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Non ho altro da promettervi che sangue, fatica, lacrime e sudore.

WINSTON CHURCHILL

soldato e statista del Ventesimo secolo


Quando fui di nuovo a bordo dell’astronave, dopo l’incursione sul pianeta dei pelleossa in cui avevamo perso Dizzy Flores, la prima morte dopo quella del tenente, uno dei cannonieri addetti al recupero delle lance mi chiese: — Com’è andata?

— Normale amministrazione — risposi sbrigativamente. Con tutta probabilità me l’aveva chiesto in via amichevole, ma io ero del tutto sconvolto e confuso, non avevo voglia di chiacchierare. Mi dispiaceva per Dizzy. Ero soddisfatto che il recupero fosse comunque riuscito, ma ero furioso perché si era rivelato inutile, e i due sentimenti si mescolavano con la felicità, turbata ma pur sempre felicità, di essere di nuovo a bordo dell’astronave in condizioni di fare l’appello delle braccia e delle gambe e di constatare che c’erano tutte. Inoltre come si fa a parlare di un lancio a chi non ne ha mai fatti?

— Ah, sì? — disse ancora lui. — Bella la vita per voi, eh? Trenta giorni senza far niente per mezz’ora di lavoro. Io faccio tre turni di guardia al giorno!

— Già — gli dissi, voltandomi per andarmene. — C’è gente che nasce fortunata.

— Puoi sempre venire da me, se ti annoi — mi urlò dietro.

C’era un fondo di verità in quello che aveva detto il cannoniere della Marina. Noi eravamo come gli aviatori delle prime guerre meccanizzate: una lunga carriera militare poteva essere fatta di poche ore di combattimento con il nemico. Il resto consisteva in addestramenti, preparativi, partenze, rifornimenti, quando c’erano, tentativi di rimediare a guai di ogni genere, preparativi per la missione successiva e, fra un’azione e l’altra, esercitazioni, esercitazioni e ancora esercitazioni. Per tre settimane circa non effettuammo lanci. Poi compimmo una missione su un pianeta che ruotava attorno a un’altra stella: una colonia di ragni. Nonostante la propulsione Cherenkov la distanza fra le stelle è enorme.

Nel frattempo ebbi i gradi di caporal.e. Me li conferì il sergente Jelal. In assenza di un ufficiale della Fanteria spaziale mobile autorizzato, la nomina fu ratificata dal capitano Deladrier.

In teoria, quel grado non sarebbe diventato effettivo finché non fosse stato approvato dalle alte sfere gerarchiche, ma questo non significa niente, dato che c’erano più caselle da riempire nell’organigramma che gente in grado di occuparle. Divenni caporale quando Gelatina dichiarò che lo ero. Il resto era inutile burocrazia.

Il cannoniere, comunque, aveva esagerato a proposito della nostra presunta bella vita: c’erano cinquantatré tute potenziate da ispezionare, tenere in ordine e riparare tra un lancio e l’altro, per non parlare delle armi e delle apparecchiature speciali. Talvolta Migliaccio chiedeva la revisione di una tuta e otteneva il placet da Gelatina. Se l’ingegnere addetto agli armamenti di bordo, il tenente Farley, dichiarava di non poter eseguire il lavoro perché gli mancavano le attrezzature adatte, bisognava tirare fuori dal magazzino una tuta nuova e trasformarla da “fredda” a “calda”, un’operazione che richiedeva ventisei ore di lavoro, senza contare il tempo del soldato al quale la tuta andava adattata.

Avevamo anche noi il nostro bel daffare, altroché.

Però ci divertivamo, anche. Organizzavamo fra noi tornei dei tipi più vari, dalle carte ai giochi da tavolo, senza contare che avevamo la migliore jazz band che si potesse trovare in un raggio di parecchi anni-luce (be’ forse la sola), con il sergente Johnson che sapeva cavare dalla sua tromba note dolcissime o squilli da far saltare le paratie, a seconda di quello che l’occasione richiedeva. Dopo la magistrale manovra di rendez-vous, eseguita dal capitano Deladrier senza calcoli balistici, il soldato Archie Campbell, specialista di prima classe, costruì un modellino della Rodger Young per la comandante. Tutti noi firmammo, e Archie riprodusse le nostre firme sulla piastra di base dopo la dedica: AL CAPITANO YVETTE DELADRIER DA PARTE DEI ROMPICOLLO DI RASCZAK. La invitammo a poppa, per cenare con noi, mangiammo a suon di musica, e dopo cena il soldato più giovane offrì il modellino alla comandante che si commosse, baciò il soldato e anche Gelatina, che diventò di un bel rosso ciliegia.

Avuti i galloni, decisi che era tempo di mettere in chiaro le cose con Ace, visto che Gelatina mi aveva anche confermato nel posto di vicecaposquadra. Questo, in verità, non era giusto. Un uomo dovrebbe avanzare di un gradino per volta, io avrei dovuto quindi fare prima il capopattuglia, invece di saltare da soldato semplice e vicecapopattuglia a caporale e vicecaposquadra. Gelatina lo sapeva benissimo, ma stava sforzandosi di mantenere la compagnia come il tenente gliel’aveva lasciata, confermando il capopattuglia e i capisquadra al loro posto.

Il sottoscritto, però, si ritrovava con una bella gatta da pelare. Tutti e tre i caporali posti sotto di me erano più anziani e nel caso il sergente Johnson ci avesse lasciato le penne in un lancio, non solo avremmo perso un ottimo cuoco, ma io mi sarei trovato di colpo caposquadra. E siccome quando si dà un ordine bisogna avere la certezza che verrà eseguito, dovevo mettere i puntini sulle i prima del lancio seguente.

Il problema grave era Ace. Non solo era il più anziano dei tre caporali, ma era anche di carriera. Se Ace mi accettava come eventuale caposquadra, non avrei avuto alcuna difficoltà con gli altri due.

A bordo, per la verità, Ace non mi aveva creato nessun problema. Dopo che avevamo raccolto Flores insieme, si era mostrato cortese con me. D’altra parte, a bordo non avevamo occasione di pestarci i calli a vicenda. I nostri turni di servizio avvenivano in ore diverse, salvo durante l’adunata e in occasione del cambio della guardia, ma in quei casi era già tutto predisposto. Eppure, sentivo la sua insofferenza: si comportava come chi non è disposto a prendere ordini.

Così, andai a cercarlo durante le ore di libertà. Era sdraiato nella sua cuccetta e leggeva un libro, Ranger dello spazio contro la Galassia, nel quale si narrava una storia niente male, solo dubito che una squadra di militari abbia mai avuto così tante avventure e così pochi problemi. Sull’astronave c’era un’ottima biblioteca.

— Ace, vorrei parlarti.

Mi guardò. — Ah, sì? Non sono in servizio.

— Devo parlarti subito. Metti via quel libro.

— Che cosa c’è di tanto urgente? Lasciami finire il capitolo, almeno.

— Dai, muoviti, Ace. Se proprio muori dalla curiosità, ti dico addirittura come va a finire.

— Provaci, e ti spacco il muso. — Però depose il volume e si tirò su degnandosi di concedermi udienza.

— Ace, per questa faccenda della squadra… Tu sei più anziano di me, dovresti essere tu il vicecaposquadra.

— Di nuovo con questa storia?

— Certo. Secondo me, dovremmo parlarne con Johnson e chiedergli di sistemare le cose con Gelatina.

— Secondo te, eh?

— Naturale. Bisognerebbe fare così.

— Senti, amico, parliamoci chiaro una buona volta. Io non ho niente contro di te. Anzi, devo riconoscere che sei stato in gamba il giorno che abbiamo raccolto Dizzy. Ma se vuoi una pattuglia, procuratene pure una, basta che non metti gli occhi sulla mia. I miei ragazzi non pelerebbero nemmeno le patate per te. Mettitelo bene in mente.

— È la tua ultima parola?

— L’ultimissima.

Sospirai. — Me lo immaginavo. Però volevo esserne sicuro. Bene, e così la faccenda è sistemata. Ma c’è un’altra cosa che volevo dirti. Ho notato che il locale delle docce ha bisogno di una ripulita, e noi due dovremmo occuparcene subito. Perciò molla quel libro, se non ti dispiace. Lo sai, no, che cosa dice Gelatina? I graduati sono sempre in servizio.

Non si mosse. Disse, calmo: — Di’ un po’, sei proprio sicuro che sia necessario? Te l’ho detto, non ho niente contro di te.

— Pare che sia necessario.

— Credi di farcela?

— Posso provare.

— Come vuoi. Sbrighiamoci, allora.

Andammo a poppa, nella stanza delle docce, cacciammo fuori un soldato che voleva lavarsi proprio in quel momento senza averne realmente bisogno, poi chiudemmo la porta. Ace disse: — Vuoi porre dei limiti al combattimento, piccoletto?

— Ecco… non penso certo di accopparti.

— D’accordo. Allora, niente ossa rotte, niente che possa impedirci di partecipare al prossimo lancio… a meno che non ci facciamo del male involontariamente, s’intende. Ti va bene?

— Benone. Aspetta, sarà meglio che mi sfili la camicia.

— Già, non vorrei che si sporcasse di sangue — disse più rilassato.

Feci per sfilarmi la camicia, e lui mi mollò un calcio al ginocchio. Senza avvertirmi. Così, all’improvviso. Solo che il mio ginocchio non era rimasto immobile per riceverlo. Anch’io avevo imparato a stare al mondo.

Una vera zuffa può durare di solito un paio di secondi, tempo più che sufficiente per accoppare qualcuno, per annullarne l’aggressività o metterlo in condizione di non potere continuare la lotta. Ma ci eravamo accordati per evitare d’infliggerci danni seri, e questo complicava le cose. Eravamo entrambi giovani, in ottima forma, perfettamente addestrati e abituati a incassare colpi. Ace era più robusto, io leggermente più agile. In queste condizioni, la faccenda poteva andare avanti per le lunghe, fino all’esaurimento fisico, a meno che uno dei due non avesse avuto la fortuna di assestare il colpo vincente. Ma eravamo troppo attenti ed esperti per lasciarci cogliere di sorpresa dall’avversario.

E così andammo avanti per un pezzo. I particolari sarebbero inutili e banali. Del resto, avevo altro da fare che prenderne nota.

Parecchio tempo dopo ero a terra, e Ace mi stava gettando acqua sulla faccia.

Poi mi guardò, mi aiutò a rimettermi in piedi, mi spinse contro una paratia e mi sostenne affinché rimanessi diritto. — Colpiscimi! — ordinò.

— Cosa? — Ero intontito, ci vedevo doppio.

— Johnnie… colpiscimi.

La sua faccia pareva fluttuare nell’aria di fronte a me. Raccolsi le forze e allungai una sventola, abbastanza forte da accoppare solo una zanzara gracile. Ace chiuse gli occhi e crollò lungo disteso sul ponte. Io dovetti aggrapparmi a qualcosa per non cadergli addosso.

Lui si rialzò lentamente. — Sta bene, Johnnie — disse, scuotendo la testa. — Ho avuto la lezione che meritavo. Da me non avrai altre grane, né da nessun altro della nostra squadra. D’accordo?

Assentii. La testa mi faceva un male da morire.

— Amici? — fece lui.

Ci stringemmo la mano, e anche quel gesto mi fece vedere le stelle.


Sull’andamento della guerra ne sapevano tutti più di noi che pure dovevamo farla. Ciò che racconto accadde dopo che i ragni, essendo riusciti a individuare la posizione del nostro pianeta grazie alle informazioni dei pelleossa, avevano scatenato alcune incursioni distruggendo Buenos Aires e trasformando gli incidenti e le scaramucce in guerra aperta, ma prima che fossimo riusciti a migliorare le nostre difese e i pelleossa cambiassero idea schierandosi dalla nostra parte. Gli sbarramenti più efficaci fino a quel momento erano stati offerti dalla Luna (noi però non lo sapevamo ancora) ma, parlando in linea generale, la Federazione terrestre stava rischiando di perdere la guerra.

Noi non sapevamo neppure questo. Non eravamo nemmeno a conoscenza degli incredibili sforzi che venivano fatti per sovvertire l’alleanza formatasi contro di noi e portare i pelleossa dalla nostra parte. La volta in cui arrivammo più vicino a esserne informati fu quando, prima dell’incursione in cui fu ucciso Flores, ci ordinarono di usare la mano leggera con i pelleossa, di distruggere quanti più edifici possibile ma di uccidere gli abitanti del pianeta solo se era inevitabile.

Se si viene catturati non si può spifferare quello che non si sa. Nessuna droga, tortura o lavaggio del cervello, nessuna privazione del sonno può strappare un segreto che non si conosce. Così, ci veniva detto solo quello che ci serviva per ragioni tattiche. In passato, gli eserciti erano noti perché se perdevano si dissolvevano a causa del fatto che i loro membri non sapevano per che cosa stavano combattendo e quindi non erano motivati a lottare. La Fanteria spaziale mobile, però, non aveva questo punto debole. In primo luogo, tutti eravamo volontari, chi per un motivo chi per un altro, alcuni buoni, altri cattivi. Ma il punto era che noi combattevamo perché eravamo fanti spaziali mobili. Eravamo professionisti, dotati di esprit de corps. Eravamo i Rompicollo di Rasczak, il miglior corpo di tutta la maledetta Fanteria spaziale mobile. Ci ficcavamo dentro le nostre capsule perché Gelatina ci diceva che era il momento di farlo e quando toccavamo il suolo combattevamo perché è questo che fanno i Rompicollo di Rasczak.

Quei ragni depongono uova. E non le depongono soltanto, le tengono di riserva e se occorre le mettono in incubatrice. Se noi uccidevamo un guerriero, o dieci, o centomila, il morto veniva sostituito prima ancora che noi fossimo di ritorno alla base. Se vi piace lavorare di fantasia, potete benissimo figurarvi un ragno, addetto al controllo della popolazione, che fa una telefonata a qualcuno che sta giù sotto terra dicendogli: “Joe, mettimi in incubatrice diecimila guerrieri e ricordati che mi servono per mercoledì… e avverti che comincino ad attivare le incubatrici di riserva N, O, P e Q, e anche R. Abbiamo bisogno di soldati”.

Non dico che facessero esattamente così, ma i risultati erano quelli. E non commettete l’errore di pensare che i ragni agissero puramente per istinto, come le termiti o le formiche. Le loro azioni erano intelligenti quanto le nostre (le razze stupide non costruiscono navi spaziali) e molto meglio coordinate. Ci vuole come minimo un anno per addestrare un soldato e abituarlo a lavorare di concerto con i suoi compagni. Invece un guerriero ragno salta fuori dal guscio già perfetto.

Ogni volta che uccidevamo mille ragni al costo di un fante spaziale mobile, era una netta vittoria per il nemico. Stavamo imparando, a caro prezzo, quanto efficiente possa essere un comunismo totale quando viene praticato da individui realmente adattati a esso dall’evoluzione. I commissari del popolo dei ragni si preoccupavano di perdere soldati quanto noi munizioni. Forse avremmo potuto immaginare questo aspetto dei ragni osservando le pene che l’Egemonia cinese aveva inflitto all’Alleanza russo-angloamericana. Comunque il problema con le “lezioni della storia” è che di solito le comprendiamo dopo averci sbattuto la faccia contro.

Ma noi stavamo imparando. Le istruzioni tecniche e gli ordini di natura tattica, che venivano elaborati a partire dall’esperienza derivante da ogni schermaglia con il nemico, venivano diffuse per tutta la flotta. Imparammo a distinguere i guerrieri dagli operai. Se si aveva tempo, lo si poteva capire dalla forma del carapace, ma il modo empirico più veloce era: se viene verso di te è un guerriero, se scappa puoi lasciarlo perdere. Imparammo a non sprecare munizioni nemmeno contro i guerrieri se non per difenderci. Invece davamo la caccia alle loro tane. Trovare il buco, lasciarvi cadere una di quelle bombe a gas che esplodono dolcemente qualche secondo dopo, sprigionando un “insetticida” studiato apposta per i ragni (per noi è innocuo) che, essendo più pesante dell’aria, tende a infiltrarsi nel terreno, poi gettare un’altra bomba HE per tappare la falla.

Ancora non sapevamo se il gas penetrava abbastanza a fondo da uccidere le regine, però eravamo certi che ai ragni quella tattica non piaceva affatto. Le spie che avevamo tra i pelleossa e tra gli stessi ragni ce lo assicuravano. E poi con quel sistema eravamo riusciti a fare piazza pulita di un’intera colonia. Forse i ragni riuscivano in qualche modo a sfollare le regine e i cervelli direttivi, ma, se non altro, avevamo imparato a condurre contro di loro azioni di un certo rilievo.

Per quanto riguardava i Rompicollo, le bombe a gas rappresentavano solo un altro tipo di esercitazione, da eseguirsi secondo gli ordini, a turno, scattando.

A un certo punto dovemmo tornare su Sanctuary per prelevare altre capsule. Le capsule sono sacrificabili (come noi, del resto) e quando non ce ne sono più bisogna tornare alla base, anche se la propulsione Cherenkov potrebbe agevolmente permettere ancora due giri della galassia. Poco prima che ciò accadesse arrivò la comunicazione della nomina a tenente di Gelatina, che prese così il posto di Rasczak. Il neopromosso cercò di non gridarlo ai quattro venti, ma il capitano Deladrier rese pubblica la nomina, e questo lo costrinse a consumare i pasti a prua con gli altri ufficiali. Gelatina, però, continuò a passare il resto della giornata a poppa, con noi.

Ormai avevamo effettuato parecchi lanci con Gelatina come caposquadra, e l’unità si era abituata a tirare avanti senza il tenente. La sua perdita era ancora dolorosa, ma avevamo elaborato il fatto che Rasczak non fosse più con noi. Dopo la nomina di Gelatina tra i soldati si cominciò a mormorare che avremmo dovuto ribattezzare lo squadrone con il nome del nostro nuovo capo, come facevano le altre unità.

Fu Johnson che si lece carico di parlarne a Gelatina, portandomi con sé per fornirgli sostegno morale.

— Che cosa c’è? — brontolò Gelatina.

— Ecco, sergente… volevo dire, tenente… abbiamo pensato che…

— Forza, deciditi.

— Ecco… i ragazzi si sono consultati e hanno pensato… ecco, dicono che adesso l’unità dovrebbe chiamarsi i giaguari di Jelal.

— Ah, sì? Quanti hanno deciso in favore di questo nome?

— La decisione è stata unanime — rispose Johnson.

— Cinquantadue sì, allora, e un no. Il mio. Quindi è no. Nessuno tornò più sull’argomento.

Poco dopo entrammo in orbita attorno a Sanctuary. Ero contento di essere quasi arrivato, perché da due giorni a bordo la gravità artificiale non funzionava, e mentre l’ingegnere capo ci pensava su, noi fluttuavamo in caduta libera, uno stato che odio. Non sarò mai un vero essere spaziale.

L’intero squadrone ebbe dieci giorni di riposo e si trasferì agli alloggiamenti della base.

Non ho mai avuto modo di conoscere le coordinate di Sanctuary, né il nome o il numero di catalogo della stella attorno alla quale il pianeta gravita: quello che si ignora non può scappare detto. La posizione è un segreto militare, noto solo ai comandanti di astronave, agli ufficiali piloti eccetera. Ognuno di loro, comunque, a quanto mi risulta, riceve l’ordine (e la costrizione ipnotica) di suicidarsi, se necessario, pur di evitare la cattura. Così preferisco ignorare quei dati. Nell’eventualità che Base Luna e la Terra stessa venissero occupate, la federazione tendeva ad accumulare riserve di ogni genere su Sanctuary, in modo che un malaugurato disastro sul pianeta principale non rappresentasse la capitolazione totale.

Sono però in grado di parlarvi del pianeta. È come la Terra, ma a uno stadio inferiore.

Insomma, è un pianeta ritardato, esattamente come un bambino che impiega dieci anni per imparare a fare ciao ciao con la mano e a capire che cosa sia un pasticcio di carne. È simile alla Terra quanto un pianeta può essere simile a un altro pianeta: stessa età, secondo i planetologi, anche la sua stella ha la stessa età del Sole ed è dello stesso tipo, come dicono gli astrofisici. Flora e fauna abbondanti, atmosfera uguale, o quasi, a quella terrestre, e condizioni atmosferiche pressappoco identiche. C’è anche una Luna di dimensioni ragguardevoli oltre a maree come sulla Terra.

Nonostante la situazione favorevole, il pianeta è progredito di poco a causa delle rare mutazioni cui è soggetto e del modesto tasso, rispetto alla Terra, di radiazioni naturali.

La tipica forma di vita vegetale di Sanctuary, e quella che ha raggiunto il massimo grado di sviluppo, è una felce gigante molto primitiva. La principale forma di vita animale è rappresentata da protoinsetti che non si sono sviluppati in colonie. Tutto ciò, lasciando da parte la flora e la fauna provenienti dalla Terra, che una volta trapiantate hanno marginalizzato le forme di vita indigene.

Vista l’estrema lentezza del processo evolutivo del pianeta, dovuta alla mancanza di radiazioni e al tasso di mutazione decisamente basso, su Sanctuary le forme di vita indigene non hanno avuto una vera possibilità di svilupparsi e quindi non sono adatte a competere. I loro patrimoni genetici rimangono identici per un tempo relativamente lungo: non si adattano. È un po’ come essere costretti a giocare in continuazione, per l’eternità, la stessa mediocre combinazione a bridge, senza la speranza di averne una migliore.

Finché queste forme di vita si sono limitate a competere fra loro, ciò non aveva molta importanza: deficienti contro deficienti, per così dire. Ma, quando su Sanctuary sono stati introdotti esemplari evolutisi su un pianeta che godeva di un alto coefficiente di radiazioni e di una competizione spietata, gli elementi locali furono surclassati.

Ora, tutto questo è chiarissimo, lo si impara studiando biologia alle superiori, ma il cervellone del Centro ricerche di lassù, che me ne parlava, portò la mia attenzione su una questione alla quale non avevo mai pensato.

Che cosa succederà agli esseri umani che hanno colonizzato Sanctuary?

Non a quelli di passaggio, come me, ma ai coloni che ci vivono in permanenza, molti dei quali ci sono nati e i cui discendenti ci abiteranno per generazioni? Come saranno quei discendenti? Una persona che non subisce radiazioni non incorre in alcun danno, anzi, sotto certi aspetti li evita. Per esempio, la leucemia e alcuni tipi di cancro lassù sono sconosciuti. Inoltre, al momento la situazione economica è favorevole. Quando seminano un campo con grano della Terra, non hanno nemmeno bisogno di estirpare le erbacce: il nostro cereale elimina da solo ogni traccia di flora locale.

Ma i discendenti di quei coloni non si evolveranno. Non molto comunque. Il tizio del Centro ricerche mi spiegava che potranno aumentare un po’ le mutazioni grazie a fattori esterni, come il sangue nuovo apportato da altri immigrati, o per una selezione naturale tra i corredi genetici dei residenti, ma il fenomeno sarà trascurabile se paragonato al quoziente di evoluzione sulla Terra o su qualsiasi altro pianeta normale. E allora, che cosa succederà? Quelli di Sanctuary resteranno cristallizzati al loro livello attuale, mentre il resto della specie umana si evolverà, lasciandoli indietro fino a che saranno fossili viventi, fuori posto nell’universo come un pitecantropo in una nave spaziale?

Oppure si preoccuperanno del destino dei loro discendenti e si autosomministreranno dosi regolari di raggi X, o magari provocheranno di tanto in tanto qualche esplosione nucleare per addensare una riserva di radioattività nella loro atmosfera? (Accettando, naturalmente, i pericoli immediati delle radiazioni per procurare un’appropriata eredità genetica a beneficio delle generazioni che seguiranno.)

Il cervellone del Centro ricerche ha previsto che non faranno niente. A suo avviso la specie umana è troppo individualista, troppo egoista, per preoccuparsi delle generazioni future. La maggior parte delle persone sarebbe del tutto incapace di preoccuparsi dell’impoverimento genetico, dovuto alla mancanza di radiazioni, delle generazioni a venire. Si tratta sempre di una minaccia a lunghissima scadenza. L’evoluzione opera con estrema lentezza anche sulla Terra, e lo sviluppo di nuove specie richiede migliaia e migliaia di anni.

Personalmente, non me ne intendo. Per quanto mi riguarda, non so nemmeno quello che farò io fra sei mesi. Quindi, come posso fare previsioni su come si comporterà una colonia di sconosciuti? Però sono sicuro di questo: Sanctuary è destinato a essere colonizzato completamente, o da noi o dai ragni. O da qualcun altro. Potenzialmente è un’utopia e, considerata la scarsità di territori sfruttabili in questo settore della galassia, il pianeta non resterà certo nelle mani di primitive forme di vita indigene rivelatesi incapaci di farlo progredire.

Detto ciò, Sanctuary è senza dubbio un posto delizioso, decisamente migliore della Terra per trascorrervi alcuni giorni di licenza. Inoltre, i civili che lo abitano, oltre un milione, non sono male per essere dei civili. Sanno che c’è una guerra. La metà circa della popolazione attiva è impiegata presso la base o in industrie belliche, il resto si dedica alla produzione alimentare destinata alla flotta. D’accordo, nella guerra ci trovano il loro tornaconto, però, qualunque siano i motivi che li muovono, rispettano le uniformi e non detestano quelli che le indossano. Al contrario. Se un fante spaziale mobile entra in un negozio il proprietario lo chiama “signore” e lo tratta con molto rispetto, anche se poi cerca di fregarlo sul prezzo.

Ma soprattutto, la metà della popolazione civile è composta di donne.

Per apprezzare questo fatto come si conviene, dovete starvene fuori in missione per un periodo molto lungo. Dovete provare a sospirare che venga il vostro turno di guardia, per avere il privilegio di starvene due ore su sei con la spina dorsale appoggiata alla paratia 30 e l’orecchio teso a cogliere il semplice suono di una voce femminile. Scommetto che la solitudine pesa meno su un’astronave tutta di uomini, ma io preferisco la Rodger Young. È bello sapere che la ragione ultima per cui si combatte esiste davvero, e che le donne non sono un prodotto della fantasia.

Oltre a quel meraviglioso cinquanta per cento della popolazione civile, c’è poi il quaranta per cento della gente che lavora per i servizi federali, anch’esso composto di donne. Fate la somma, e avrete il più meraviglioso scenario di tutto l’universo esplorato.

Oltre a questi notevoli vantaggi naturali, molto di artificiale è stato fatto per evitare che la licenza venga sprecata. La maggior parte dei civili sembra fare un doppio lavoro. Hanno le borse sotto gli occhi perché stanno alzati tutta la notte per prestare servizi che rendano piacevole la licenza. Su entrambi i lati di Churchill Road, che va dalla base alla città, si susseguono imprese intenzionate a separare senza dolore un uomo dal denaro che non avrebbe saputo investire, con il piacevole accompagnamento di banchetti, divertimenti e musica.

Se si riesce a superare queste trappole, avendo già dilapidato tutta la valuta, in città si trovano altri posti quasi altrettanto soddisfacenti (intendo dire che anche lì ci sono le ragazze) offerti gratuitamente da una popolazione riconoscente: si tratta di luoghi molto simili al circolo di Vancouver, ma in cui si è accolti persino meglio.

Sanctuary, e specialmente Espiritu Santo, la città, dava l’impressione del luogo ideale, al punto che mi divertivo a pensare che avrei chiesto di potermici trasferire una volta che, finita la ferma, mi fossi congedato. Dopotutto, non ero particolarmente angosciato all’idea che i miei discendenti (se mai ne avessi avuti), trascorsi venticinquemila anni, fossero dotati di nuovi lunghi arti verdi oppure disponessero solo dell’attrezzatura con cui ero stato costretto a tirare avanti io. Quel tipo con l’aria da professore del Centro ricerche non mi spaventava affatto con il suo allarmismo circa i rischi provocati dalla mancanza di radiazioni. In ogni caso mi sembrava (da quanto potevo vedere attorno a me) che la razza umana avesse raggiunto l’apice.

Senza dubbio anche un signor maiale dall’aspetto disgustoso pensava la stessa cosa di una signora scrofa dall’aspetto altrettanto disgustoso, ma in quel caso eravamo entrambi sinceri.

Su quel pianeta esistevano anche altre opportunità di svago. Ricordo con particolare piacere un gruppo di Rompicollo che iniziò un’amichevole discussione con un gruppo di appartenenti alla Marina (non della Rodger Young) seduti al tavolo di fianco. Lo scambio di vedute fu piuttosto animato, rumoroso, finché alcuni poliziotti della base intervennero per interromperlo con pistole a scarica elettrica proprio quando ci stavamo appassionando alla disputa. La cosa non ebbe conseguenze, dovemmo solo pagare i danni alla mobilia. Il comandante della base è dell’idea che un soldato in licenza debba potersi prendere qualche libertà, purché non infranga una delle famose trentuno regole.

Anche le baracche dove alloggiavamo erano ottime, non certo lussuose, ma comodissime. Quanto alla mensa, funziona venticinque ore al giorno, e sono i civili che pensano a tutto. Niente sveglia, niente ritirata, praticamente si è in libera uscita continua, e non c’è nessun obbligo di tornare alle baracche per dormire. Io ci tornavo, però. Mi pareva un delitto spendere soldi in albergo quando potevo disporre di una linda branda gratuita. Oltretutto, avevo a portata di mano tanti modi più intelligenti per dilapidare le paghe accumulate.

Anche il fatto che la giornata durasse un’ora in più era piacevole, significava nove ore piene di sonno e tutto il giorno ancora a disposizione. Dopo lo choc dell’Operazione ragnatela il soggiorno mi consentì di recuperare le forze.

Del resto era proprio come stare in albergo. Ace e io avevamo una camera tutta per noi, negli alloggi dei graduati. Una mattina, quando la licenza stava ormai volgendo al termine (purtroppo), mi stavo rivoltando dall’altra parte per ricominciare a dormire, verso mezzogiorno, ora locale, quando Ace venne a scuotermi il letto. — Scat-tare, soldato! I ragni ci stanno attaccando!

Gli dissi che cosa doveva farne, dei ragni.

— Muoviti dobbiamo andare in città — insistette.

— Niente dinero - dissi. La sera prima ero uscito con un chimico del Centro ricerche (di sesso femminile, s’intende, e di conseguenza affascinante). Carl, che aveva conosciuto la ragazza su Plutone, mi aveva scritto di farmi vivo con lei nel caso fossi capitato su Sanctuary. Si trattava di una rossa, snella e dai gusti costosi. Evidentemente Carl le aveva confidato che dovevo essere pieno di soldi, avendo lei deciso che la sera precedente, quella passata insieme, fosse il momento giusto per fare amicizia con lo champagne locale. Io non tradii Carl rivelandole che tutte le mie sostanze consistevano nella paga di soldato, quindi le offrii champagne e per me ordinai un succo d’ananas che del frutto aveva soltanto il nome. Come risultato, ero poi dovuto rientrare a piedi, visto che i taxi non sono gratuiti in nessun posto. Però ne era valsa la pena. Dopo tutto, a che cosa serve il denaro? Mi riferisco al denaro dei ragni, ovviamente.

— Niente paura — mi disse Ace. — Posso finanziarti. La notte scorsa ho avuto fortuna. Ho incontrato uno della Marina che non sa fare il calcolo delle probabilità.

Così mi alzai, e mi feci barba e doccia. Poi ce ne andammo alla mensa per metterci in forze con una colazione a base di uova, patate, prosciutto, frittelle e altre prelibatezze, dopodiché ci mettemmo in cammino per andare a mangiare qualcosa di più sostanzioso. Lungo la Churchill Road ci venne caldo, e Ace propose di entrare in un bar. Lo seguii per vedere se avevano il succo d’ananas (finto). Era un intruglio misterioso, ma almeno era fresco. Non si può avere tutto.

Parlammo del più e del meno, e Ace ordinò di nuovo. Provai il succo di mirtilli: stessa roba, colorata in rosso.

Ace, fissando il contenuto del suo bicchiere, mi disse: — Hai mai pensato di fare l’ufficiale?

— Eh? Sei impazzito?

— Niente affatto. Senti, Johnnie, questa guerra può continuare per un pezzo. Hanno un bel fare propaganda per quelli che restano a casa, tu e io sappiamo benissimo che i ragni terranno duro. Quindi, perché non pensare al futuro? Come diceva quel tale, se proprio devi suonare nella banda, è meglio maneggiare la bacchetta che portare la grancassa.

Ero sconcertato dalla piega che aveva preso la conversazione, specie poi trattandosi di un discorso di Ace. — A che cosa miri, allo Stato maggiore?

— Chi, io? Ripassati i circuiti, figliolo. Ti arrivano le risposte sbagliate. Io non ho studiato e sono di dieci anni più vecchio di te. Ma tu ne sai abbastanza per cavartela agli esami, e hai il quoziente d’intelligenza adatto. Ti garantisco che se ti lanci nella carriera, diventi sergente prima di me, e il giorno dopo ti propongono come ufficiale superiore.

— Adesso sono sicuro che sei diventato matto.

— Ascolta lo zio! Mi dispiace dirtelo, ma sei proprio stupido, zelante e sincero quanto basta per essere il tipo di ufficiale che gli uomini sono disposti a seguire nelle situazioni più disperate. Mentre io… Ecco, io appartengo alla manovalanza per natura. Sono fatto per raffreddare l’entusiasmo di quelli come te. Un giorno diventerò sergente, e dopo vent’anni di servizio mi ritirerò, mi farò dare un lavoro, magari come piedipiatti, e sposerò una donna grassa e simpatica, con i miei stessi gusti semplici. Farò un po’ di sport, andrò a pescare e concluderò la mia vita in santa pace.

Ace fece una pausa per bere. — Tu, invece — riprese — resterai in servizio, e probabilmente arriverai ai gradi più alti. Farai una fine gloriosa e io dirò con orgoglio: “Eravamo amici. Gli prestavo i soldi, quando eravamo caporali insieme”. Allora, che cosa te ne pare?

— Non ci avevo mai pensato — dissi lentamente. — Volevo solo fare la mia ferma.

Sorrise ironico. — Hai già visto rientrare a casa qualcuno di quelli che hanno terminato la ferma, di questi tempi? Pensi di cavartela con due anni di servizio?

Non aveva torto. Finché la guerra continuava, la ferma andava avanti all’infinito, almeno per quanto riguardava i caporali di fanteria. Si trattava principalmente di una differenza di prospettiva, almeno per il momento. Quelli che stavano facendo la ferma potevano perlomeno avere la sensazione che il loro compito sarebbe terminato in breve tempo. Potevamo fare affermazioni del tipo: “Quando questa maledetta guerra sarà finita”. Un militare di carriera non lo diceva mai. Non sarebbe andato da nessuna parte, fino all’età della pensione… o finché non ci avesse lasciato le penne.

D’altra parte, neppure noi saremmo andati via. Ma se si intraprendeva la “carriera” e poi non si finivano i vent’anni previsti… be’ potevano fare parecchie storie per concederti il diritto di voto, anche se non avrebbero mai costretto a restare una persona che desiderava andarsene.

— Non sarà una ferma di due anni — obiettai — ma la guerra non durerà in eterno.

— Ne sei sicuro?

— Come posso esserlo…

— Non chiederlo a me. Nessuno parla di questo genere di cose. Quello che so, però, è che non è questo che ti preoccupa, Johnnie. C’è una ragazza che ti aspetta?

— No. Be’ ce l’avevo ma — risposi lentamente — mi opprimeva con i suoi “caro Johnny”. — Come bugia, equivaleva a una medaglia di scarso valore che mi ero preso perché Ace sembrava aspettarselo da me. Carmen non era la mia ragazza e non era mai stata ad aspettare nessuno, ma quelle rare volte in cui mi scriveva, effettivamente, iniziava le sue lettere con “caro Johnny”.

Ace annuì con aria saggia. — Fanno sempre così. Sarebbe meglio per loro sposare un civile e avere qualcuno intorno da rimproverare a piacimento. Non importa ragazzo, quando andrai in pensione sarai circondato da donne ansiosissime di sposarti, e a quel punto sarai abbastanza vecchio da riuscire a gestirne meglio una. Il matrimonio è un disastro per un giovane e un conforto per un anziano. — Diede un’occhiata al mio bicchiere. — Mi disgusta vederti bere quell’intruglio.

— Anche la roba che bevi tu mi fa venire la nausea — replicai.

Si strinse nelle spalle. — Come dici tu, c’è spazio per tutti. Pensaci sopra.

— Lo farò.

Poi Ace trovò dei soci per una partita a carte, mi prestò un po’ di soldi e io andai a fare un giro. Avevo bisogno di riflettere.

Abbracciare la carriera militare? A parte l’idea assurda che fossi in grado di diventare ufficiale, ci tenevo veramente a restare nell’Esercito? In origine ero passato attraverso tutto quell’inferno per ottenere il diritto di voto, o no? E invece, se sceglievo la carriera, il diritto di voto potevo salutarlo, proprio come se fossi rimasto un civile, perché fin tanto che s’indossa l’uniforme non lo si può esercitare. Il che è logico, naturalmente. Figuriamoci, se avessero permesso ai Rompicollo di votare, quegli idioti avrebbero potuto mettere il veto sui lanci!

A ogni modo, io mi ero arruolato per ottenere il diritto di voto.

Ma ci tenevo davvero a quel diritto? No, era più che altro per il prestigio, l’orgoglio e la dignità di essere un cittadino.

Ma ci tenevo poi tanto a queste cose?

Non riuscivo assolutamente a capire perché mi fossi arruolato. Non era il gesto del voto in sé che rendeva cittadini. Il tenente era stato un cittadino nel vero senso della parola, anche se non si era mai avvicinato a un’urna. Aveva votato ogni volta che aveva effettuato un lancio.

E lo stesso valeva per me.

Nella mia mente potevo sentire le parole del colonnello Dubois: “La cittadinanza è un modo di porsi, uno stato mentale, l’entusiasmante convinzione che il tutto valga più delle singole parti e che ogni parte dovrebbe avere l’umiltà di essere fiera di sacrificarsi per permettere la sopravvivenza del tutto”.

Ancora non sapevo se aspiravo a collocare il mio unico e solo corpo “tra la mia amata casa e la desolazione della guerra”. Tremavo ancora a ogni lancio e quella “desolazione” poteva essere parecchio desolata. Finalmente, però, avevo capito che cosa intendeva dire il colonnello Dubois. La Fanteria spaziale mobile era mia e io appartenevo a lei. Quello che il corpo faceva per rompere la monotonia, lo facevo anch’io. Il patriottismo era un concetto un po’ esoterico per me, troppo vasto perché riuscissi a comprenderlo. Ma la Fanteria spaziale mobile era la mia squadra, io le appartenevo. I miei compagni erano la mia nuova famiglia, i fratelli che non avevo mai avuto, li sentivo più vicini di quanto fosse mai stato Carl. Se li avessi lasciati, mi sarei sentito perduto.

E allora, perché non scegliere la carriera?

Però le chiacchiere di Ace sull’eventuale domanda per gli esami da ufficiale erano un’altra faccenda. Fare vent’anni di naia e poi ritirarmi a vita privata, come Ace aveva descritto il suo futuro, con tanti nastrini sul petto e le pantofole ai piedi, mi sembrava uno scenario plausibile. Oppure trascorrere le mie serate al Circolo dei veterani, parlando dei vecchi tempi con gli ex compagni d’armi. Ma ufficiale? Mi pareva di sentire quanto detto da Al Jenkins durante una discussione che avevamo avuto in proposito una sera: — Sono un soldato semplice — aveva detto. — Voglio restare un soldato semplice. Quando sei un soldato, nessuno si aspetta niente da te. Ma chi ci tiene a fare l’ufficiale? O anche solo il sergente? Tanto, l’aria che si respira è la stessa, no? I cibi che si mangiano sono gli stessi, i posti in cui si va sono gli stessi, i lanci a cui si partecipa sono gli stessi. Però, non si hanno preoccupazioni.

Al non aveva torto. Che cosa mi avevano procurato i galloni da caporale, a parte qualche grana in più? Eppure sapevo che se mi avessero offerto quelli da sergente li avrei accettati. Non si rifiuta mai. Un fante non rifiuta mai niente: si fa avanti e si fa carico delle responsabilità che gli affibbiano. Magari anche del comando di un reggimento.

Non che questo potesse succedermi. Chi ero io, per pensare di sostituire un giorno un uomo come il tenente Rasczak?

I miei passi mi avevano portato involontariamente verso la Scuola ufficiali. Una compagnia di cadetti era schierata nell’area adibita alle parate, e si esercitava nella corsa, come un gruppo di reclute al corso base. Il sole scottava, e quella scena appariva assai distante dalla vita comoda e pacifica che si conduceva a bordo della Rodger Young. Figuriamoci, da quando avevo finito il corso non ero mai andato più in là, a piedi, della paratia 30. Quelle corse, per me, appartenevano al passato.

Li osservai per un poco, mentre sudavano nelle loro uniformi. Li sentii subire ramanzine spaventose, anche dai sergenti… No, no, per me era acqua passata. Scossi la testa e mi allontanai. Tornai alle baracche, raggiunsi l’ala degli ufficiali e mi recai alla stanza di Gelatina, che si leggeva una rivista, i piedi beatamente sul tavolo. Bussai contro lo stipite della porta. Gelatina alzò la testa e brontolò: — Che cosa c’è?

— Sergente… cioè scusi, tenente…

— Sputa l’osso.

— Signor tenente, voglio intraprendere la carriera.

Posò i piedi a terra. — Alza la mano destra.

Mi fece giurare, cercò in un cassetto del tavolo, tirò fuori una manciata di scartoffie.

Aveva già preparato le mie carte, aspettava solo che fossi pronto a firmarle. E io non l’avevo nemmeno detto ad Ace. Come ve lo spiegate?

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