XVII

Buio, e pioggia.

Un’acquerugiola fredda e sgradevole che aveva cominciato ad infiltrarglisi nei vestiti, giù per il collo, dentro alle scarpe, fin dal primo momento in cui era sceso dal treno sulla piccola piattaforma di legno.

Ma la stazione era lì e lì era il cartello che gli diceva il nome della cittadina. Charlie lo guardò compiaciuto, ed entrò nella stazione. C’era un’allegra stufetta a carbone nel centro della stanza. Aveva tempo per scaldarsi, prima di muoversi. Tese le mani verso la stufa.

Da un lato della stanza, una testa brizzolata lo scrutava, incuriosita, attraverso lo sportello della biglietteria. Charlie fece un cenno di saluto alla testa e la testa gli rispose con un altro cenno.

— Starà qui per un po’, signore? — chiese la testa.

— Non esattamente, — disse Charlie. — Spero di no, ad ogni modo. Voglio dire… — Diavolo, dopo tutte le storie che aveva raccontato agli psichiatri dell’ospedale, non avrebbe dovuto trovarsi in difficoltà nel dir bugie al bigliettaio di una piccola città di provincia. — Voglio dire, credo di no.

— Niente più treni per stanotte, signore. Ha un posto in cui andare? Se no, mia moglie qualche volta prende dei pensionanti per brevi periodi.

— Grazie, — disse Charlie. — Ho già provveduto. — Stava per aggiungere «spero», ma poi si rese conto che ciò l’avrebbe condotto a continuare la conversazione.

Diede un’occhiata all’orologio da muro, poi al suo da polso e vide che entrambi concordavano nel segnare le dodici meno un quarto.

— Quanto è grande questa città? — chiese. — Non intendo la popolazione. Voglio dire, quanto c’è dalla barriera alla linea di demarcazione del distretto? Al confine della città.

— Non è grande. Ottocento metri, forse, o un po’ di più. Andrebbe dai Tolliver, per caso? Abitano proprio poco più in là e ho sentito dire che lui ha fatto venire dalla città un… no, non ha l’aria, lei, del bracciante.

— No, — disse Charlie. — Non lo sono — Diede un’altra occhiata all’orologio a muro e mosse verso la porta, dicendo: — Be’, ci vediamo.

— Va a…?

Ma Charlie era già uscito e si stava incamminando giù per la strada dietro la stazione ferroviaria. Verso il buio, verso l’ignoto e… Be’, come avrebbe potuto raccontare al bigliettaio della sua reale destinazione?

Ecco la barriera. Dopo un isolato il marciapiedi terminò e Charlie dovette camminare lungo il ciglio della strada, dentro al fango, a volte fino alla caviglia. Ormai era bagnato fradicio, ma la cosa non aveva importanza.

Risultò che c’erano da percorrere più di ottocento metri per arrivare alla linea di demarcazione. Qui un grande cartello — un cartello stranamente grande, date le dimensioni della cittadina — diceva: state entrando in haveen.

Charlie attraversò la linea, fece dietro front e rimase in attesa, l’occhio sull’orologio da polso.

Alle dodici e quindici in punto avrebbe dovuto oltrepassare la riga. Dieci minuti erano già passati. Due giorni, tre ore, dieci minuti da quando la scatola di liscivia aveva contenuto una moneta di rame; il che era successo due giorni, tre ore, dieci minuti dopo che lui era entrato sotto anestesia per la porta di un gioielliere; vale a dire due giorni, tre ore, dieci minuti dopo…

Continuò ad osservare le lancette del suo orologio perfettamente regolato: prima la lancetta dei minuti, fino alle dodici e quattordici; poi la lancetta dei secondi.

Quando mancò un secondo alle dodici e quindici, mise avanti un piede: nel momento fatidico stava lentamente oltrepassando la linea di demarcazione.

Stava entrando in Haveen.

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