IV

La gente cerca sempre di dare una spiegazione.

Metti a confronto un uomo — o una donna — con qualcosa che non capisce e quello — o quella — si sentirà infelice finché non l’avrà classificata. Luci nel cielo: uno scienziato gli — o le — dice che si tratta dell’aurora boreale, o dell’aurora astrale; l’uomo — o la donna — riuscirà, allora, ad accettare le luci e a dimenticarsene.

Un qualche cosa fa cadere i quadri dalle pareti di una stanza disabitata e scaraventa una sedia giù dalle scale. Costernazione; fino a quando alla cosa non viene dato un nome. È soltanto un poltergeist, allora.

Dalle un nome e dimenticatene. Qualsiasi cosa con un nome può essere assimilata.

Senza un nome è… be’, è impensabile. Priva del nome una qualsiasi cosa ed avrai l’orrore assoluto.

Persino un qualcosa di familiare come la banalissima ghoul[2]. In un cimitero, tombe scoperchiate e cadaveri mangiati: cosa orrenda, può darsi. Ma è semplicemente una ghoul. Fino a quando ha un nome… Supponiamo però, se si riesce a sopportarne l’idea, che non esista una parola — e neppure un concetto — come quello di ghoul. Allora, se si trovano dei cadaveri fuori dai sepolcri, mezzi mangiati: orrore senza nome.

Non che la cosa che accadde la volta dopo a Charlie Wills c’entrasse in qualche modo con una ghoul; e nemmeno con un lupo mannaro. Ma penso che, date le circostanze, Charlie avrebbe trovato, in un certo senso, più rassicurante il lupo mannaro dell’anitra. Da un lupo mannaro ci si aspetta un comportamento strano, ma da un’anitra…

Come l’anitra del museo.

Già, non c’è niente di intrinsecamente spaventoso in un’anitra. Niente che ti faccia star sveglio la notte, con il sudore freddo che ti scorre giù sulle spellature di una scottatura di sole. In fin dei conti un’anitra è un essere piacevole, soprattutto se arrostita. Questa qui però non lo era.

Accadde il giovedì. La degenza in ospedale era durata otto ore. Dimesso nel tardo pomeriggio, Charlie aveva cenato in centro e se ne era andato a casa. Il capo aveva insistito perché si prendesse un giorno di permesso e lui non aveva protestato troppo.

A casa, spogliatosi per fare il bagno, nel più assoluto sbigottimento aveva esaminato la sua pelle: decisamente una scottatura di primo grado; decisamente totale. Era quasi sul punto di spellarsi.

Si era spellato, infatti, il giorno dopo.

Aveva approfittato della vacanza per portare Jane alla partita di baseball; si erano seduti nei posti di tribuna coperti in modo che lui potesse starsene al riparo dal sole. Era stata una bella partita: Jane capiva il gioco e si era divertita.

Il giovedì, di nuovo al lavoro.

Alle undici e venticinque il vecchio Hapworth, il gran capo, entrò nell’ufficio di Charlie.

— Wills, — disse, — abbiamo ricevuto un’ordinazione urgente: diecimila volantini da stampare; tra un’ora circa arriverà il testo. Vorrei che lei seguisse la cosa in linotipia e in sala di composizione, per poi mandare in macchina non appena si è impaginato. Sarà un miracolo se riusciremo a farcela in così poco tempo. Avremo una penalità, altrimenti.

— Certo, signor Hapworth. Ci starò dietro.

— Bene. Conto su di lei. Ma senta… È un po’ presto per mangiare, comunque sarebbe meglio che lei andasse ora a far colazione. Il testo sarà qui, più o meno, quando lei torna; così potrà badare al lavoro. Se non le spiace, ben inteso, mangiare presto.

— Niente affatto, — mentì Charlie. Prese il cappello ed uscì.

Accidenti, era davvero troppo presto per mangiare. Ma aveva un’ora libera e poteva mangiare in metà del tempo a sua disposizione. Così, se prima avesse camminato per una mezz’oretta, sarebbe forse riuscito a farsi venire un po’ di appetito.

Il museo era a due isolati di distanza: il posto migliore per ammazzare il tempo. Andò al museo. Percorse il corridoio centrale senza fermarsi, se non per guardare — un momento appena — una statua di Afrodite che assomigliava a Jane Pemberton e che gli ricordò — in maniera ancora più vivida di quanto già non ricordasse continuamente — che adesso mancavano soltanto sei giorni al matrimonio.

Poi entrò nella sala che ospitava la collezione numismatica. Da ragazzino aveva collezionato monete e anche se la raccolta era poi andata dispersa, provava tuttora un certo interesse a guardare l’imponente collezione del museo.

Si fermò davanti alla bacheca delle monete romane in bronzo, ma senza porre mente alle monete. Stava ancora pensando ad Afrodite-Jane, il che era del tutto comprensibile, date le circostanze. Soprattutto, non pensava certo a vermi volanti o ad improvvise ondate di calore bruciante.

Poi gli capitò di gettare un’occhiata a una bacheca lì vicino. E, dentro, vide l’anitra.

Era un’anitra dall’aspetto normalissimo: petto screziato, ali segnate da motivi bruno-verdastri, capo piuttosto scuro con una striscia di tono più cupo che partiva proprio sopra l’occhio per correre giù lungo il collo corto. Sembrava un’anitra selvatica più che domestica.

E sembrava sconcertata di trovarsi là dentro.

Per un istante — e fu proprio un istante — la totale stranezza della presenza di un’anitra in una bacheca di monete non fu registrata da Charlie. La sua mente era tuttora rivolta ad Afrodite, anche mentre fissava un’anitra sotto vetro dentro una bacheca contrassegnata con le parole “Monete cinesi”.

Poi l’anitra fece qua-qua e si mise a camminare, dondolandosi sui goffi piedi palmati, lungo tutta la bacheca. Andò a cozzare contro il vetro di una delle estremità, agitò le ali, cercò di volare verso l’alto, sbatté contro il vetro superiore, emise un altro sonoro qua-qua.

Fu soltanto allora che a Charlie venne da chiedersi che cosa ci facesse un’anitra viva in una collezione di monete. Apparentemente, a giudicare dal suo comportamento, l’anitra si stava domandando la stessa cosa.

E fu soltanto allora che Charlie si ricordò del verme angelico e della scottatura di sole senza sole.

Qualcuno, dal vano della porta, fece: — Ps… Ps… Ehi.

Charlie si voltò. L’espressione del suo viso doveva essere fuori dall’ordinario, se il custode in uniforme, mutando tono, chiese gentilmente: — Qualcosa che non va, signore?

Per un istante Charlie si limitò a fissarlo. Poi gli venne in mente che questa era l’opportunità mancatagli durante l’ascensione del lombrico. Due persone non possono avere la stessa, identica allucinazione. Se era una…

Aprì la bocca per dire: — Guardi, — ma non dovette dire niente. L’anitra lo batté sul tempo, emettendo un sonoro qua-qua e cercando ancora di volarsene via attraverso il vetro della bacheca.

Gli occhi del custode puntarono, oltre Charlie, verso la teca delle monete cinesi. — Uhu, — disse l’uomo.

L’anitra era ancora lì.

Il custode guardò di nuovo Charlie e disse: — L’ha… — s’interruppe e senza finire la domanda andò alla bacheca per vedere a distanza ravvicinata. L’anitra stava ancora lottando per venire fuori, ma più debolmente. Sembrava boccheggiare, in cerca di respiro.

Il custode fece di nuovo — Uhu! — poi, sottovoce, a Charlie: — Signore, come ha fatto… Quella bacheca è sigillata er… ermeticamente. È a tenuta d’aria. Guardi quell’uccello. È sul punto di…

La cosa era già accaduta; l’anitra era stramazzata, morta o svenuta.

Il custode afferrò allora il braccio di Charlie, dicendo con fermezza: — Signore, lei viene con me dal capo. — E con minor fermezza: — Uh… ma come ce l’ha messa quella bestia là dentro? E non tenti di dirmi che non l’ha fatto, signore. Sono passato di qui cinque minuti fa, e lei è l’unica persona che sia stata qui da allora.

Charlie aprì la bocca e la richiuse. Ebbe l’improvvisa visione di sé interrogato al quartier generale del museo e poi alla stazione di polizia. Se la polizia avesse cominciato a far domande sul suo conto, avrebbero scoperto la storia del verme, la sua degenza all’ospedale per… Forse avrebbero fatto venire uno psichiatra, e… Con il coraggio della disperazione, Charlie sorrise. Cercò di farlo apparire un sorriso minaccioso: minaccioso forse non lo era, ma decisamente strano, senz’altro. — Ti piacerebbe, — chiese al custode, — trovarti là dentro? — E con il braccio libero indicò il sarcofago di pietra del re Mene-Ptah, collocato al di là dell’entrata nel corridoio centrale. — Potrei farlo, allo stesso modo in cui ho messo quell’anitra…

Il respiro del custode si era fatto affannoso, i suoi occhi leggermente vitrei. L’uomo lasciò andare il braccio di Charlie e disse:

— Signore, ha veramente…?

— Vuoi che ti faccia vedere come?

— Uh… Uhu! — disse il custode. E scappò.

Charlie si costrinse a mantenere la propria andatura a un passo dignitosamente veloce e prese la direzione opposta, verso l’entrata laterale che dava su Beeker Street.

Nonostante tutto Beeker Street appariva tuttora una strada normalissima; percorsa, sì, dal traffico intenso del mezzogiorno, ma senza elefanti rosa che si arrampicavano sugli alberi, senza niente che non facesse parte della fretta e della confusione di una via cittadina. Proprio questo frastuono — in un qualche modo — ebbe su Charlie un effetto calmante; anche se fu un brutto momento quello in cui, nell’attraversare, all’angolo, sentì un rumore improvviso alle spalle. Si voltò, allarmato, col timore di dover vedere qualche cosa di strano.

Ma era soltanto un camion.

Riuscì a togliersi di mezzo in tempo per evitare di esserne investito.

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