L’albero della libertà dev’essere irrorato di quando in quando dal sangue dei patrioti
Cioè, credevo di essere un fante scelto, finché non mi presentai all’astronave alla quale ero stato assegnato. È un delitto essersi fatto un’opinione sbagliata?
Mi accorgo di non avere detto che la Federazione terrestre passò proprio in quel periodo dalla pace allo stato di emergenza e infine alla guerra. Del resto, io stesso quasi non me ne accorsi. Quando mi ero arruolato eravamo in pace, cioè in uno stato di cose normale, almeno secondo il concetto dei civili (e del resto è logico, no?). Poi, mentre ero al campo Arthur Currie, entrammo nello stato di emergenza, ma nemmeno allora ci badai, perché quello che il caporale Bronski pensava riguardo alla mia pettinatura, alla mia uniforme, alle mie esercitazioni e via dicendo era per me molto più importante. Quello che ne pensava il sergente Zim, poi, era importantissimo. In ogni modo, lo stato di emergenza rientra in quello di pace.
La pace, in realtà, è una condizione durante la quale nessun civile si preoccupa delle perdite militari, a meno che non sia parente stretto di una delle vittime. Se mai c’è stato un periodo della storia in cui “pace” ha voluto dire che non si combatteva proprio da nessuna parte, be’, io non sono ancora riuscito a scoprirlo.
Quando mi presentai alla mia prima compagnia, ovvero i tigrotti di Willie, altrimenti noti come Compagnia K, Terzo reggimento, Prima divisione Fanteria spaziale mobile, per essere imbarcato con loro sulla Valley Forge (con quell’attestato ottimistico nel bagaglio), la guerra durava già da alcuni anni.
Gli storici non sanno ancora se definirla Terza guerra spaziale (o Quarta) o se le si addica maggiormente il nome di Prima guerra interstellare. Noi la chiamiamo semplicemente Guerra dei ragni, quando le diamo un nome, cosa che di solito non avviene. In ogni modo, secondo gli storici la guerra iniziò dopo che ebbi preso servizio sulla mia prima astronave. Tutto quanto era accaduto fino a quel momento viene definito “incidente”, “guerriglia” o “azione di rastrellamento”. Ma quando uno è morto, è morto, sia che ci abbia lasciato le penne durante un incidente, sia che ce le abbia rimesse a guerra dichiarata.
Però, per dire le cose come stanno, un soldato si accorge di essere in guerra poco più di quanto se ne rende conto un civile. Salvo la particina che gli spetta (e quando gli tocca è in ballo, e deve ballare), per tutto il resto del tempo si preoccupa più che altro di dormire appena gli è possibile, delle stravaganze dei sergenti e delle probabilità di farsi amico del cuoco per rimediare uno spuntino tra un pasto e l’altro. Tuttavia, quando Micio Smith, Al Jenkins e io ci presentammo per prendere servizio a Base Luna, tutti gli altri tigrotti di Willie avevano già fatto più di un lancio di combattimento: loro erano soldati e noi no. Non per questo si davano arie con noi, almeno non con me, e i sergenti e i caporali erano sorprendentemente amabili in confronto alla calcolata ferocia dei nostri istruttori.
Ci misi un po’ per scoprire che quel trattamento relativamente umano significava solo che per il momento non eravamo nessuno, e che non valevamo nemmeno lo sforzo di una ramanzina fino a che non avessimo dimostrato durante un lancio, un lancio vero, di essere degni di prendere il posto dei veri tigrotti morti in battaglia e di cui per il momento occupavamo solo le cuccette.
Lasciate che vi racconti fino a che punto ero un novellino.
Mentre la Valley Forge era ancora a Base Luna, mi capitò d’imbattermi nel mio capoplotone, proprio mentre stava scendendo a terra, tutto agghindato con l’uniforme da parata. Portava, infilato nel lobo dell’orecchio sinistro, un orecchino: un teschietto d’oro di ottima fattura sotto il quale, al posto delle due convenzionali tibie incrociate, c’era un mucchietto di ossicini d’oro, talmente piccoli che quasi non si vedevano.
A casa avevo sempre sfoggiato orecchini e altri gioielli quando avevo un appuntamento con una ragazza. Possedevo orecchini bellissimi con rubini grandi come la parte finale del mio mignolo che erano appartenuti al mio nonno materno. Amo i gioielli e mi era dispiaciuto molto essere stato costretto a lasciarli a casa quando ero partito per il corso, ma adesso avevo scoperto un tipo di ornamento che evidentemente era ammesso portare con l’uniforme. Non avevo i buchi alle orecchie perché mia madre non li approvava, almeno per i maschi, ma quei teschietti avrei potuto farmeli montare con la clip. Avevo ancora un po’ di denaro rimastomi dalle cinquine che mi erano state liquidate al termine del corso, ed ero ansioso di spenderlo prima che facesse la muffa. — Ehm, sergente, per favore… Dove ha acquistato quel bell’orecchino? È molto grazioso.
Non mi guardò sprezzante, ma non sorrise neppure. Disse soltanto: — Ti piace?
— Molto! — Quell’oro liscio si intonava bene ai galloni dell’uniforme, facendoli risaltare più di quanto avrebbero fatto le gemme. Stavo pensando che due, invece di uno, avrebbero creato un effetto anche migliore, specie se con le due tibie alla base invece di quella confusione di ossicini. — Li vendono, qui?
— No, alla base PX non li vendono. — Poi aggiunse: — Perlomeno, non credo che tu possa acquistarli proprio qui… Non me lo auguro. Ma sai cosa facciamo? Appena arriveremo in un posto dove sarà possibile comperarne uno, farò in modo che tu lo sappia. Te lo prometto.
— Oh, mille grazie!
— Ma ti pare!
Vidi parecchi di quei teschietti, in seguito, alcuni con molte ossa, altri con pochissime. La mia supposizione era dunque esatta: si potevano portare quei gioielli con l’uniforme, perlomeno in libera uscita. Poi ebbi l’occasione di acquistarne uno, più presto di quello che credevo, e scoprii che il prezzo era irragionevolmente alto per un gioiellino così semplice.
Fu durante l’Operazione ragnatela, o Prima battaglia di Klendathu secondo i testi di storia, poco dopo la distruzione di Buenos Aires. Fu necessaria quella catastrofe per fare capire ai più ostinati che c’era qualcosa di pericoloso in aria, visto che la gente che non c’è mai stata non crede veramente all’esistenza dei pianeti. Sa che ci sono, certo, ma non li prende sul serio. Io no, perché sono stato un fanatico dello spazio fin da quando ero piccolo.
Ma la tragedia di Buenos Aires riuscì a scuotere anche i civili, e provocò grandi manifestazioni affinché venissero richiamate tutte le nostre truppe, dai quattro punti cardinali. La popolazione civile pretendeva che quelle forze si schierassero in orbita attorno al pianeta, praticamente spalla a spalla, per difendere lo spazio che la Terra occupa. Si sarebbe trattato indubbiamente di una strategia molto sciocca. La guerra non si vince con la difesa, ma con l’attacco. Nessun ministero della Difesa ha mai vinto una guerra, e la storia lo insegna. Eppure, pare che sia una normale reazione dei civili quella di invocare strategie difensive appena si accorgono che la pace è infranta. Chissà perché in quei frangenti il primo istinto dei civili è quello di mettersi a dirigere le operazioni militari, proprio come un passeggero che durante un incidente di volo tentasse di strappare i comandi di mano al pilota.
Comunque sia, nessuno chiese il mio parere al momento: io prendevo ordini e basta. A parte l’impossibilità di riportare a casa le truppe a causa dei nostri impegni diplomatici e di quello che il ritiro avrebbe significato per le colonie planetarie della federazione e dei suoi alleati, eravamo terribilmente impegnati a fare qualcosa d’altro, cioè a fare la guerra contro i ragni. Per quanto mi riguarda, poi, la distruzione di Buenos Aires mi preoccupò molto meno di molti civili. Eravamo già a un paio di parsec dalla Terra, viaggiando in propulsione Cherenkov, e la notizia ci raggiunse solo quando, durante la decelerazione, ci venne comunicata da un’altra astronave.
Ricordo di avere pensato “Che cosa terribile!” provando molta pena per l’unico argentino che avevamo a bordo. Ma Buenos Aires non era la mia città, la Terra era molto distante e io avevo parecchio da fare dato che l’attacco a Klendathu, pianeta d’origine dei ragni, sarebbe stato portato subito dopo e noi avremmo aspettato quel momento legati alle nostre cuccette, narcotizzati e privi di conoscenza, mentre il campo di gravità interna della Valley Forge era stato disattivato per risparmiare energia e raggiungere maggiore velocità.
La perdita di Buenos Aires ebbe un’enorme importanza per me, e cambiò in modo sensibilissimo il corso della mia vita, ma questo lo seppi solo parecchi mesi dopo.
Quando arrivò il momento del lancio su Klendathu, fui assegnato in soprannumero al capopattuglia Dutch Bamburger. All’annuncio, Bamburger riuscì a nascondere i suoi sentimenti, ma appena il sergente fu fuori tiro mi si rivolse dicendo: — Ascolta, fante, tu resterai dietro di me, e bada di non tagliarmi la strada. Se mi rallenti, Li rompo l’osso del collo.
Mi limitai ad assentire. Cominciavo a rendermi conto che quello non era un lancio d’esercitazione.
Mi prese, come al solito, la tremarella, ma poi atterrammo.
L’Operazione ragnatela sarebbe stato meglio chiamarla Operazione manicomio. Andò tutto di traverso. Era stata progettata come una mossa a sorpresa, per mettere il nemico in ginocchio, occupare la capitale e i punti chiave del pianeta e porre fine alla guerra. Invece, poco mancò che la perdessimo, la guerra.
Non sto criticando il generale Diennes. Non so se è vero che Diennes chiese altre truppe e rinforzi per poi lasciarsi fregare dal maresciallo in capo dello spazio. E non sono nemmeno affari miei. Inoltre, dubito che certi strateghi da tavolino sappiano davvero come si sono svolti i fatti.
Quello che so è che il generale si lanciò con noi, diresse le operazioni a terra, e quando la situazione si fece insostenibile, condusse personalmente l’attacco per proteggere la ritirata, permettendo a un grande numero di noi (compreso il sottoscritto) di venire raccolti dalle lance. E nel fare questo ci lasciò la pelle.
Ora Diennes è solo un pugno di polvere radioattiva sul pianeta Klendathu, ed è troppo tardi per portarlo davanti a una corte marziale, quindi a che scopo discuterne?
Farò un solo commento, per rispondere a tutti gli strateghi da tavolino che non hanno mai provato a fare un lancio. Sì, siamo d’accordo, il pianeta dei ragni avrebbe potuto essere letteralmente crivellato di bombe H, fino a ricoprirlo con una crosta di vetro radioattivo. Ma sarebbe bastato questo a vincere la guerra? I ragni non sono come noi. Gli pseudoaracnidi, in realtà, non sono nemmeno ragni. Sono artropodi che somigliano a ragni giganteschi, intelligenti nel modo in cui può conceperli la fantasia di una mente malata. Ma la loro organizzazione, per quanto riguarda il lato psicologico ed economico, somiglia piuttosto a quella delle formiche o delle termiti: sono entità comuni, l’ultima espressione della dittatura. Bombardare la superficie del loro pianeta sarebbe servito a uccidere i soldati e gli operai, ma non avrebbe colpito la casta dirigente e le regine. In realtà, dubito assai che, pur riuscendo a centrarla in pieno con un razzo H, si possa uccidere una regina. Noi non sappiamo a quale profondità si nascondono. Del resto, per quello che mi riguarda, non sono affatto ansioso di scoprirlo: nessuno dei ragazzi che si è infilato in quei buchi è riuscito a riemergere.
Perciò, anche ammesso che fossimo riusciti a distruggere la superficie produttiva di Klendathu, che risultato avremmo ottenuto? I ragni avrebbero avuto ancora astronavi, colonie e altri pianeti, proprio come noi, e il loro quartier generale sarebbe rimasto intatto. Quindi, a meno che non avessero deciso di arrendersi, la guerra non sarebbe finita ugualmente. A quell’epoca noi non disponevamo ancora delle bombe Nova e non avremmo potuto disintegrare completamente Klendathu, spaccandolo come una noce. Se loro avessero incassato il colpo senza arrendersi, la guerra sarebbe continuata in ogni modo. Ammesso, poi, che possano arrendersi.
I loro soldati, per esempio, non possono. Gli operai non possono combattere (e talvolta capita di sprecare tempo e munizioni contro operai che non possono nemmeno fare bum con la bocca) e i soldati non possono arrendersi. Però non fate l’errore di credere che i ragni siano soltanto stupidi insetti, giudicandoli unicamente in base al loro brutto aspetto e al fatto che non sanno che cosa vuol dire arrendersi. I loro guerrieri sono in gamba, esperti, aggressivi, più in gamba di quanto sia tu, stando alla sola regola universale, cioè se attaccano per primi. Si può prenderne uno di mira e fargli saltare via una gamba, due gambe, tre gambe, e quello continua ad avanzare. Fategli saltare via la quarta e crollerà, ma continuerà a sparare. Dovete colpirgli i centri nervosi, dopodiché lui continuerà dritto per la sua strada senza nemmeno vedervi, ma continuando a sparare contro il nulla, finché non andrà a sfracellarsi contro una parete o qualcos’altro.
Il lancio fu caotico fin dall’inizio. Cinquanta navi prendevano parte all’operazione, e secondo i piani avrebbero dovuto passare dalla propulsione Cherenkov alla decelerazione con coordinazione talmente perfetta da entrare in orbita e scaricarci restando in formazione, esattamente nell’ordine stabilito, senza nemmeno fare un giro attorno al pianeta per allinearsi. Credo che come manovra fosse molto difficile. Anzi, so benissimo che lo era. Però, quando una manovra non riesce, è sempre il povero Fanteria spaziale mobile a dover togliere le castagne dal fuoco.
Quella volta, per la verità, a noi fanti andò bene, perché la Valley Forge e tutto il personale della Marina di bordo era già nel regno dei morti prima ancora che noi raggiungessimo il suolo. In quella formazione serrata, e a quell’andatura (7;5 chilometri al secondo di velocità orbitale non sono uno scherzo), l’astronave urtò contro la Ypres, ed entrambi i veicoli andarono distrutti. Per nostra fortuna, eravamo già stati scaricati. Ma non tutti, purtroppo, perché la Valley Forge stava ancora espellendo capsule al momento della collisione. Io, però, non lo sapevo, ero dentro la mia capsula diretto verso il suolo. Immagino che il nostro comandante di compagnia sapesse già che la nave era andata perduta (insieme a metà dei suoi tigrotti) dato che era stato sparato fuori per primo e doveva essersene accorto quando, attraverso il circuito di comando, aveva perso d’improvviso il contatto con il capitano della nave.
Ora è impossibile chiederglielo, perché non fecero in tempo a riprenderlo a bordo della lancia. Da parte mia, ebbi solo la sensazione, dapprima vaga, poi sempre più netta, che tutto era andato nel peggiore dei modi.
Le diciotto ore che seguirono furono un vero incubo. Non posso dirvi molto perché ricordo poco: solo squarci, scene d’orrore da far rizzare i capelli dallo spavento. I ragni mi hanno sempre fatto ribrezzo, velenosi o no: un innocuo ragno domestico nel letto mi dà la pelle d’oca. Alle tarantole poi non ho nemmeno la forza di pensarci e non mangio aragoste, gamberi e niente del genere. Quando per la prima volta mi vidi davanti un ragno, la mia mente schizzò letteralmente via dal cranio e cominciò a ululare. Solo parecchi secondi dopo mi resi conto che lo avevo ucciso e che potevo smettere di sparare. Doveva essere stato un ragno operaio, perché sicuramente non ero tanto in forma da accoppare un guerriero.
Ma, in quel momento, ero comunque più in forma di quanto fossero i corpi K9. Avrebbero dovuto essere lanciati (se il lancio fosse andato alla perfezione) alla periferia dell’intera zona-bersaglio e, secondo i piani, i neocani si sarebbero schierati all’esterno per fornire intelligenza tattica alle squadre di interdizione il cui compito era quello di assicurarsi la periferia. Quei cani ovviamente non hanno altra arma che i loro denti. Si pensa che un neocane senta, veda, annusi e comunichi al suo partner quello che scopre via radio. Tutto ciò che porta con sé sono una radio e una bomba distruttiva con cui farsi saltare in aria (lui o il suo partner) in caso di ferite gravi o cattura.
Quei poveri cani non aspettarono di essere catturati. Pare che la maggior parte di loro si suicidò appena entrarono in contatto con il nemico. Provavano nei confronti dei ragni le mie stesse sensazioni, ma più intense. Adesso ci sono neocani addestrati fin da cuccioli a osservare e fuggire senza fare saltare in aria le loro teste alla sola vista o al solo odore di un ragno. Quelli, però, non lo erano.
Ho già detto che fu tutto un fallimento. Vi ho appena accennato, fu una catastrofe. Al momento, però, non sapevo quello che stava succedendo. Mi tenevo dietro Dutch, cercando di abbattere o incendiare tutto quello che si muoveva e lasciando cadere una granata in ogni buco del terreno che scorgevo. A poco a poco ritrovai il controllo, tanto che riuscii a uccidere un ragno senza inutile spreco di materiale, sebbene non avessi imparato a distinguere quelli che erano innocui da quelli che non lo erano. Soltanto un ragno su cinquanta è un guerriero, però da solo fa anche per gli altri quarantanove. Le loro armi non sono pesanti come le nostre, ma sono altrettanto micidiali: hanno un raggio che penetra attraverso l’armatura e affetta la carne come un uovo sodo. Inoltre in azione sono molto più affiatati di noi perché il cervello che coordina le mosse di una squadra non è lì, esposto ai colpi nemici, ma se ne sta al riparo in uno di quei buchi.
Dutch e io fummo assistiti dalla fortuna per un bel pezzo. Ci aggiravamo per un’area di circa un chilometro quadrato, facendo piovere bombe nelle buche, distruggendo tutto quello che trovavamo in superficie e risparmiando quanto più era possibile i propulsori per i momenti di grave pericolo. La missione che ci era stata affidata consisteva nell’assicurarci il possesso dell’intera zona, permettendo così ai rinforzi e ai mezzi corazzati di toccare terra senza incontrare resistenza. Non si trattava di un’incursione ma di una battaglia per conquistare una testa di ponte, tenerla per un certo tempo, e dare modo alle truppe fresche e ai reparti pesanti di occupare l’intero pianeta e ristabilire l’ordine.
Solo che non ci riuscimmo.
La nostra squadra fece del suo meglio. Si trovava dalla parte sbagliata e aveva perso i contatti con l’altra squadra. Il sergente e il caposquadrone erano morti, e non era più possibile riunirsi ai commilitoni. Tuttavia, una certa area l’avevamo occupata, e la nostra pattuglia di specialisti era riuscita a creare un ottimo sbarramento difensivo: eravamo pronti a cedere la nostra posizione alle truppe fresche, appena fossero arrivate.
Peccato che non arrivarono. Furono scaricate nel punto in cui dovevamo essere lanciati noi, dove trovarono gli indigeni ostili ed ebbero i loro problemi. Noi non le vedemmo neppure. Perciò restammo dov’eravamo, subendo saltuariamente perdite, e causandone a nostra volta quando se ne presentava l’occasione, mentre le munizioni calavano e le batterie delle tute andavano scaricandosi. Quell’inferno parve durare almeno un migliaio d’anni.
Dutch e io stavamo procedendo veloci lungo una parete, diretti verso la nostra squadra di specialisti in risposta a una chiamata di rinforzi, quando all’improvviso il terreno si spalancò davanti a noi, un ragno fece capolino e Dutch cadde.
Diressi il lanciafiamme contro il ragno, gettai una granata nella buca, che si richiuse immediatamente, poi mi voltai per vedere che cos’era successo a Dutch. Era a terra, ma non sembrava ferito. Un sergente di squadra può verificare sul monitor le condizioni fisiche di ogni suo uomo e distinguere i morti da coloro che non possono farcela da soli e devono quindi essere raccolti. Però lo stesso controllo si può fare anche a mano, usando i pulsanti che si allineano sulla cintura della tuta.
Dutch non rispose quando lo chiamai. La temperatura del suo corpo era molto bassa, cuore e cervello risultavano debolissimi, il che era un brutto segno, però poteva trattarsi di un guasto della tuta. Ingannavo me stesso, dimenticando che l’indicatore della temperatura funzionava indipendentemente dalla tuta. In ogni modo, mi staccai l’apriscatole dalla cintura e tentai di estrarre Dutch dalla tuta, tenendo intanto le orecchie tese e gli occhi bene aperti per avvistare in tempo i nemici.
Poi, nel mio elmetto risuonò un appello che spero di non dover udire mai più.
— Si salvi chi può! Si torna alla base. Alla base. Raccogliere i feriti e tornare alla base. Dirigetevi verso il primo segnale che udite. Sei minuti di tempo! A tutti i combattenti! Attenzione! Raccogliere i feriti e mettersi in salvo. Dirigersi verso la lancia più vicina. Si salvi chi può…
Mi affrettai.
Dutch era morto, me ne accorsi appena aprii la tuta. Lo lasciai dov’era e me la svignai velocissimo. Se fossi stato più esperto di battaglie avrei cercato di recuperare almeno le sue munizioni, ma ero troppo inorridito per riflettere con calma. Balzai via di là e cercai di arrivare al caposaldo al quale eravamo diretti.
Il caposaldo era già stato sgomberato, non c’era più nessuno. Mi sentii solo e smarrito. Poi udii un segnale, non quello che mi aspettavo di udire, cioè Yankee Doodle, se si fosse trattato di una lancia della Valley Forge, ma Sugar Bush, un motivo che non sapevo a chi appartenesse. Non importa, era uno dei nostri segnali. Mi diressi in quella direzione dando fondo alle mie batterie. Giunsi a bordo quando già stavano per chiudere il portello, e poco dopo ero sulla Voortrek, talmente traumatizzato da non ricordare nemmeno il mio numero di matricola.
In seguito, ho sentito definire quella battaglia una “vittoria strategica”. Purtroppo io c’ero, e vi assicuro che fu una disfatta rovinosa.
Sei settimane dopo (ma con la sensazione di essere invecchiato di sessant’anni) alla base navale di Sanctuary fui imbarcato su un’altra astronave, la Rodger Young, e mi presentai al sergente Jelal.
Portavo, al lobo dell’orecchio sinistro, un teschietto d’oro con un osso solo. Al Jenkins era con me, e ne aveva uno assolutamente identico. Micio Smith non era stato scaricato in tempo dalla Valley Forge. I pochi tigrotti sopravvissuti furono distribuiti tra le diverse astronavi; avevamo perso metà delle nostre forze nella collisione tra la Valley Forge e la Ypres, la disastrosa battaglia sul pianeta aveva fatto salire le nostre perdite all’ottanta per cento e nelle alte sfere era stato decretato che non si poteva ricostituire la compagnia tigrotti con i soli superstiti. Meglio scioglierla, archiviare gli schedari e aspettare che le ferite si fossero rimarginate prima di ricostituire la Compagnia K con facce nuove e antiche tradizioni.
Del resto, c’erano molti vuoti nei ranghi delle altre compagnie, e bisognava riempirli.
Il sergente Jelal ci accolse con cordialità, dicendo che stavamo per entrare in una delle compagnie più gloriose, “la migliore di tutta la flotta”, imbarcata su un’ottima astronave, e non parve dare importanza ai nostri teschietti. Più tardi ci condusse a prua per presentarci al tenente, che ci rivolse un sorriso e tenne un discorsetto in tono paterno. Notai che Al Jenkins non portava più il piccolo teschio d’oro all’orecchio. Nemmeno io l’avevo. Mi ero accorto che nessuno dei Rompicollo di Rasczak lo portava.
Non lo portavo perché, nei Rompicollo di Rasczak, nessuno badava a quanti lanci avevi fatto, o a quali avevi partecipato. O eri un Rompicollo o non lo eri, e se non lo eri, a nessuno importava chi tu fossi. Dato che eravamo arrivati là non come reclute, ma come reduci da una battaglia, ci concessero il beneficio del dubbio dandoci il benvenuto e mostrando appena quell’inevitabile traccia di formale cordialità che chiunque mostra verso un ospite che non faccia parte della famiglia.
Ma, meno di una settimana più tardi, avendo partecipato a un lancio di combattimento, facevamo già parte della famiglia ed eravamo Rompicollo da capo a piedi. Ci chiamavano per nome, rifilandoci solenni lavate di testa se era necessario, il tutto con la salda certezza, da una parte e dall’altra, che ormai eravamo fratelli per la vita e la morte, liberissimi di esprimere le nostre sciocche opinioni con assoluta franchezza e di sentircele bocciare con altrettanta sincerità. Quando non eravamo in servizio chiamavamo per nome perfino i graduati. Il sergente Jelal era costantemente in servizio, naturalmente, a meno che non lo incontrassimo a terra, nel qual caso diventava Gelatina per tutti, e si comportava come se il suo grado non significasse niente.
Il tenente era sempre “il tenente”, mai il signor Rasczak o il tenente Rasczak. Semplicemente “il tenente”, sia che gli si parlasse a tu per tu, sia che lo si nominasse in terza persona. Non c’era altro dio al di fuori del tenente, e il sergente Jelal era il suo profeta. Jelly poteva dire no, e quel no poteva essere oggetto di discussioni, specie da parte dei sergenti più giovani, ma se diceva: “Il tenente non sarebbe d’accordo”, parlava ex cathedra e l’argomento era chiuso. A nessuno veniva mai in mente di controllare se il tenente era o non era contrario, il Verbo aveva parlato.
Il tenente era come un padre per noi: ci amava, ci viziava, e tuttavia restava sempre un po’ distante, sia a bordo sia a terra, a meno che a terra non ci fossimo arrivati via lancio. E durante i lanci… È difficile credere che un ufficiale possa preoccuparsi di ciascun appartenente a uno squadrone sparpagliato su un’area di duecentocinquanta chilometri quadrati. Lui invece ci riusciva. Si angosciava per ognuno di noi. Come facesse a non perderci mai di vista proprio non lo so, ma nel bel mezzo della più assoluta confusione la sua voce risuonava nel circuito di comando: — Johnson! Controlla la Pattuglia sei, Smitty è nei guai. — E potevi scommettere fino all’ultimo soldo che se n’era accorto prima del capopattuglia di Smith.
Inoltre, sapevi con certezza assoluta, assiomatica, irrefutabile, che finché avevi un alito di respiro il tenente non sarebbe salito sulla lancia senza di te. Durante la guerra i ragni erano riusciti a fare alcuni prigionieri, ma tra questi non figurava nessun Rompicollo di Rasczak.
Gelatina ci faceva da madre, ci stava sempre vicino, si prendeva cura di noi senza viziarci. Però non faceva mai rapporti al tenente: tra i Rompicollo non era mai intervenuta la corte marziale e nessuno aveva mai subito la fustigazione. Gelatina non aveva nemmeno bisogno di affibbiarci ore di straordinario per farci rigare diritto: il suo sistema era un altro. Ci squadrava dall’alto in basso all’ispezione quotidiana e diceva semplicemente: — Nella Marina potresti anche fare bella figura. Perché non chiedi il trasferimento? — e otteneva il risultato voluto, dato che tra noi era diffusa la ferma convinzione che quelli della Marina dormissero senza levarsi l’uniforme e si lavassero solamente la faccia.
In genere, però, Gelatina non si preoccupava direttamente del mantenimento della disciplina fra la truppa: si limitava a imporla ai graduati e si aspettava che loro facessero altrettanto con noi. Il mio capopattuglia, quando mi arruolai nei Rompicollo, era Red Green. Dopo un paio di lanci, appena cominciai a rendermi conto di quanto fosse splendido far parte di quel gruppo sviluppando la conseguente dose di boria, mi scappò una rispostaccia a Red. Non fece rapporto a Gelatina, si limitò a trascinarmi nel locale delle docce per rifilarmi una discreta scarica di pugni. Dopodiché diventammo amici, tanto che in seguito mi raccomandò come vicecapopattuglia.
In realtà, non sapevamo affatto se davvero quelli della Marina dormissero vestiti. Noi occupavamo la nostra parte dell’astronave e i membri dell’equipaggio la loro, e se per caso ci capitavano tra i piedi per motivi indipendenti dal servizio li trattavamo molto freddamente. In fin dei conti è logico mantenere le distanze, no? La cabina del tenente si trovava nei quartieri riservati agli ufficiali maschi, situati nella zona della Marina, e noi ci astenevamo dal recarci in quel territorio, salvo per motivi di servizio, cioè molto raramente. Invece andavamo a prua per montare la guardia. La Rodger Young era un’astronave mista, con un capitano donna e altre signore fra gli ufficiali e gli specialisti. A prua della paratia 30 si trovava il quartier generale delle donne, e due Fanteria spaziale mobile montavano la guardia giorno e notte davanti all’unica porta di comunicazione. (Durante le battaglie quella porta, come tutti gli altri portelli a tenuta stagna, veniva chiusa: nessuno dei fanti spaziali mobili restava a bordo durante un lancio.)
Gli ufficiali in servizio avevano il privilegio di oltrepassare la paratia 30, e, compreso il tenente, di pranzare nella mensa mista che si trovava al di là della paratia. Ma non si trattenevano mai a lungo: mangiavano e se ne andavano. Forse le altre corvette da trasporto erano amministrate in modo diverso, ma a bordo della Rodger Young si usava così: sia il tenente, sia il capitano Deladrier, volevano una nave dove regnassero serenità e disciplina.
In ogni modo, il servizio di guardia rappresentava un privilegio. Era riposante starsene ai lati di quella porta, a gambe larghe e braccia conserte, oziando senza pensare a niente, ma con la gradita certezza di vedere spuntare da un momento all’altro una bella creatura (anche se poi non potevamo nemmeno rivolgerle la parola, salvo per motivi di servizio). Una volta venni convocato addirittura nella cabina del capitano. — Porti queste carte all’ingegnere capo, per favore — disse, guardandomi bene in faccia.
La mia occupazione a bordo, a parte il servizio di corvée, consisteva nel provvedere alla manutenzione degli impianti elettronici, sotto l’attenta sorveglianza di Padre Migliaccio, il responsabile della prima squadra. Mi sembrava di essere tornato ai tempi in cui lavoravo sotto la sorveglianza di Carl. I lanci avvenivano saltuariamente, e nel frattempo tutti dovevano darsi da fare. Se un uomo non aveva nessuna capacità particolare, poteva sempre lustrare le paratie, niente era mai abbastanza immacolato per il sergente Jelal. Seguivamo le regole della Fanteria spaziale mobile: tutti combattono, tutti lavorano. Il nostro primo cuoco era Johnson, sergente della seconda squadra, un simpatico ragazzo della Georgia (quella nell’emisfero occidentale, non l’altra) e un vero artista della cucina. Tra l’altro, si lasciava corrompere facilmente. Piaceva anche a lui sgranocchiare qualcosa tra un pasto e l’altro, e quindi non vedeva perché non potessero farlo anche gli altri.
Con Padre Migliaccio a capo della prima squadra e il cuoco al vertice dell’altra, eravamo sistemati ottimamente, corpo e anima. Ma se uno dei due avesse dovuto lasciarci le penne, quale ci sarebbe mancato meno? Quesito interessante che non tentammo mai di risolvere, ma che avrebbe certo fornito argomento di discussione.
La Rodger Young faceva continue missioni di guerra, e noi un buon numero di lanci, sempre diversi. Ogni lancio dev’essere diverso dagli altri, in modo che il nemico non possa attribuirci una tattica di combattimento. Ma non partecipammo più a grandi battaglie, agivamo da soli, perlustravamo, compivamo razzie e incursioni. La Federazione terrestre non era in grado di sferrare offensive su larga scala. La disgraziata Operazione ragnatela ci era costata troppe navi, e aveva seminato troppi vuoti fra le truppe addestrate. Era necessario prendere tempo per tamponare le falle.
Nel frattempo, piccole unità veloci della Marina spaziale, e tra queste la Rodger Young e altre corvette da trasporto, cercavano di essere contemporaneamente dappertutto, costringendo il nemico in posizione difensiva e infliggendogli perdite e danni ingenti. Anche noi subivamo perdite ed eravamo costretti a imbarcare nuovi uomini ogni volta che tornavamo a Sanctuary per rifornirci di capsule. Continuavo ad avere la tremarella a ogni nuovo lancio, ma i veri lanci non avvenivano molto spesso e le permanenze a terra erano molto brevi. In compenso, c’erano giorni e giorni di vita di bordo.
Fu il periodo più felice della mia vita sebbene allora non ne fossi conscio. Anch’io mi lamentavo, proprio come tutti gli altri, e mi piaceva anche farlo.
La prima vera catastrofe ci capitò quando perdemmo il tenente.
Quello, credo, fu il momento peggiore della mia vita, perché mi colse in condizioni emotive di profonda prostrazione: mia madre si trovava a Buenos Aires quando i ragni avevano distrutto la città.
Ero venuto a saperlo molto tempo dopo, un giorno in cui, durante uno scalo a Sanctuary per rifornirci di capsule, ci venne consegnata la posta arretrata. C’era anche un biglietto di zia Eleonora, che non era stato cifrato e trasmesso via radio perché lei si era dimenticata di scriverci sopra URGENTE. Tre sole righe, molto asciutte. In un certo senso, zia Eleonora pareva quasi addossare a me la responsabilità della disgrazia. Se poi fosse colpa mia perché essendo nelle Forze armate avrei dovuto impedire l’incursione, oppure perché, a suo avviso, mia madre aveva fatto quella gita a Buenos Aires per dimenticare il dispiacere della mia assenza, non lo si capiva bene. Pareva piuttosto che zia Eleonora mi accusasse di entrambe le cose.
Stracciai il biglietto e cercai di vincere la disperazione. Pensai che fossero morti entrambi i miei genitori, dato che papà non avrebbe lasciato partire la mamma da sola per un viaggio così lungo. Zia Eleonora non diceva niente di lui, ma non l’avrebbe nominato in ogni caso. Lei si preoccupava solo di sua sorella. In realtà, le cose non stavano così. Seppi più tardi che mio padre sarebbe dovuto partire insieme alla mamma, ma che all’ultimo momento era successo qualcosa per cui aveva dovuto trattenersi a casa, con l’accordo di raggiungerla il giorno seguente. Ma zia Eleonora non me lo disse.
Un paio d’ore dopo, il tenente mi mandò a chiamare per chiedermi se desideravo andare a casa in licenza, mentre l’astronave partiva per una nuova missione. Mi fece notare che avevo accumulato parecchi giorni di licenza e mi conveniva approfittarne, date le circostanze. Non comprendevo come avesse fatto a capire che avevo perso una persona cara, ma era chiaro che lo sapeva. Comunque, ringraziai e rifiutai. Preferivo aspettare che tutta la compagnia andasse in licenza.
E sono contento di avere rifiutato, perché altrimenti non sarei stato con gli altri quando il tenente ci lasciò, e questo sarebbe stato insopportabile.
La disgrazia accadde all’improvviso, poco prima che tornassimo a bordo dopo un lancio. Un uomo della terza pattuglia era stato ferito durante la battaglia, anche se non gravemente. Il vicecaposquadra accorse per raccoglierlo, e restò a sua volta ferito leggermente. Il tenente, che come al solito non perdeva di vista nessuno e senza dubbio aveva verificato a distanza le condizioni fisiche dei due, assicurandosi prima di tutto che il vicecaposquadra fosse ancora vivo, andò lui stesso a raccoglierli, portandone uno per braccio.
Giunto a pochi metri dalla scialuppa li lanciò. I due furono afferrati e tirati in salvo, ma non il tenente che, rimasto a terra senza la protezione del cerchio di uomini, venne colpito e morì.
Ho taciuto di proposito i nomi del soldato e del vicecaposquadra. Il tenente stava raccogliendoci tutti, con il suo ultimo respiro. Forse quel soldato ero io. Non ha importanza chi fosse. L’importante era che la nostra famiglia aveva perso il suo capo, il padre che aveva fatto di noi quello che eravamo.
Dopo che il tenente ci ebbe lasciati, il capitano Deladrier invitò il sergente Jelal a mangiare a prua insieme agli altri capisquadra. Ma lui chiese di essere esonerato. Avete mai visto una vedova con un carattere forte tenere la famiglia unita comportandosi come se il capofamiglia si fosse semplicemente allontanato e potesse tornare da un momento all’altro? Questo è quanto fece Gelatina. Divenne solo lievemente più severo e se mai gli accadeva di dire “Al tenente questo non sarebbe piaciuto”, lo faceva quasi con pudore. E poi non lo diceva tanto spesso.
Il sergente lasciò la nostra organizzazione di combattimento quasi immutata. Invece di spostare tutti, nominò sergente di squadrone (nominale, s’intende) il vicecaposquadra della seconda squadra, lasciando i due capisquadra ai loro posti di responsabilità. A me affidò funzioni di caporale, nominandomi vicecaposquadra (con mansioni soprattutto decorative). Poi lui stesso si comportò come se il tenente si fosse temporaneamente assentato e ci stesse semplicemente trasmettendo i suoi ordini, come al solito.
Questo ci salvò.