III

Non si trattava di un lombrico in ascensione, questa volta. Non era cosa che si potesse toccare con mano, a meno che non si voglia toccare una scottatura di sole; il che è doloroso, a volte.

Ma una scottatura di sole — durante un temporale…

Pioveva, quella mattina, quando Charlie Wills uscì di casa; non forte a quell’ora — erano le otto e qualche minuto — una semplice pioggerella. Charlie abbassò la tesa del cappello, abbottonò l’impermeabile e decise di andarsene comunque in ufficio a piedi. Gli piaceva molto camminare sotto la pioggia. E ne aveva tutto il tempo: non doveva essere al lavoro che alle otto e mezza.

Tre isolati prima dell’ufficio, incontrò la “Peste”, che aveva la sua stessa destinazione. La “Peste” era la sorella minore di Jane Pemberton; il suo vero nome era Paula, ma la maggior parte della gente se ne era dimenticata. Lavorava, proprio come Charlie, alla Società Tipografica Hapworth; soltanto che lei era l’aiuto di uno dei correttori di bozze, mentre lui era vicedirettore di produzione.

Era stato per suo tramite che Charlie aveva conosciuto Jane a un ricevimento dato per i dipendenti.

— Ehi, tu, Peste. Non hai paura di scioglierti? — Adesso, infatti, stava piovendo più forte, decisamente più forte.

— Ciao, Charlie-warlie[1]. Mi piace camminare sotto la pioggia.

L’avrebbe fatto, pensò Charlie con amarezza. All’odiato soprannome di Charlie-warlie si sentiva fremere. Jane lo aveva chiamato così una volta, ma — dopo che lui l’aveva indotta a ragionarci su — non l’aveva più fatto. Jane era una persona ragionevole. Ma la Peste lo aveva sentito… e Charlie aveva una tremenda paura, da allora, che lei lo chiamasse così in ufficio, e che altri impiegati potessero udirla. Se mai fosse successo…

— Senti, — protestò, — non potresti dimenticarti quel maledetto stupido soprannome? Smetterò di chiamarti “Peste” se tu la smetti di chiamarmi — uhm — in quel modo.

— Ma a me piace essere chiamata Peste. Perché, non ti piace essere chiamato Charlie-warlie?

Gli fece un sorrisetto e Charlie fremette dentro di sé. Dal momento che lei era chi era, non osava…

C’era rabbia repressa in lui mentre camminava sotto la pioggia scrosciante, a testa bassa per non prendersi l’acqua in faccia. Accidenti a quella mocciosa…

Con la visione limitata ai pochi metri di marciapiede davanti a sé, probabilmente Charlie non avrebbe visto il carrettiere e il cavallo se non avesse sentito gli schiocchi della frusta che risuonavano come colpi di pistola.

Alzò gli occhi e vide. Nel centro della strada, a circa un metro e mezzo di distanza, muovendosi verso Charlie e la Peste, avanzava un carro sovraccarico. Lo tirava un vecchio cavallo stremato, tanto vecchio e ossuto che la lenta andatura con cui procedeva sembrava essere il più alto grado di velocità cui l’animale potesse arrivare.

Ma il carrettiere, evidentemente, non la pensava così. Era un omaccio dalla carnagione scura, la brutta faccia non rasata. Stava ritto in piedi, roteando la sua pesante frusta, pronto a colpire di nuovo. Quando il colpo giunse a segno, il vecchio cavallo stremato sembrò barcollare tra le stanghe.

La frusta venne alzata ancora una volta.

Allora Charlie, gridando — Ehi, laggiù! — si slanciò verso il carro.

Non sapeva ancora esattamente cosa avrebbe fatto se quella bestia che picchiava l’altra bestia si fosse rifiutata di smetterla. Ma qualche cosa sarebbe successo: la vista di un animale maltrattato era una cosa che Charlie Wills proprio non poteva — e non voleva — sopportare.

Gridò — Ehi! — di nuovo. A quanto pareva il carrettiere non l’aveva sentito urlare la prima volta e continuava col suo trotto verso la curva.

Udì però questo secondo grido, come probabilmente aveva sentito il primo, e si girò a squadrare Charlie. Poi, alzò di nuovo la frusta, ancora più in alto, per calarla con tutta la sua forza sulla schiena del cavallo, già striata dalle frustate.

Le cose davanti agli occhi di Charlie si tinsero di rosso. Non gridò più: adesso sapeva maledettamente bene che cosa avrebbe fatto. Per prima cosa doveva tirar giù dal carro quel carrettiere, se voleva mettergli le mani addosso. Poi lo avrebbe ridotto in polpette.

Sentì il ticchettio dei tacchi di Paula, quando lei si slanciò dietro di lui gridando: — Charlie, atten…

Ma fu tutto quanto riuscì a sentire. Perché, proprio in quel momento, la cosa accadde.

Un’improvvisa, accecante ondata di calore insopportabile, la sensazione di essere entrato nel centro di una fornace infuocata.

Boccheggiò, nel tentativo di respirare: persino l’aria, giù nei polmoni e in gola, sembrava scottare. E la sua pelle…

Un dolore accecante — di un momento appena — che poi era cessato, ma troppo tardi. Il colpo era stato tanto improvviso ed intenso che, quando sentì di nuovo sulla faccia la pioggia fresca, gli sembrò di diventare molle, come di gomma, fu colto da vertigini e perse conoscenza. Non avverti nemmeno l’urto della caduta.

Il buio.

Aprì gli occhi in una nebulosità biancastra che si definì nel bianco delle pareti, delle lenzuola e dell’uniforme di un’infermiera, la quale disse: — Dottore! Ha ripreso conoscenza.

Rumore di passi, di una porta che si chiudeva, ed ecco il dottor Palmer che si chinava accigliato su di lui.

— Bene, Charles, e adesso che cosa hai combinato?

Charlie sogghignò, fiaccamente. Disse: — Eh, dottore, lo sapessi… Che cosa ho combinato?

Il dottor Palmer tirò una sedia accanto alletto e si sedette. Prese il polso di Charlie e lo tenne stretto mentre guardava la lancetta dei secondi sul suo orologio. Poi lesse la cartella clinica appesa in fondo alletto e borbottò: — Uhm.

— È la diagnosi, — volle sapere Charlie, — o la cura? Senta, prima di tutto, che ne è di quel carrettiere? Ben inteso se lei sa…

— Paula mi ha raccontato quello che è successo. Il carrettiere, licenziato, è in stato di arresto. Tu stai benissimo, Charles. Niente di serio.

— Niente di serio? Che cosa… è un caso non serio? In altre parole, che mi è successo?

— Sei svenuto. Collasso. E per alcuni giorni ti spellerai, ma questo è tutto. Perché non hai adoperato una lozione qualsiasi, ieri?

Charlie chiuse gli occhi, poi li apri di nuovo, lentamente. E disse: — Perché non ho usato una… Per che cosa?

— La scottatura di sole, naturalmente. Non sai che non si può andare a nuotare in un giorno di sole senza prendere…

— Ma, dottore, io non sono andato a nuotare ieri. E neanche il giorno prima. Accidenti, non ci vado da un paio di settimane a nuotare. Che cosa vuol dire, parlando di una scottatura di sole?

Il dottor Palmer si strofinò il mento. Disse: — Meglio che ti riposi un po’, Charles. Se stasera ti sentirai bene, potrai andartene a casa. Ma sarebbe meglio che tu non lavorassi, domani.

Si alzò ed uscì.

L’inférmiera era ancora lì e Charlie la fissò con sguardo assente. Poi disse: — Il dottor Palmer sta per… Senta, che cosa è tutta questa storia?

L’infermiera lo stava guardando in modo strano. Disse: — Ecco, lei… Mi scusi, signor Wills, ma ad un’infermiera non è permesso discutere la diagnosi con un paziente. Lei però non ha niente di cui preoccuparsi; ha sentito che il dottor Palmer ha detto che può andarsene a casa nel pomeriggio o stasera.

— Sciocchezze, — disse Charlie. — Senta, che ore sono? O alle infermiere non è permesso dirlo?

— Sono le dieci e mezzo.

— Perdinci, sono qui da circa due ore — Fece i conti a ritroso, ricordandosi in quel momento di aver oltrepassato un orologio che segnava le otto e ventiquattro proprio mentre girava l’angolo prima dell’ultimo isolato. E se era di nuovo cosciente da cinque minuti, allora era rimasto svenuto per ben due ore.

— Desidera nient’altro, signore?

Charlie scosse lentamente la testa. Ma poi, desiderando che lei se ne andasse per poter dare una occhiata di nascosto alla cartella clinica, disse: — Be’, sì. Potrei avere un bicchiere di spremuta d’arancia?

Non appena lei fu uscita, si tirò su a sedere sui letto. Senti un po’ di male nel farlo: la sua pelle — scoprì — era piuttosto tenera al tatto. Si guardò le braccia, facendosi su le maniche del camicione che gli avevano infilato. La pelle era rosea: proprio quella sfumatura di rosa che sta a indicare il primo grado di una scottatura di sole.

Guardò dentro al camicione, poi si esaminò le gambe. — Che diavolo… — disse. La scottatura — se di scottatura si trattava — era uniforme su tutto il corpo.

Il che non aveva senso: ultimamente non era mai rimasto al sole il tempo sufficiente per scottarsi; e poi, non era stato affatto al sole senza vestiti. E… sì, la scottatura si estendeva persino alla zona che sarebbe stata coperta dal costume se lui fosse andato a nuotare.

Ma forse la cartella clinica avrebbe dato una spiegazione. Arrivò ai piedi del letto e staccò dal gancio la tavoletta con la cartella clinica.

Secondo il verbale il paziente è svenuto improvvisamente per strada, senza cause apparenti. All’ammissione: polso 135, respirazione affannosa, temperatura 40°. Ritorno allo stato normale nella prima ora di ricovero. I sintomi sembrano essere molto simili a quelli del collasso per calore, ma…

Seguivano alcuni commenti esplicativi di tono strettamente tecnico. Charlie non li capì; in qualche modo aveva la sensazione che neanche il dottor Palmer li capisse: avevano tutta l’aria di fumo negli occhi. Al ticchettio di tacchi fuori nel corridoio, rimise in fretta la cartella al suo posto e si cacciò sotto le coperte. Cosa sorprendente, bussarono alla porta. Di solito le infermiere non bussano, vero?

— Avanti, — disse.

Era Jane. Più bella che mai, i grandi occhi castani ancora più grandi per lo spavento.

— Caro! Sono venuta subito dopo che la Peste mi ha telefonato a casa e me lo ha detto. Ma è stata terribilmente vaga. Che cosa ti è successo?

Era ormai arrivata a tiro e Charlie l’abbracciò: in quel momento non gli importava proprio un accidente di che cosa gli era successo. Ma cercò di dare una spiegazione. Soprattutto a se stesso.

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