— Ecco… — si accinse a spiegare il medico, tirandosi indietro e colpendomi al ginocchio con un martelletto (e beccandosi un calcio, seppur leggero) — lo scopo è quello di scoprire per quali incarichi siete fisicamente adatti. Anche se veniste qui su una sedia a rotelle e ciechi da tutti e due gli occhi, se foste tanto sciocchi da insistere per arruolarvi, loro escogiterebbero qualcosa di altrettanto sciocco da farvi fare: per esempio, contare i granelli di polvere con il tatto su un caterpillar. L’unico caso in cui un individuo viene scartato è quando gli psichiatri dichiarano che non è in grado di comprendere il significato del giuramento.

— Capisco. Scusi, dottore… Era già medico quando si è arruolato? O hanno deciso di farle fare il medico e l’hanno mandata all’università?

— Chi, io? — parve sorpreso. — Giovanotto, le sembro così stupido? Io sono un civile impiegato qui.

— Oh! Mi scusi.

— Niente, niente. Però, il servizio militare è fatto per gli sciocchi. Mi creda. Io li vedo partire, e li vedo tornare… quando tornano. Vedo come sono ridotti. E perché? Per un privilegio politico puramente simbolico che non rende niente e di cui in genere nessuno sa servirsi in modo opportuno. Mio caro ragazzo, se fossero i medici a mandare avanti le cose… Ma lasciamo perdere. Al di là della libertà di parola, lei potrebbe pensare che quanto dico è alto tradimento. Comunque, giovanotto, se ha abbastanza sale in zucca da contare fino a dieci, se ne tiri fuori finché è in tempo. Ecco, porti queste carte giù al sergente addetto al reclutamento… e si ricordi le mie parole.

Quando tornai nell’atrio, Carl era già lì. Il sergente guardò le mie carte e, con aria desolata, disse: — A quanto pare avete tutti e due una salute eccezionale, salvo qualche ingranaggio fuori posto in testa. Un momento, chiamo i testimoni. — Premette un pulsante e poco dopo arrivarono due impiegate, una abbastanza carina, l’altra una specie di virago alquanto stagionata.

Il sergente indicò i nostri certificati medici, i certificati di nascita e gli altri documenti. Poi attaccò in tono formale: — Vi invito e vi ritengo impegnate a esaminare, ciascuna per conto proprio e con molta severità, i presenti documenti, a stabilirne la natura e a stabilire inoltre, sempre ciascuna per conto proprio, quale relazione, ammesso che ce ne siano, ogni documento abbia con i due individui che si trovano alla vostra presenza.

Le impiegate avevano l’aria di sbrigare una noiosa formalità, come in effetti era. Comunque, esaminarono con attenzione le carte, ci presero per l’ennesima volta le impronte digitali e la più carina delle due si applicò una lente da gioielliere per confrontarle con quelle del certificato di nascita. Lo stesso fece con le firme. Cominciavo a dubitare di essere me stesso.

Poi il sergente disse: — Avete trovato i documenti che attestano la loro idoneità a pronunciare il giuramento? E in caso affermativo, quali?

— Abbiamo trovato, allegata a ciascun certificato medico — rispose la più anziana — la dichiarazione del centro psichiatrico, comprovante che le due persone qui presenti sono mentalmente sane, in grado di pronunciare il giuramento. Nessuna delle due si trova sotto l’effetto dell’alcol, di narcotici, di altre droghe debilitanti o in stato d’ipnosi.

— Benissimo. — Il sergente si rivolse a noi: — Ripetete con me. Io, avendo raggiunto l’età legale, di mia spontanea volontà…

Ripetemmo in coro: — Io, avendo raggiunto l’età legale, di mia spontanea volontà…

“…e senza coercizione, promessa o allettamento di sorta, ed essendo stato doverosamente edotto e avvertito sul significato e sulle conseguenze di questo giuramento…

“…mi arruolo nel Servizio federale della Federazione terrestre, per un periodo non inferiore a due anni e della durata massima quale può essere richiesta dalle necessità del servizio…”

A quel punto trasalii lievemente. Avevo sempre considerato la ferma come un periodo di due anni, sebbene in realtà sapessi che erano di più, perché l’avevo sentito dire da tanti. Ma noi, praticamente, ci stavamo arruolando per tutta la vita!

— … giuro di difendere e sostenere la Costituzione della Federazione contro tutti i nemici interni o esterni, di proteggere e difendere le libertà costituzionali e i privilegi di tutti i cittadini e dei legali residenti della Federazione, degli stati e territori a essa associati, di ottemperare a qualsiasi dovere di natura legale, sulla Terra e fuori di essa, che possa venirmi assegnato da autorità legali, dirette o delegate…

“…e di obbedire a tutti gli ordini legali del comandante in capo del Servizio terrestre e di tutti gli ufficiali e le persone delegate poste sopra di me…

“…e di richiedere la stessa obbedienza da tutti i membri del Servizio e da qualsiasi altra persona o essere non umano posti legalmente ai miei ordini…

“…e inoltre, dopo essere stato onorevolmente esonerato al termine del mio servizio attivo o collocato in congedo inattivo dopo avere raggiunto detto termine, giuro di espletare tutti i doveri e gli obblighi, consapevole di godere di tutti i diritti e i privilegi della cittadinanza federale, tra cui il dovere, l’obbligo e il privilegio di esercitare il diritto sovrano di voto per il resto della mia vita, a meno di non venire giudicato indegno dell’onore dal verdetto finale emesso da una corte di miei pari.”

Uffa! Il signor Dubois al corso di storia e filosofia morale aveva analizzato il giuramento frase per frase e ce l’aveva fatto studiare, ma uno si rende conto di quanto è lungo solo quando se lo sente piovere addosso tutto d’un fiato, pesante e inarrestabile come il rimorchio di un autotreno.

Dopo avere pronunciato il giuramento, mi resi conto di non essere più un civile, con la camicia su misura e la testa libera. Non sapevo ancora bene che cosa fossi, ma almeno sapevo che cosa non ero.

— E che il cielo ci assista! — terminammo insieme. Carl si fece il segno della croce e la testimone carina lo imitò.

Dopodiché tutti e cinque mettemmo altre firme e impronte digitali, poi a Carl e a me vennero scattate sul posto inespressive fotografie a colori che furono stampate a rilievo sui nostri documenti. Alla fine il sergente rialzò la testa dalle carte. — Ehi, è quasi terminato l’intervallo per la colazione. È tempo di mettere qualcosa sotto i denti, ragazzi.

Deglutii a fatica. — Ehm… sergente…

— Che cosa c’è? Sputa.

— Posso mandare un messaggio ai miei genitori da qui? Per dire loro come… per dire loro come è andata?

— Puoi fare di meglio.

— Cioè?

— Puoi andartene a casa con quarantott’ore di permesso. — Sorrise, gelido. — Lo sai che cosa succede se non torni?

— La corte marziale?

— Nemmeno per sogno. Non succede niente. Salvo che sui tuoi documenti viene apposto il timbro SERVIZIO COMPLETATO IN MODO INSODDISFACENTE e non ti sarà offerta la possibilità di rientrare mai più. Mai più, capito? Durante queste quarantott’ore ci leviamo di dosso gli eterni bambocci che non conoscono il valore di una decisione formale e non avrebbero mai dovuto prestare giuramento. Serve a far risparmiare soldi al governo e un sacco di dispiaceri a quei ragazzi e ai loro genitori… i vicini non c’è bisogno che ne siano informati. Del resto, non avresti bisogno di dirlo nemmeno ai tuoi. — Scostò la sedia dalla scrivania. — Perciò, ci vediamo a mezzogiorno di dopodomani. Se ci vediamo. Ritirate pure i vostri effetti personali.


Furono quarantott’ore d’inferno. Papà mi fece una scenata, dopodiché non mi rivolse più la parola. Mamma si mise a letto con l’emicrania. Quando finalmente me ne andai, un’ora prima del necessario, nessuno mi salutò, tranne la cuoca e i ragazzi delle pulizie.

Mi fermai davanti al tavolo del sergente addetto al reclutamento, mi chiesi come dovevo salutare e mi accorsi di non saperlo. Lui mi vide. — Ehilà! Ecco le tue carte. Portale alla stanza duecentouno, penseranno loro a dirti che cosa devi fare. Bussa ed entra.

Due giorni dopo sapevo che non avrei fatto il pilota. Alcune note che gli esaminatori scrissero sul mio conto erano:


INTUIZIONE DELLE RELAZIONI SPAZIALI: insufficiente

DISPOSIZIONE PER LA MATEMATÌCA: insufficiente

PREPARAZIONE MATEMATICA: insufficiente

TEMPO DI REAZIONE: buono

VISTA: ottima


Per fortuna c’erano le ultime due note! Cominciavo a pensare che la mia unica specialità fosse quella di contare sulle dita.

L’ufficiale addetto allo smistamento mi fece elencare le altre mie preferenze in ordine decrescente, e mi trovai impelagato per altri quattro giorni nei più bizzarri test attitudinali che si possano immaginare. Mi chiedo, per esempio, che cosa si possa scoprire grazie a una stenografa che salta in piedi sulla sedia strillando: “Un serpente!” Non c’era nessun serpente, ma solo un innocente tubo di plastica.

Scritti o orali, quegli esami erano tutti più o meno stupidi, ma loro sembravano assegnare a essi una grande importanza, così li feci. Il compito che svolsi con più attenzione fu elencare le mie preferenze. Naturalmente cominciai con tutte le attività che riguardavano la Marina spaziale (diverse dal pilota). Mi avessero fatto fare il cuoco o il tecnico elettronico, poco importava, purché si fosse trattato della Marina e non dell’Esercito. Quello che mi interessava più di ogni altra cosa era viaggiare.

Dopo la Marina, nell’elenco indicai lo spionaggio: una spia deve spostarsi di continuo, e quindi doveva trattarsi di un’attività non troppo monotona. Mi sbagliavo, ma non importa. La lista era ancora lunga: psicologia bellica, biologia bellica, ecologia del combattimento (ignoravo che cosa fosse, ma suonava bene), corpi logistici (un errore da parte mia: avevo studiato logica con il gruppo di discussione, e credevo che la logistica fosse qualcosa di analogo, invece aveva un significato completamente diverso) e tante altre specializzazioni. Proprio in fondo, dopo qualche esitazione, aggiunsi anche i corpi K9 e la Fanteria spaziale mobile.

Non mi diedi nemmeno la pena di elencare i vari corpi ausiliari non combattenti. Se come combattente venivo respinto, non m’importava affatto che mi usassero come cavia umana o mi assegnassero ai lavori per rendere abitabile Venere, qualunque cosa sarebbe stata come un premio di consolazione per essermi classificato ultimo.

Il signor Weiss, l’ufficiale di smistamento, mi mandò a chiamare una settimana dopo che avevo prestato giuramento. Weiss era un maggiore in congedo, specialista di psicologia bellica. Aveva fatto domanda per restare in servizio effettivo, ma vestiva abiti civili e voleva essere chiamato solo “signore”. Con lui si poteva chiacchierare tranquillamente, senza imbarazzo.

Aveva davanti la lista delle mie preferenze e i rapporti di tutti gli esami, e vidi che tra l’altro disponeva anche del mio diploma di maturità, cosa che mi fece piacere, perché a scuola ero sempre stato bravo; avevo studiato quanto bastava per fare bella figura senza passare per un secchione, non ero mai stato bocciato in nessuna materia e mi ero ritirato solo da un corso, inoltre mi ero sempre distinto nelle attività collaterali: facevo parte della squadra di nuoto, del gruppo di discussione, della squadra di atletica, ero tesoriere di classe e presidente di un comitato studentesco, avevo vinto la medaglia d’argento al concorso annuale di prosa e altre cose del genere. Mica male, tutto sommato. E ciò figurava sul mio diploma.

Quando entrai Weiss alzò la testa e disse: — Siediti Johnnie. — Poi tornò ad analizzare il diploma. Finalmente lo mise giù. — Ti piacciono i cani? — mi chiese.

— Eh? Sì, certo, signore.

— Fino a che punto ti piacciono? Permetti al tuo cane di dormire nel letto con te? A proposito, dov’è adesso il tuo cane?

— Ecco, al momento non possiedo un cane. Ma quando l’avevo… Insomma, non dormiva nel mio letto. Vedete, mia madre non permette che i cani vivano in casa.

— Ma tu non lo facevi entrare di nascosto?

— Mmm… — Pensai di provare a spiegargli che la mamma non si arrabbia, ma resta terribilmente-terribilmente-addolorata quando si cerca di non rispettare qualche sua decisione. Alla fine, però, rinunciai. — No, signore — risposi.

— Capisco. Hai mai visto un neocane?

— Una volta, signore. Ne hanno mostrati alcuni esemplari al teatro MacArthur due anni fa. Ma la SPCA provocò molti problemi a causa dei neocani.

— Lascia che ti spieghi che cos’è un’unità K9. Un neocane non è soltanto un cane che parla.

— Tra l’altro, non capivo niente di ciò che diceva quel neocane al MacArthur. Parlano sul serio?

— Parlano, sì. Solo che bisogna abituare l’orecchio al tipico accento. La loro bocca non può pronunciare la b, la m, la p e la v e perciò bisogna abituarsi ai loro equivalenti. È un po’ come un difetto di pronuncia, che altera alcune lettere. Comunque sia, il loro linguaggio è chiaro quanto quello umano. Ma un neocane non è un cane parlante, non è nemmeno un cane, è un simbionte mutato artificialmente e derivato dalla specie canina. Un neocane, un caleb addestrato, è sei volte più intelligente di un cane, diciamo che è intelligente come un deficiente umano, salvo che il paragone è ingiusto per il neocane. Un deficiente è un minorato, mentre un neocane è un genio della sua specie. — Il signor Weiss si accigliò. — Sempre che, naturalmente, viva in simbiosi. Qui sta il punto. Mmmm… tu sei troppo giovane per essere sposato, ma hai già visto dei matrimoni, perlomeno quello dei tuoi genitori. Riesci a immaginarti di essere sposato con un caleb?

— Cosa? No. Assolutamente no.

— La relazione emotiva cane-uomo e uomo-cane in un’unità K9 è maggiore e più rilevante di quella che esiste in molti matrimoni. Se il padrone viene ucciso, si ammazza il neocane, subito! È tutto quello che possiamo fare per la povera bestia. Una morte indolore. Se invece resta ucciso il neocane… ecco, non possiamo uccidere l’uomo, anche se sarebbe la soluzione più semplice. Invece lo leghiamo, lo ricoveriamo in ospedale e, lentamente, lo facciamo tornare alla normalità.

Weiss afferrò una penna e tracciò un segno. — Non credo si possa assegnare a un’unità K9 un ragazzo che non era disposto a disobbedire alla madre per far dormire il cane nella sua stanza. Perciò, prendiamo in esame qualcos’altro.

Solo a quel punto, mi resi conto che dovevo essere già stato bocciato per ogni eventuale assegnazione al corpo K9 e mi ero appena precluso ogni ulteriore possibilità. Ne rimasi talmente colpito che quasi mi sfuggì la sua ultima frase. In tono pensoso, distaccato, quasi stesse parlando di qualcun altro, morto da tanto tempo e lontano, il maggiore Weiss disse: — Un tempo io facevo parte di una squadra K9. Quando il mio caleb restò ucciso, venni messo in stato di sonno ipnotico per sei settimane, poi mi resero idoneo a un altro incarico. Johnnie, quei corsi che hai frequentato… perché non hai studiato qualcosa di utile?

— Come?

— Troppo tardi, ormai. Lasciamo andare. Dunque… il tuo insegnante di storia e filosofia morale ha una buona opinione di te, a quanto pare.

— Sul serio? — dissi, sorpreso. — Che cos’ha detto?

Weiss sorrise. — Dice che non sei stupido, solo ignorante e limitato dai pregiudizi dell’ambiente in cui hai vissuto. Lo conosco. Detta da lui questa è una lode sperticata.

A me non pareva, per la verità. Quel vecchio manico di scopa…

— Inoltre — concluse Weiss — un ragazzo che prende sei meno in Apprezzamento della televisione non può essere tanto male. Cosa ne diresti di entrare in Fanteria?

Uscii dal Palazzo federale un po’ abbattuto, ma non proprio al colmo dell’avvilimento. Se non altro, ero un soldato e avevo in tasca le carte che lo provavano. Non ero stato classificato talmente limitato e inutile da poter servire solo da cavia.

L’orario di lavoro era passato da pochi minuti, e l’edificio era ormai vuoto, salvo per alcuni guardiani notturni e qualche ritardatario. Nell’atrio mi imbattei in un tale che stava per andarsene. Non era una faccia nuova, ma non ricordavo chi fosse.

Ma lui mi vide e mi riconobbe. — Buonasera — disse. — Ancora qui, a quest’ora?

Lo riconobbi anch’io. Era il sergente che ci aveva arruolati. Chissà che faccia dovetti fare. L’amico era in abiti civili, se ne andava in giro su tutte e due le gambe, e ora aveva anche tutte e due le braccia. — Buonasera sergente — balbettai.

Capì perfettamente la mia espressione, si diede una rapida occhiata e sorrise prontamente. — Calma, figliolo. Fuori servizio non sono tenuto a far inorridire il prossimo, quindi mi rendo presentabile. Ti hanno già destinato a qualche reparto?

— Ho ricevuto proprio adesso l’assegnazione.

— A che cosa?

— Fanteria spaziale mobile.

La faccia gli si illuminò di gioia, mi allungò la mano. — Il mio corpo! Qua la mano, figliolo! Faremo di te un uomo… o ti accopperemo nel tentativo. Forse, tutt’e due le cose.

— È una buona scelta? — chiesi, dubbioso.

— Una buona scelta? Figliolo, è l’unica scelta possibile. La Fanteria spaziale mobile è l’Esercito. Tutti gli altri sono solo scienziati o gente che sta lì a schiacciare tasti e poi rifila tutto a noi. Tocca a noi levare le castagne dal fuoco. — Altra stretta di mano. — Mandami una cartolina… Sergente Ho, Palazzo federale. È sufficiente. Buona fortuna, figliolo! — E se ne andò, spalle indietro, talloni che facevano un rumore secco, testa dritta.

Mi guardai la mano. Quella che mi aveva teso, la destra, era una protesi, eppure sembrava di carne, e aveva stretto con forza. Avevo letto qualcosa su quelle protesi elettroniche, ma vederle in funzione è davvero sconcertante, specie la prima volta.

Tornai all’albergo dove le reclute erano temporaneamente alloggiate in attesa della destinazione. Non avevamo nemmeno l’uniforme, per il momento, ma solo una tuta che portavamo durante il giorno. Nelle ore di libertà potevamo rimetterci i nostri vestiti. Andai in camera mia e iniziai a fare i bagagli, dato che sarei partito di buon’ora il mattino seguente. Si trattava dei bagagli da rispedire a casa, naturalmente. Weiss mi aveva raccomandato di portare con me solo fotografie e magari uno strumento musicale, se sapevo suonare. Ma io non ne suonavo nessuno. Carl era partito tre giorni prima, avendo ottenuto l’assegnazione che desiderava, Ricerca e sviluppo. Ne ero contento, perché sapevo che sarebbe rimasto perplesso nel sentire che ero finito nella Fanteria. Anche Carmencita se n’era già andata con il suo bravo grado di cadetta astronauta (in prova), e io ero pronto a scommettere che sarebbe diventata un’ottima pilota.

Il mio compagno di camera entrò mentre chiudevo la valigia. — Assegnato? — s’informò.

— Già.

— Dove?

— Fanteria spaziale mobile.

— Cosa… Fanteria? Poveretto, che figura! Mi dispiace per te, davvero.

Mi voltai a guardarlo, indignato. — Ma stai zitto! La Fanteria spaziale mobile è l’arma migliore di tutto l’Esercito… È l’Esercito, praticamente! — gli dissi. — Tutti quanti voialtri siete capaci solo di passarci le gatte da pelare, ma il lavoro vero lo facciamo noi.

Rise. — Sì, te ne accorgerai!

— Se non la pianti, ti spacco il muso!

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