II

Il pomeriggio e la sera della domenica li passò con Jane, e l’episodio del verme in ascensione scivolò in un recesso della sua mente. Qualsiasi cosa — tranne Jane — aveva la tendenza a finire lì quando Charlie era con lei.

All’ora di andare a dormire, quando fu di nuovo solo, riaffiorò — il pensiero, non il verme — in maniera tanto perentoria da non lasciarlo dormire. Così, si alzò e si sedette nella poltroncina vicino alla finestra: aveva deciso che l’unico modo per togliersi quella storia dalla mente era di considerarla in ogni sua parte. Se fosse arrivato a fare il punto della situazione e a decidere che cosa era realmente successo là fuori, sul bordo dell’aiuola, allora, forse, sarebbe riuscito a dimenticarsene completamente.

D’accordo, si disse, cerchiamo di essere rigorosamente logici.

Aveva ragione, Pete, a proposito delle tre possibilità: allucinazione, sogno, realtà. Ora, tanto per cominciare, non si era trattato di un sogno. Era ben sveglio, lui. Se c’era una cosa di cui era sicuro era proprio questa. Possibilità da eliminare, dunque.

Realtà? Anche questa ipotesi era inammissibile. Faceva presto Pete a parlare della stranezza degli insetti e della possibilità di antenne e simili… Pete non l’aveva visto, quel maledetto coso. Quel coso che aveva volteggiato a pochi centimetri dai suoi occhi. E in quanto all’aureola, c’era… c’era davvero.

Antenne? Sciocchezze.

Così non rimaneva che l’allucinazione. Ecco quello che doveva essere stato: un’allucinazione. Dopo tutto la gente ne ha, di allucinazioni. E, a meno che non succeda spesso, ciò non significa necessariamente che tu sia candidato al manicomio. Benissimo, allora: ammesso che sia stato un’allucinazione, e con ciò? E con ciò, dimenticatene.

Giunto a questa decisione, Charlie se ne andò a letto e — col pensiero rivolto di nuovo a Jane — dormì beatamente.

La mattina dopo era lunedì e tornò a lavorare.

L’altra mattina ancora era martedì.

E martedì.

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