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La recluta è uno scemo, già pensa che s’ammazzerà.

Ormai ha perso il fegato, l’orgoglio più non ha.

Ma un giorno e poi un altro lo pestano a dover, che un gran ben gli fa.

E un bel mattino, lui si ritrova pulito e ben in là.

Uno sgorbio più non è, ma ordinato e sveglio è.

Finito lui ha di finger cose che non è.

RUDYARD KlPLlNG


Non ho molto da aggiungere riguardo al mio addestramento. Nel complesso, dovetti faticare moltissimo ma me la cavai. E con questo ho detto tutto.

Invece voglio parlarvi delle tute potenziate, un po’ perché mi affascinavano, e un po’ perché proprio a causa loro mi cacciai in un guaio. Non ho niente da recriminare, intendiamoci, ebbi solo quello che meritavo.

La vita di un soldato della Fanteria spaziale mobile è legata alla sua tuta esattamente come quella di un uomo appartenente a un’unità K9 dipende dal suo cane. L’armatura potenziata rappresenta metà della ragione per cui siamo definiti Fanteria spaziale mobile e non semplicemente Fanteria. (L’altra metà è rappresentata dalle astronavi che ci portano nelle zone di operazione e dalle capsule in cui veniamo chiusi per il lancio.) Le tute ci forniscono vista più acuta, orecchie più sensibili, schiena più robusta per trasportare più armi pesanti e munizioni, gambe migliori, intelligenza più pronta (in senso militare, s’intende: un uomo in tuta può essere stupido come qualsiasi altro, solo che è meglio che non lo sia), maggiore resistenza, minore vulnerabilità.

La nostra non è una tuta spaziale, sebbene possa svolgere anche tale funzione. Non è nemmeno una vera armatura, per quanto i cavalieri della Tavola rotonda disponessero di corazze molto meno solide delle nostre. Non è un carro armato, ma un soldato della Fanteria spaziale mobile, da solo, potrebbe affrontare un intero squadrone di carri armati e distruggerli se qualcuno fosse così avventato da opporglieli. Una tuta non è un’astronave ma può volare, un po’ almeno, e d’altra parte né un’astronave né una flotta di astronavi possono combattere contro un uomo in tuta, a meno di non far saltare per aria tutta la zona delle operazioni (e sarebbe come buttare giù un palazzo per uccidere una mosca). Al contrario, noi possiamo fare molte più cose e molti più danni di una nave di superficie, subacquea o spaziale.

Ci sono molti modi impersonali di causare distruzioni all’ingrosso, tramite unità da guerra o missili di vario tipo, producendo catastrofi così totali, così irreparabili, che la guerra finisce perché la nazione o il pianeta nemico hanno cessato di esistere. Quello che facciamo noi è completamente diverso. Noi rendiamo la guerra una faccenda personale come un pugno sul naso. Noi possiamo scegliere, esercitando l’esatto quantitativo di pressione richiesta nel punto specifico e al momento stabilito. Non ci è mai stato detto di andare e uccidere o catturare tutti i mancini rossi di capelli in una particolare zona, ma se ci venisse chiesto potremmo farlo, lo faremmo.

Siamo quelli che si recano in una particolare località, a un’ora determinata, occupano una zona precisa, la tengono, stanano il nemico dalle trincee e lo costringono ad arrendersi o a morire. Siamo la milizia a piedi, l’umile soldataglia, i fanti che vanno là dove c’è il nemico e lo combattono di persona. Lo facciamo con armi diverse ma con le stesse regole di quando, circa cinquemila anni fa, le truppe di fanteria di Sargon il grande costrinsero i sumeri a piegarsi.

Forse un giorno saranno in grado di lare a meno di noi. Forse un giorno qualche genio pazzo e miope, dalla fronte sporgente e dalla mente cibernetica, concepirà un’arma che potrà infilarsi in una trincea, stanare il nemico, costringendolo ad arrendersi o a morire, senza uccidere i commilitoni tenuti prigionieri laggiù. Non lo so, non sono un genio, sono solo un soldato della Fanteria spaziale mobile. Nel frattempo, finché la macchina per sostituirci non sarà stata costruita, noi fanti siamo in grado di cavarcela molto bene, e io posso fare la mia parte, al momento opportuno.

Forse un giorno tutto sarà tranquillo e sistemato, e avremo davvero quella meravigliosa realtà di cui parla una canzone: “Non faremo mai più la guerra”. Può darsi. Forse quello stesso giorno il leopardo si cancellerà le macchie e si cercherà un impiego come mucca del Jersey. Non lo so. Ripeto, non sono un professore di cosmopolitica, sono un fante. Quando il governo mi spedisce, vado. Tra un ordine e l’altro cerco di dormire più che posso.

Però, mentre non hanno ancora inventato la macchina per sostituirci, hanno comunque studiato il modo di aiutarci il più possibile. Per esempio, hanno inventato la tuta.

Non c’è bisogno di descriverne l’aspetto, visto che è stata illustrata così tanto spesso. Chiusi nella tuta, sembriamo grossi gorilla d’acciaio, equipaggiati con armi adatte a un primate. Forse per questo i sergenti cominciano le loro sfuriate chiamandoci scimmioni. Però forse anche ai tempi di Cesare i sergenti usavano gli stessi titoli onorifici. Ma una tuta è considerevolmente più robusta di un gorilla. Se un fante in tuta scambiasse un abbraccio con un gorilla, lo scimmione morirebbe soffocato, e il fante e la tuta non farebbero una grinza.

L’ammirazione dei profani va tutta ai muscoli, cioè alla pseudomuscolatura, ma il vero miracolo è il controllo dell’energia immagazzinata. La trovata geniale sta nel fatto che la tuta non ha bisogno di essere comandata: la si indossa come un abito e ci si sta dentro come nella propria pelle. Qualsiasi tipo di scafandro e di mezzo di trasporto richiede che si impari a pilotarlo: ci vuole tempo, bisogna acquisire una notevole quantità di nuovi riflessi, un modo diverso e artificiale di pensare. Perfino andare in bicicletta richiede una certa abilità, molto differente dal semplice camminare, e quanto alle astronavi… poveri noi! Non vivrei abbastanza per imparare tutto quello che bisogna sapere per guidarle: le navi spaziali sono fatte per acrobati dotati di grande talento matematico.

Una tuta, invece, la si indossa e basta.

Otto o forse nove quintali, a equipaggiamento completo. Eppure, fin dalla prima volta che la indossi, puoi subito camminare, correre, saltare, sdraiarti, prendere in mano un uovo senza romperlo (qui magari occorre un minimo di pratica, piano piano si migliora), ballare la giga (sempre se la sai ballare anche quando non hai la tuta), poi saltare sul tetto della casa accanto e tornare giù come una piuma.

Il segreto sta nei rigeneratori e nell’amplificazione.

Non chiedetemi di spiegarvi i particolari tecnici: non ne so niente.

D’altra parte molti famosi violinisti non sono in grado di costruirsi il loro strumento. Posso tenerla in ordine, eseguire qualche riparazione e controllare i trecentoquarantasette dispositivi, da SPENTA fino a PRONTA PER L’USO, ma a un povero fante non si può chiedere di più. Se però la mia tuta si guasta sul serio, chiamo il medico, ossia un ingegnere elettromeccanico, un ufficiale specialista di Marina, di solito un tenente (leggi “capitano” rispetto ai nostri gradi) che fa parte dell’equipaggio delle navi-trasporto o viene suo malgrado assegnato a un Comando di reggimento del campo Arthur Currie. Tale destinazione è considerata da un ufficiale di Marina peggiore della morte.

Se proprio vi interessa conoscere nei particolari la fisiologia di una tuta, potete trovare la maggior parte delle informazioni necessarie, quelle non coperte da segreto, in qualsiasi biblioteca di una certa importanza. Per la piccola parte coperta da segreto potete rivolgervi a un affidabile agente segreto nemico, dico “affidabile” perché le spie sono una manica di imbroglioni: è probabile che cerchino di vendervi notizie che potete ottenere gratis andando in biblioteca.

Io posso spiegarvi solo come funziona. L’interno è tutta una massa di servomeccanismi a pressione: ce ne sono a centinaia. Premendo con il palmo della mano, la tuta sente l’impulso, lo amplifica e coopera con voi per eliminare la pressione dai recettori che danno l’ordine di premere. Ciò può creare confusione, un simile effetto di feedback in un primo momento può risultare sconcertante, anche se il vostro corpo ci si è abituato fin dalla più tenera infanzia, quando si smette di sferrare calci inutilmente. I bambini, essendo in una fase di apprendimento, risultano goffi. Gli adolescenti e gli adulti gestiscono continuamente gli effetti di feedback senza neppure rendersene conto. Un uomo affetto dal morbo di Parkinson da parte sua ha i circuiti troppo danneggiati per affrontare questa operazione.

Il sistema di rigenerazione di cui è dotata induce la tuta a riprodurre esattamente qualsiasi vostro movimento, però con molta più forza.

Forza controllata, e senza che voi dobbiate preoccuparvene. Voi saltate? La pesante tuta salta, ma molto più in alto di quanto possiate fare da soli. Saltate con molta forza? I propulsori della tuta interverranno, amplificando a loro volta quello che fanno i muscoli della gamba della tuta, dandovi la spinta di tre reattori, il cui asse di pressione passa attraverso il centro della vostra massa. È così che potete saltare sul tetto della casa accanto. La qual cosa vi fa ridiscendere altrettanto velocemente di come siete saliti… la tuta lo nota tramite il dispositivo di prossimità e avvicinamento (una sorta di radar rudimentale simile a una valvola di prossimità) e quindi fa intervenire ancora i reattori quanto basta per attutire l’impatto con il suolo, senza che voi dobbiate pensarci.

Qui sta la bellezza di una tuta potenziata: non dovete pensare a quello che fate. Non dovete condurla, guidarla, comandarla, regolarla. La indossate e lei prende ordini direttamente dai vostri muscoli e riproduce esattamente quello che tentate di fare. Così si può tenere la mente sgombra per maneggiare le armi e badare a quello che succede intorno, il che risulta di suprema importanza per un fante intenzionato a morire nel suo letto. Se un fante venisse lanciato in zona operativa dovendosi occupare di una grande quantità di dispositivi, chiunque fosse equipaggiato in modo più semplice, diciamo con un’ascia di pietra, potrebbe spaccargli la testa mentre il malcapitato sta cercando di leggere i suoi quadranti.

Anche gli occhi e le orecchie della tuta sono fatti in modo da funzionare senza distrarre l’attenzione. Diciamo che in una tuta da combattimento ci sono tre circuiti audio normali. Il controllo di frequenza per mantenere la sicurezza tattica è molto complesso, almeno due frequenze per ogni circuito, entrambe necessarie per il più piccolo segnale ed entrambe che trasmettono sotto il controllo di un orologio al cesio regolato al micromicrosecondo, ma tutto questo non rappresenta un vostro problema. Se volete il circuito A per comunicare con il caposquadra, stringete le mascelle una volta, per il circuito B due volte, e così via. Il microfono è legato alla gola, i ricevitori sono inseriti nelle orecchie e non possono essere strappati via. Non resta che parlare. Oltre a questo, due microfoni esterni posti ai lati del casco vi consentono l’udito binaurale rispetto all’ambiente circostante, proprio come se foste a capo scoperto. Vi basta girare la testa e potete sopprimere i rumori che vi disturbano senza perdere quello che il vostro caposquadra sta dicendo.

Dato che il capo è l’unica parte del corpo non collegata con i servomeccanismi che controllano i muscoli della tuta, si usano testa, collo, mento e muscoli della mascella per compiere varie manovre e conservare libere le mani per combattere. Sul mento, una piastra regola gli apparati visivi, così come l’interruttore della mascella agisce su quelli audio. Tutti i visualizzatori sono proiettati su uno specchio situato davanti alla vostra fronte su cui potete seguire l’azione in corso sopra e dietro la vostra testa. Il casco è talmente sovraccarico di dispositivi da farvi assomigliare a un gorilla idrocefalo, ma con un po’ di fortuna il nemico non vive abbastanza da inorridire alla vostra vista, e in complesso tutto è sistemato in funzione della massima praticità. Si passa da un dispositivo radar all’altro più presto di quanto si faccia per cambiare canale ed evitare uno spot pubblicitario: si controlla il nemico, si localizza il comandante, si tengono d’occhio i compagni che stanno ai fianchi eccetera. Se scuotete il capo come un cavallo infastidito da una mosca, i rilevatori a raggi infrarossi si dirigeranno sopra la vostra testa, agitatela ancora ed essi si rivolgeranno in basso. Se non utilizzate più il lanciarazzi, la tuta lo rimette al suo posto finché non vi serve ancora. È inutile poi che stia a descrivervi come funzionano il respiratore, i giroscopi e tutti gli altri marchingegni. A contare è il fatto che ogni cosa è stata studiata per il medesimo scopo: lasciarvi liberi di eseguire il vostro compito, cioè combattere.

Naturalmente, l’uso corretto di tutti i dispositivi richiede un po’ di pratica, e se ne fa tanta finché azionare il circuito voluto diventa meccanico come lavarsi i denti. Ma per indossare la tuta, per muoversi con addosso la tuta, non c’è quasi bisogno di fare pratica. Poi ci si esercita nel salto perché, se è vero che si spicca il volo con movimento assolutamente naturale, con la tuta si va più in alto, più in fretta e più lontano, e si resta in aria più a lungo. Basterebbe quest’ultimo fatto a rendere indispensabile un addestramento speciale. Quei pochi secondi in aria, e in combattimento i secondi sono preziosissimi, possono infatti essere utilizzati per mille cose: dall’alto si può misurare tiro e portata, scegliere il bersaglio, parlare e ricevere, fare fuoco, ricaricare, decidere di saltare di nuovo senza scendere a terra e quindi annullare i comandi automatici per fare intervenire di nuovo i propulsori. Con un po’ di pratica, si riesce a fare tutto durante un solo balzo.

In generale, comunque, le tute potenziate non sono difficili da usare. Fanno tutto loro, esattamente come faremmo noi, però meglio. Hanno un solo difetto: quando si è dentro, è impossibile grattarsi. Se dovessi mai trovare una tuta che permetta di grattarsi tra le scapole, me la sposerei immediatamente.

Ci sono tre tipi di tute nella Fanteria spaziale mobile: il modello d’assalto, di comando e quello da esplorazione. Queste ultime sono molto veloci e a lunga autonomia, ma hanno un’armatura leggera. Le tute da comando consumano molto per gli spostamenti e i salti. Sono veloci e permettono di saltare molto in alto, e in più sono dotate di un circuito radar e di comunicazione tre volte più potente rispetto alle altre. Sono anche le uniche ad avere un sistema di orientamento “cieco” di riserva. Le tute d’assalto sono per gli “addormentati”, gli esecutori.


Forse l’ho già detto, fatto sta che m’innamorai perdutamente di quelle tute, anche se il primo errore che commisi lo pagai caro. Quando il mio squadrone era di turno per l’allenamento con le tute, per me era un gran giorno. La volta in cui commisi l’errore avevo il grado fittizio di sergente, fungevo cioè da finto comandante di plotone ed ero armato con finte bombe A da usare nel buio simulato contro un nemico simulato. Il difficile stava proprio qui: era tutto finto, ma bisognava comportarsi come se tutto fosse vero.

Ci stavamo ritirando, cioè “stavamo avanzando verso le retrovie”, e uno degli istruttori tolse la corrente a uno dei miei uomini, a mezzo comando radio, facendo di lui una “perdita irrecuperabile”. In conformità all’etica della Fanteria spaziale mobile, ordinai di raccoglierlo e mi sentii alquanto fiero per essere riuscito a emanare l’ordine prima che il mio numero due mi precedesse andando di sua iniziativa alla ricerca del compagno. Poi mi voltai per fare la mossa successiva, cioè gettare un finto confetto atomico per impedire al finto nemico di raggiungerci.

La nostra ala stava ripiegando. Dovevo lanciare l’ordigno diagonalmente, lasciando quindi lo spazio necessario affinché i miei uomini non fossero investiti dall’esplosione, e nello stesso tempo facendolo cadere abbastanza vicino ai nemici da causare scompiglio nelle loro fila. Il tutto scattando, naturalmente. I movimenti sul terreno e i vari problemi connessi erano stati preliminarmente discussi, a tavolino: eravamo ancora dei novellini, e in definitiva le uniche variazioni non previste erano le perdite umane.

La teoria richiedeva che io individuassi esattamente, a mezzo radar, i miei uomini che potevano restare colpiti dall’esplosione. Ma tutto questo andava fatto scattando, e io non ero ancora particolarmente svelto a leggere i piccoli schermi radar all’interno del casco. Imbrogliai solo un po’: con un movimento brusco della testa rialzai i visualizzatori e guardai a occhio nudo nella piena luce del giorno. Secondo me, c’era tutto lo spazio che mi occorreva. Figuriamoci, vedevo benissimo il mio uomo in pericolo, a ottocento metri di distanza, e non dovevo lanciare altro che un minuscolo razzo HE, destinato a provocare un gran fumo e niente più. Perciò scelsi l’obiettivo a occhio, puntai il lanciarazzi e tirai. Poi rimbalzai via, soddisfatto. Non avevo perso nemmeno un secondo.

Ma mentre mi trovavo a mezz’aria mi venne tolta la corrente. Non ci si fa male, l’effetto è a scoppio ritardato e scatta con l’atterraggio. Una volta ridisceso rimasi lì, immobile, sostenuto dai giroscopi, ma incapace di fare un gesto. Potete immaginare come ci si possa sentire: chiusi in una tonnellata di metallo e senza corrente. Altro che muoversi!

In compenso, imprecavo a tutto spiano. Non avevo previsto che mi avrebbero fatto fare la “perdita” proprio quando toccava a me condurre l’azione. Che idiota ero stato! Dovevo immaginarlo che il sergente Zim avrebbe tenuto sotto controllo il caposquadrone.

Infatti mi balzò addosso e mi parlò in privato tramite il “faccia a faccia”. Insinuò che il massimo che avrei potuto fare era scopare i pavimenti, dato che ero troppo stupido, imbranato e distratto per maneggiare piatti e bicchieri sporchi. Discusse del mio passato, del mio futuro e fece altri apprezzamenti generici, tutt’altro che lusinghieri. Finì dicendo in tono piatto: — Ti piacerebbe se il colonnello Dubois avesse visto quello che hai fatto?

Poi mi lasciò. Aspettai là acquattato, e ci rimasi due ore buone, fino al termine dell’esercitazione. La tuta potenziata, che mi era sembrata fatta di piume, versione moderna degli stivali delle sette leghe, era diventata uno strumento di tortura.

Finalmente Zim tornò da me, riebbi la corrente e balzammo insieme a velocità massima verso il quartier generale.

Il capitano Frankel fu di meno parole ma più incisivo.

Quando ebbe finito di dirmi quello che pensava, aggiunse, con il tono piatto che gli ufficiali sfoggiano quando citano i regolamenti: — È tuo diritto chiedere di essere giudicato dalla corte marziale, se ci tieni. Che cosa rispondi?

Deglutii e dissi: — Signornò! — Fino a quel momento non mi ero reso conto della gravità del guaio in cui mi ero cacciato.

Il capitano Frankel parve lievemente sollevato. — Allora sentiremo cosa dirà il comandante di reggimento. Sergente, scorti il prigioniero. — Raggiungemmo in tutta fretta il comando, e per la prima volta incontrai faccia a faccia il comandante di reggimento. In quel momento ero convintissimo che mi deferisse alla corte marziale. Ma ricordavo che Ted Hendrick si era messo nei guai per avere parlato troppo, e così non aprii bocca.

Il maggiore Malloy mi disse cinque parole in tutto. Dopo avere ascoltato il sergente Zim, me ne disse altre tre: — Confermi questa versione?

Risposi: — Signorsì — e con questo conclusi, per quanto mi riguardava.

Il maggiore Malloy parlò al capitano Frankel. — C’è una possibilità di recuperare questo soldato?

Il capitano Frankel rispose: — Credo di sì.

— Allora — concluse il maggiore Malloy — procederemo con una punizione amministrativa. — Poi si rivolse a me e disse: — Cinque frustate.

Be’, vi assicuro che non mi tennero in ansia a lungo. Un quarto d’ora dopo il dottore aveva finito di esaminarmi il cuore, e il sergente di guardia mi stava facendo indossare quella speciale camicia che viene via senza bisogno di sfilarla dalle maniche in quanto dotata di cerniere dal colletto ai polsini. Era appena suonata l’adunata per la rivista. Provavo un senso di isolamento, di irrealtà… sensazione che avevo imparato corrispondeva a uno stato di terrore assoluto. L’allucinazione di un incubo…

Zim entrò nella tenda di guardia proprio mentre la tromba terminava la sua esecuzione. Guardò il sergente di guardia (era di turno il caporale Jones, quella sera), che uscì. Zim si avvicinò e mi mise qualcosa in mano. — Morsica questo — disse con calma. — Fa molto bene.

Era un paradenti di gomma, di quelli che usavamo nelle esercitazioni corpo a corpo. Zim se ne andò.

Mi misi in bocca il paradenti. Poi venni ammanettato e condotto fuori.

La motivazione diceva: “…in combattimento simulato, grave negligenza che durante un’azione avrebbe causato la morte di un compagno di squadra”. Poi mi sfilarono la camicia e mi frustarono.

È strano, ma una fustigazione è più dura da vedere che da subire. Non dico che venire frustati sia uno spasso. Non avevo mai sofferto tanto in vita mia, e le pause tra un colpo e l’altro erano peggiori delle nerbate. Ma quel paradenti mi fu di grande aiuto, e l’unico grido che lanciai non riuscì a oltrepassarlo.

Poi c’è una seconda stranezza: nessuno fece più riferimento all’incidente, nemmeno i miei compagni. Da quanto potei accorgermi, in seguito Zim e gli istruttori mi trattarono allo stesso modo di prima. Dall’istante in cui il medico mi disinfettò le piaghe e mi disse di tornare in servizio, la faccenda fu considerata chiusa. Riuscii perfino a ingoiare qualche boccone, quella sera, e mi sforzai di prendere parte alla conversazione.

Un’ultima cosa dirò, a proposito delle punizioni amministrative: non lasciano alcun segno di demerito sul vostro ruolino. Vengono cancellate dagli atti al termine del corso e così si resta senza macchia. L’unica traccia che lasciano è quella che conta: non si dimenticano più.

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