Allora il Signore disse a Gedeone: “Troppa gente è con te […] Perciò dà quest’ordine a tutto il popolo: chiunque è timoroso e ha paura, si ritiri e torni pure indietro”. Se ne tornarono così ventiduemila e ne rimasero soltanto diecimila. Ma il Signore disse di nuovo a Gedeone: “Vi è ancora troppa gente; falli discendere presso le acque; laggiù li sceglierò” […] Fatto dunque discendere il popolo alle acque, il Signore disse a Gedeone: “Metti da una parte chiunque lambirà l’acqua nella sua mano con la lingua, come i cani, e quanti si piegheranno sulle ginocchia per bere mettili dall’altra”. Il numero di coloro che lambirono l’acqua portando la mano alla bocca fu di trecento uomini; tutti gli altri avevano bevuto piegando le ginocchia […]
E il Signore disse a Gedeone: “Con quei trecento io vi libererò […] tutto il resto del popolo ritorni pure alle sue case”.
Due settimane dopo ci tolsero le brande. Vale a dire che ci toccò la gioia di piegarle, trasportarle a spalla per sei chilometri e sistemarle in un magazzino. Ma ormai la cosa non aveva più molta importanza. La terra nuda ci sembrava molto più calda e soffice, specialmente quando l’adunata squillava nel cuore della notte, cosa che capitava mediamente tre volte alla settimana, e dovevamo saltare in piedi per giocare ai soldati. In genere, dopo uno di quegli assurdi esercizi, riuscivo a addormentarmi di colpo come un sasso. Avevo imparato a dormire ovunque, in qualsiasi momento, seduto, in piedi, perfino marciando. Potevo dormire addirittura durante la rivista, irrigidito sull’attenti, e godermi la fanfara senza svegliarmi. Mi svegliavo sull’istante, però, appena veniva urlato un comando. Al campo Arthur Currie feci una scoperta molto importante: la felicità consiste nel dormire a sufficienza. Tutto qui. Molti ricconi infelici che conosco devono prendere sonniferi per dormire. Quelli della Fanteria spaziale mobile non ne hanno bisogno. Date a un fante una cuccetta e il tempo di infilarcisi dentro, e lui sarà felice come un verme in una mela. Addormentato.
In teoria, ci erano concesse otto ore di riposo per notte, e circa un’ora e mezza di libertà dopo il rancio della sera. In pratica, le ore del riposo erano soggette agli allarmi, al servizio notturno, alle marce, alle cause di forza maggiore e a tutti i capricci di quelli che stavano sopra di noi. Le serate, invece, se non si doveva far parte di qualche squadra o scontare una punizione per infrazioni minori, erano dedicate in genere a lustrare le scarpe, fare il bucato, tagliarsi i capelli (alcuni di noi divennero abbastanza bravi come barbieri, ma una bella pelata a zero era la cosa migliore, e quella sa farvela chiunque), per non parlare delle migliaia di altre inezie che riguardavano l’abbigliamento, la cura della persona e le infinite pretese dei sergenti. Per esempio, avevamo imparato a rispondere “lavato!” all’appello del mattino, intendendo con ciò che ci si era lavati almeno una volta dall’ultima sveglia. Si poteva mentire al riguardo e passarla liscia (a me capitò un paio di volte), ma se c’era qualcuno della compagnia che ricorreva a quel trucco a dispetto dei segni evidenti che testimoniavano di come recentemente non si fosse lavato veniva strofinato con spazzole dure e sapone per pavimenti dai suoi compagni di squadra con un caporale istruttore che sorvegliava e dava utili suggerimenti.
Però, se uno non aveva cose più urgenti da fare, dopo cena poteva scrivere una lettera, oziare, chiacchierare, discutere della miriade di carenze mentali e morali dei sergenti e, quello che soprattutto ci piaceva, parlare delle nostre colleghe. (Avevamo finito per convincerci che non esistessero affatto, che fossero creature mitologiche, partorite da fantasie troppo accese. Un ragazzo della nostra compagnia affermò di avere visto una ragazza, al Comando di reggimento. Fu dichiarato all’unanimità bugiardo e inattendibile.) Oppure si poteva giocare a carte, cosa che non avevo mai fatto, e imparare a proprie spese a non barare.
Disponendo poi di venti minuti proprio tutti per sé, si poteva sempre dormire. E questa era la soluzione che veniva scelta più spesso: eravamo sempre in arretrato di parecchie settimane di sonno.
Forse vi avrò dato l’impressione che la vita al campo fosse resa più dura del necessario. Non è esatto. Era semplicemente resa quanto più dura possibile, e di proposito.
Era ferma convinzione di ogni recluta che si trattasse di pura malvagità, di sadismo calcolato, del diabolico piacere che idioti senza cervello traevano dal procurare sofferenza ad altre persone.
Niente affatto. Tutto era troppo pianificato, troppo intellettualistico, troppo efficiente e organizzato troppo impersonalmente per rappresentare un caso di crudeltà fine a se stessa. Era come la chirurgia, e aveva scopi altrettanto obiettivi e spassionati. Può darsi che qualche istruttore se la sia goduta a bistrattarci, però non mi risulta. So per certo, invece (ora), che gli ufficiali psicoanalisti facevano il possibile per estirpare le erbacce, quando sceglievano gli istruttori. Cercavano di selezionare uomini abili, capaci di rendere le cose il più difficili possibile per una recluta, ma si trattava di un semplice obiettivo. Un bullo è troppo stupido, troppo poco obiettivo per essere efficiente. Inoltre si corre il rischio che possa stancarsi del gioco e battere la fiacca. Con questo, non nego che tra gli istruttori ci siano stati anche dei gradassi, ma in fondo anche molti chirurghi (e non dei peggiori) possono provare un certo gusto a maneggiare il bisturi e a vedere sgorgare il sangue.
Parlo di chirurghi perché, in realtà, di questo si trattava: di chirurgia. Lo scopo immediato dell’addestramento era quello di eliminare, allontanandole dall’arma, le reclute troppo deboli o infantili per diventare veri soldati. E in effetti questo obiettivo veniva raggiunto, e su larga scala. (Per poco non buttarono fuori anche me.) In sole sei settimane la nostra compagnia si ridusse a un semplice squadrone. Alcuni furono allontanati senza infamia e senza lode, e autorizzati, se ci tenevano, a completare \a ferma nei servizi sedentari. Altri vennero espulsi per cattiva condotta, scarso rendimento o ragioni mediche.
Di solito, il motivo dell’allontanamento restava segreto, a meno che la recluta stessa non volesse dirlo. Molti, invece, dichiaravano a voce alta di averne abbastanza, davano le dimissioni e si giocavano per sempre il loro diritto al voto. Altri, specialmente i più anziani, non ce la facevano a sopportare lo sforzo fisico, per quanto ce la mettessero tutta.
Mi ricordo un tale, un certo Carruthers, un tipo simpatico sui trentacinque anni. Lo portarono via in barella, mentre continuava a protestare debolmente che non era giusto, che lui aveva fatto del suo meglio e sarebbe tornato.
Faceva pena, perché era simpatico a tutti e la buona volontà non gli mancava. Così guardammo tutti da un’altra parte, convinti di non rivederlo mai più poiché l’avrebbero certo rimandato tra i civili con il suo bravo certificato medico. Invece lo rividi, dopo molto tempo. Aveva rifiutato il congedo (si può, quando è per ragioni mediche), e faceva il cuoco su un’astronave-tradotta. Si ricordava di me, e volle parlare dei vecchi tempi, orgoglioso di essere stato un allievo del campo Arthur Currie quanto lo era mio padre del suo accento di Harvard. Si riteneva un po’ meglio di quelli che mediamente entravano in Marina. Forse lo era davvero.
Tornando a noi, più importante ancora di eliminare il grasso inutile e risparmiare al governo la spesa per l’addestramento di individui inetti, era la massima sicurezza, umanamente possibile, che nessun fante spaziale entrasse in una capsula di lancio senza essere più che preparato al combattimento, cioè fisicamente adatto, deciso, disciplinato e perfettamente addestrato. Una selezione meno accurata sarebbe stata sleale verso la Federazione, verso i compagni di squadra e soprattutto verso il militare stesso.
È esatto, dunque, affermare che la vita al campo è più crudele del necessario?
Vi risponderò così: la prossima volta che dovrò fare un lancio di combattimento, voglio che ai miei lati ci siano uomini usciti dal campo Arthur Currie, o dal suo equivalente siberiano. Altrimenti, rifiuterò di prendere posto nella capsula.
Ma a quel tempo, naturalmente, pensavo anch’io che gli istruttori fossero un branco di idioti fissati e perversi. Facciamo un piccolo esempio, tanto per intenderci. Eravamo al campo da una settimana, quando ci venne consegnata la tuta marrone da parata, in aggiunta a quella ordinaria che portavamo abitualmente. Le uniformi vere e proprie ci furono fornite in seguito. Riportai la mia tuta in fureria lamentandomi con il sergente furiere. Il suo atteggiamento paterno e il fatto che si occupasse solo di faccende amministrative mi avevano spinto a pensare che si trattasse di un mezzo civile. Non avevo ancora imparato a distinguere i nastrini, e lui ne aveva tanti sul petto, altrimenti non avrei osato nemmeno rivolgergli la parola. — Sergente, questa tuta è troppo larga. Il mio comandante di compagnia dice che mi sta addosso come una tenda.
Guardò l’indumento senza toccarlo. — Davvero?
— Sì. Ne vorrei una della mia misura.
Nemmeno una piega. — Forse sarà meglio che io ti spieghi, figliolo. Nell’Esercito esistono solo due tipi di tute: quelle troppo larghe e quelle troppo strette.
— Ma il mio comandante di compagnia…
— Non ne dubito.
— E che cosa devo fare?
— Ah! È un consiglio che vuoi? Te lo do subito. Qui c’è un ago, e ti darò anche un rocchetto di filo. Le forbici non servono, basta una lametta da barba. Dunque, stringi bene la tuta sui fianchi, ma lasciala abbondante di petto e di spalle. Scoprirai in seguito il perché.
L’unico commento del sergente Zim al mio saggio di alta sartoria fu: — Si può fare di meglio. Due ore di ramazza per punizione, fuori servizio.
E così, prima della rivista seguente, riuscii a fare di meglio.
Le prime sei settimane al campo furono una specie di cura ricostituente, e snervante, con un’infinità di adunate, riviste, esercizi, e ore di marcia. Alla fine, via via che le file si assottigliavano, raggiungemmo lo stadio in cui potevamo percorrere ottanta chilometri in dieci ore, il che rappresenta la media di rendimento di un buon cavallo, nel caso non lo sapeste. Per riposare, invece di fermarci, cambiavamo ritmo: passo lento, passo veloce, trotto. A volte facevamo l’intero percorso, bivaccavamo consumando razioni da campo, dormivamo nei sacchi e tornavamo indietro il giorno seguente.
Un giorno ci mettemmo in marcia per un’esercitazione normale, senza coperte in spalla e razioni. Non ci fermammo per colazione, ma la cosa non mi sorprese. L’esperienza mi aveva insegnato a portarmi sempre dietro zollette di zucchero e gallette abilmente sottratte alla mensa. Ma quando, nel pomeriggio, la marcia continuò portandoci sempre più lontani dal campo, cominciai a meravigliarmi. Però avevo imparato a non fare domande stupide.
Poco prima del buio fu ordinato l’alt. Eravamo tre compagnie, ormai alquanto ridotte di effettivi. Ci schierammo in battaglione, sfilammo inquadrati, senza fanfara, venne montata la guardia, poi arrivò l’ordine: — Rompete le righe! — Cercai immediatamente il caporale istruttore Bronski, leggermente meno intrattabile degli altri suoi pari grado, anche perché sentivo di avere una certa responsabilità. Al momento, mi trovavo a essere anch’io un graduato. I galloni non significavano quasi niente, tutt’al più il privilegio di essere mangiato vivo per tutto quello che io o la mia squadra combinavamo, e potevano svanire d’incanto come erano apparsi. Zim aveva provato a nominare capopattuglia tutti i più anziani della compagnia, e alla fine avevo ereditato io il bracciale con un gallone quando, un paio di giorni prima, il nostro capopattuglia dopo essere svenuto era stato portato all’ospedale.
Azzardai: — Caporale Bronski, quali sono gli ordini? Quando suonerà il rancio?
Mi sorrise. — Ho in tasca un paio di gallette. Vuoi che facciamo a metà?
— Come? Signornò, grazie. — Avevo addosso molto di più di due gallette, io. Ormai mi ero fatto furbo. — Niente rancio?
— Ne so quanto te, ragazzo. Ma non vedo elicotteri in arrivo. Se fossi al tuo posto, radunerei la mia pattuglia e cercherei di organizzarmi. Chissà che uno di voi non riesca a centrare un coniglio selvatico con una pietra.
— Signorsì. Ma… resteremo qui tutta la notte? Non abbiamo coperte con noi.
Inarcò le sopracciglia. — Niente coperte? Perbacco! — Parve pensarci su. — Mmmm… hai mai visto le pecore ammassarsi le une sulle altre durante una tormenta di neve?
— Signornò.
— Be’, provate. Loro non gelano, forse ci riuscirete anche voi. Oppure, se la promiscuità non ti piace, puoi camminare su e giù tutta la notte. Nessuno ti disturberà, purché resti entro i limiti del bivacco. Continua a muoverti e non morirai assiderato. Tutt’al più, domani sarai un po’ stanco. — E sorrise di nuovo.
Salutai e tornai alla mia pattuglia. Mettemmo insieme tutto quello che avevamo da mangiare e lo dividemmo in razioni uguali. Così mi ritrovai con meno provviste di quelle che avevo prima. Qualcuno di quegli idioti era pulito come un angioletto, altri avevano già finito tutto durante la strada. Comunque qualche galletta e un paio di prugne fanno miracoli nel calmare lo stomaco che protesta. Anche il trucchetto delle pecore funzionò. La nostra squadra, tre pattuglie, giocò a fare il gregge. Tutto sommato, non ve lo raccomando come modo di dormire. O resti nello strato esterno gelato da una parte, oppure stai sotto, abbastanza al caldo, ma con tutti gli altri che ti schiacciano e soffocano con i gomiti, i piedi e il tanfo. Per tutta la notte vaghi da una posizione all’altra, in una sorta di moto browniano, mai completamente sveglio, mai completamente addormentato. La notte sembra durare un secolo.
All’alba ci risvegliammo al familiare grido di “In piedi! Scattare!”, incoraggiati dai bastoni degli istruttori che sferzavano qua e là le terga emergenti dal mucchio. Poi attaccammo con gli esercizi ginnici. Mi sentivo un cadavere e non credevo di essere in grado di eseguire anche solo una flessione. Invece ci riuscii, sia pure vedendo le stelle per il male. Venti minuti dopo, quando ci rimettemmo in marcia, mi sentivo semplicemente più vecchio. Il sergente Zim non aveva una grinza e, chissà come, era riuscito perfino a farsi la barba.
Il sole mentre marciavamo ci scaldava le ossa. Zim ci ordinò di cantare: dapprima vecchie canzoni, come Il Reggimento della Somme e della Mosa, Caissons e Il palazzo di Montezuma, poi il nostro inno La polka del fante, che fa affrettare il passo fino a raggiungere il piccolo trotto. Il sergente Zim, stonato come una campana rotta, aveva un vocione tonante. Breckinridge, invece, dotato di un buon orecchio e di un bel timbro, guidava il coro alla faccia delle poderose stecche di Zim. Ci sentivamo piuttosto aitanti e nello stesso tempo coperti di spine.
Ma percorsi i soliti ottanta chilometri, ci sentimmo molto meno su di giri. La notte era stata interminabile, la giornata lo fu ancora di più. Zim ci diede una lavata di testa perché lo schieramento non manifestava un aspetto marziale. Diversi capopattuglia si beccarono una punizione per non essersi fatti la barba nei nove minuti d’intervallo tra il “Rompete le righe!” dopo la marcia e l’“In riga!” per la rivista. Quella sera molte reclute diedero le dimissioni. Anch’io ci pensai, ma rimasi per via di quegli stupidi galloni che fino ad allora nessuno mi aveva ancora tolto.
Quella notte ci fu un “All’armi” di due ore.
Con l’andare del tempo finii per apprezzare il conforto di due o tre dozzine di corpi umani tra i quali adagiarsi. Dodici settimane dopo, infatti, ci scaricarono nudi come vermi in una zona selvaggia delle montagne canadesi, affinché ci facessimo a piedi i nostri bravi settanta e più chilometri di montagna. Li feci, e a ogni passo scagliai una maledizione nuova di zecca contro l’Esercito, con calore e convinzione.
Eppure non ero in condizioni disperate quando risposi all’appello. Ero riuscito a prendere un paio di conigli che si erano dimostrati meno svelti di me, e perciò non ero proprio affamato, e nemmeno completamente nudo: avevo un bello strato di grasso animale spalmato sul corpo per tenermi caldo, mentre con la pelle dei conigli mi ero fatto un paio di calzari. È incredibile poi quello che si può fare con un paio di sassi, quando la necessità lo impone. Credo che i nostri antenati, gli uomini delle caverne, non fossero poi così sprovveduti come siamo soliti pensare.
Anche gli altri ce la fecero, tutti coloro che ancora si ostinavano a provare e a sopportare qualsiasi cosa pur di non dare le dimissioni, tranne due che morirono nel tentativo di farcela. Per ritrovarli tornammo lassù e ci restammo tredici giorni, perlustrando palmo a palmo il territorio con gli elicotteri che ci ronzavano sulla testa per fornirci le istruzioni e quanto c’era di meglio in fatto di riceventi e trasmittenti. Vennero con noi tutti gli istruttori in tuta potenziata per coordinare le operazioni e captare le richieste di aiuto… la Fanteria spaziale mobile non abbandona i propri uomini finché sussiste la più piccola speranza di salvarli.
Infine li trovammo e li seppellimmo con tutti gli onori, al suono di Questa terra è nostra. Ricevettero la qualifica postuma di “soldato di prima classe”, i primi del nostro reggimento ad arrivare così in alto, perché un fante non ha l’obbligo di restare in vita (morire fa parte del suo lavoro), ma ci si preoccupa molto di come muore. Deve morire a testa alta, scattando, nel tentativo disperato di riuscire nella sua missione.
Uno dei due morti era Breckinridge, l’altro un ragazzo australiano che non conoscevo. Non erano i primi a perire in addestramento, e non furono gli ultimi.