— Etere.
Charlie guardò stranito il dottore in camice bianco. — Ma come diavolo avrei potuto ingollare una dose di etere?
C’era anche Pete, che lo sbirciava al di sopra della spalla del medico. La faccia dell’amico era pallida e contratta. Ancor prima che il dottore si stringesse nelle spalle, Pete stava dicendo:
— Senti, Charlie, il dottor Palmer è già per strada; viene qui. Ho detto loro…
Poi Charlie fu preso da violenti, sconvolgenti conati di vomito. Il dottore che aveva detto “Etere” non c’era più e non c’era neppure il dottor Palmer, ma Pete — a quanto pareva — stava adesso discutendo con un signore alto, dall’aspetto distinto, la barba a spazzola e gli occhi di falco.
— Lasci stare quel povero ragazzo, — diceva Pete. — Maledizione, è tutta la vita che lo conosco. Non ha bisogno di uno psichiatra. Sicuro che diceva delle cose pazzesche mentre era sotto narcosi; ma non dicono tutti delle sciocchezze sotto l’effetto dell’etere?
— Ma, mio giovane amico, — la voce dell’uomo alto era melliflua, — lei dimostra di fraintendere le ragioni per cui l’ospedale mi ha chiesto di esaminano. Io desidero dimostrare la sua sanità mentale, se possibile. Può avere avuto dei motivi più che legittimi per inalare dell’etere. E poi anche la faccenda della scorsa settimana, quando è stato qui la prima volta. Sicuramente, un uomo normale…
— Maledizione, ma non se l’è mica dato lui l’etere. L’ho visto io mentre entrava nel negozio, dopo essere sceso dal taxi. Camminava normalmente e teneva le mani lungo i fianchi. Poi, tutto a un tratto, è semplicemente crollato, di schianto.
— Vuoi insinuare che a narcotizzarlo è stato qualcuno vicino a lui?
— Non c’era nessuno vicino a lui.
Charlie teneva gli occhi chiusi, ma, dal tono di voce dello psichiatra, avrebbe potuto giurare che l’uomo stava sorridendo. — Allora, mio giovane amico, come pensa che sia stato narcotizzato?
— Accidenti, non lo so. Dico soltanto che lui non…
— Pete! — Charlie riconobbe la propria voce, e si accorse di avere riaperto gli occhi. — Digli di andarsene al diavolo. Digli di dichiararmi pazzo, se vuole. Sicuro che sono pazzo. Digli del verme e dell’anitra. Portatemi al manicomio. Digli…
— Ha… — Di nuovo la voce della barba a spazzola. — Ha già avuto, in precedenza, delle… fissazioni?
— Charlie, stattene zitto! Dottore, è ancora sotto l’effetto dell’etere; non gli dia retta. Non è leale psicanalizzare uno che non sa di che cosa sta parlando. Per due soldi, io…
— Leale? Amico mio, la psichiatria non è un gioco. Le assicuro, che gli interessi di questo giovanotto mi stanno a cuore. Forse la sua… aberrazione è curabile, e vorrei…
Charlie si tirò su a sedere, urlando: — Fuori di qui, prima che io…
Di nuovo, il buio tutt’intorno.
Una oscurità tortuosa, densa, fumosa, nauseante. Gli sembrava di stare strisciando in una stretta galleria verso un punto luminoso. Poi all’improvviso capì di aver ripreso conoscenza. Ma forse lì attorno c’era qualcuno che gli avrebbe parlato, e gli avrebbe fatto delle domande, se avesse aperto gli occhi, e così li tenne ben chiusi.
Teneva gli occhi chiusi e pensava.
Ci deve essere una risposta.
Non ce n’erano, di risposte.
Lombrico angelico.
Ondata di calore.
Anitra in una bacheca di monete.
Ghirlanda appassita di brutti fiori.
Etere sulla soglia.
Mettili in relazione; deve esserci una relazione. Doveva avere un senso tutto questo. Doveva avere un senso!
Un minimo comune denominatore. Un qualche cosa che li collegasse, che li saldasse in una serie coerente; un qualche cosa che si riuscisse a capire; un qualche cosa per cui si potesse forse fare qualche cosa. Un qualche cosa che si potesse combattere.
Verme.
Calore.
Anitra.
Ghirlanda.
Etere.
Verme.
Calore.
Anitra.
Ghirlanda.
Etere.
Verme, calore, anitra, ghirlanda, etere, verme, calore, anitra, ghirlanda…
Le parole gli martellavano in testa, come il battito di un tamtam; gli gridavano nel buio con un linguaggio incomprensibile.