LA PRIMA FATICA OVVERO LA TRAPPOLA DI GARGANTIUS

Quando l’universo non era ancora scombussolato come adesso, e tutte le stelle erano allineate al loro debito posto, sicché potevate contarle facilmente da’ sinistra a destra, da destra a sinistra, dalla cima al fondo e viceversa, e le più grandi e azzurre erano ben intervallate tra loro, mentre quelle dei tipi più piccoli e giallognoli erano sospinte ai margini, come si conveniva a corpi astronomici di classe inferiore, quando nello spazio interplanetario non si sarebbe scovato un solo bruscolino di polvere cosmica o di scorie nebulari… in quel buon tempo antico era costume dei costruttori, conseguito con lode il diploma di Onnipotenza Perpetua, lasciare per lunghi periodi di tempo il luogo natìo, allo scopo di rendere accessibile anche alle terre più lontane la benedizione della loro esperienza.

Accadde dunque che, in omaggio a questa antica costumanza, Trurl e Klapaucius, i quali erano in grado di accendere e spegnere gli astri con la stessa facilità con cui noi sgusciamo i piselli, si avventurassero in un simile viaggio. E quando la vastità del vuoto attraversato aveva ormai annullato in loro ogni reminiscenza dei cieli materni, scorsero un pianeta dinanzi alla loro nave — né troppo grosso né troppo piccolo, della dimensione giusta — con un solo continente, nel cui mezzo correva un linea rossa luminosa: da una parte della linea tutto era giallo, mentre dall’altra tutto era rosa.

Compreso immediatamente che si trattava di due regni confinanti, i due costruttori tennero un breve consiglio di guerra prima di atterrare.

«Con due regni» disse Trurl «è meglio che tu ti occupi di uno, e io dell’altro. Così nessuno si adonterà».

«Giusto» rispose Klapaucius. «Ma se dovessero chiederci assistenza militare? Sono cose che succedono».

«Certo, potrebbero chiederci armi, anche super-armi» convenne Trurl. «Ma noi, semplicemente, ci rifiuteremo di dargliele».

«E se dovessero insistere, fino a minacciarci?» insistette Klapaucius. «Anche queste sono cose che succedono».

«Esaminiamo la situazione locale» disse Trurl, accendendo la radio. Ne uscì una marcia militare suonata a tutto volume: musica da esaltati.

«Ho un’idea» disse Klapaucius, spegnendo l’apparecchio. «Possiamo usare l’Effetto Gargantius. Che ne pensi?»

«Ah, l’Effetto Gargantius!» esclamò Trurl. «Non ho mai sentito dire che qualcuno l’abbia realmente usato, ma c’è sempre una prima volta. Sì, perché no?»

«Tutt’e due dobbiamo essere pronti a usarlo» spiegò Klapaucius. «Ma è necessario che lo usiamo contemporaneamente, altrimenti ci troveremmo nei guai».

«Nessun problema» rispose Trurl. Trasse di tasca una minuscola scatola dorata e l’aprì. All’interno, appoggiate sul velluto, c’erano due perle bianche.

«Tu ne terrai una, io l’altra» soggiunse. «Ogni sera le darai un’occhiata: se la vedrai diventare rosa, significherà che io ho iniziato e che dovrai iniziare anche tu».

«D’accordo» rispose Klapaucius, mettendo in tasca la perla. Poi atterrarono, calarono la scaletta, si strinsero la mano e si allontanarono in direzioni opposte.

Il regno in cui si venne a trovare Trurl era retto da Re Atrocitus, che era militarista dalla punta dei piedi alla cima dei capelli, e oltre a questo era un terribile spilorcio. Per non oberare il tesoro della Corona, aveva abolito tutte le punizioni tranne quella capitale. La sua occupazione preferita consisteva nell’eliminare le cariche non necessarie; e poiché in esse era compresa anche quella del boia, ogni condannato era costretto a tagliarsi la testa da solo, oppure — nelle rare occasioni in cui Sua Maestà si mostrava clemente — a farsela tagliare da qualcuno della famiglia.

Fra tutte le arti, Re Atrocitus patrocinava solo quelle che non richiedevano grandi spese, come la recitazione corale, gli scacchi e la ginnastica pre-militare. Aveva particolare considerazione per l’arte della guerra, perché una campagna militare vittoriosa dava sempre eccellenti guadagni; d’altra parte, non ci si poteva preparare bene per la guerra che durante un intervallo di pace, e di conseguenza il Re patrocinava anche la pace, ma lo faceva con moderazione.

La sua massima riforma era stata la razionalizzazione dell’alto tradimento. Poiché il regno vicino continuava ininterrottamente a mandare spie, Atrocitus aveva inventato un Ministero degli Informatori Reali, il cui personale, attraverso una gerarchia di traditori di grado sempre più basso, passava agli agenti nemici, in cambio di certe somme di denaro, i segreti di Stato. In genere gli agenti acquistavano soltanto segreti già vecchi: soprattutto perché costavano meno, ed essendo responsabili, di fronte al loro governo, di ogni centesimo che spendevano, se avessero sfondato il bilancio avrebbero dovuto rimborsare di tasca propria la differenza.

I sudditi di Atrocitus si alzavano presto, si comportavano bene e lavoravano sodo. Fucinavano fili di ferro e formavano fasci di fascine per farne fortificazioni, costruivano caccia-torpediniere, carrarmati, cannoni e casematte, si dedicavano diligentemente alle denunce delatorie. E perché il regno non fosse sommerso da quest’ultime (come in effetti era accaduto durante il regno di Bartolocausto l’Occhiuto, vari secoli prima), chi scriveva troppe denunce era tenuto al pagamento di una tassa speciale sugli articoli di lusso. Grazie a questa tassa, oggi le delazioni venivano mantenute a un livello accettabile.

Giunto alla corte di Atrocitus, Trurl gli offrì i suoi servigi. Il Re — come c’era da aspettarsi — gli chiese poderosi strumenti di guerra. Trurl si fece concedere alcuni giorni per riflettere sulla cosa, e non appena fu solo nel piccolo stanzino che gli avevano assegnato, diede un’occhiata alla perla della scatoletta dorata. Era ancora bianca, ma, sotto i suoi occhi, cominciò a prendere una sfumatura rosa.

«Aha!» disse il costruttore, rivolto a se stesso. «E’ ora di cominciare con Gargantius!» E senza ulteriori indugi recuperò le sue formule segrete e si accinse al lavoro.

Intanto Klapaucius si era trovato nell’altro regno, dominato dal grande Re Ferocitus.

Laggiù, tutto era completamente diverso da quel che si incontrava in Atrocia. Anche quel monarca si compiaceva delle campagne militari e delle marce, e anch’egli spendeva molto in armamenti, ma, per così dire, in modo illuminato, perché era un sovrano superbamente generoso e un grande protettore delle arti.

Amava le uniformi, i cordoncini dorati, gli alamari e le strisce, le spalline e gli speroni, i cimieri rutilanti e impennacchiati, le cannoniere, le spade e i cavalli da guerra scalpitanti. Inoltre era un uomo di grande sensibilità, e gli venivano i lucciconi ogni volta che doveva varare una nuova cannoniera. E premiava con ingenti somme i quadri raffiguranti scene di battaglia, pagandoli patriotticamente in proporzione alle pile di nemici uccisi che vi erano ritratte, cosicché, nelle interminabili tele panoramiche di cui il regno era pieno, le montagne di cadaveri nemici arrivavano fino al cielo.

In pratica era un autocrate, ma con idee libertarie; un tiranno, ma magnanimo. A ogni anniversario della sua incoronazione annunciava qualche riforma. Una volta aveva ordinato di decorare con i fiori le ghigliottine; un’altra volta le aveva fatte oliare perché non cigolassero; e una volta aveva fatto affilare e dorare le asce dei boia — il tutto in base a considerazioni umanitarie. Ferocitus non era certo un debole, ma aveva una vera avversione per gli eccessi, e perciò aveva imposto, per regio decreto, regole e standard per le berline, le ruote, i pali, le pinze da arroventare, le catene e le mazze. La decapitazione dei colpevoli di reati di pensiero — evento abbastanza raro — si svolgeva con grande pompa e presenza di autorità, accompagnamento bandistico, discorsi, sfilate e luminarie. Questo illuminato monarca seguiva una teoria politica da lui stesso formulata e chiamata Teoria della Felicità Universale. E’ noto che non si ride perché si è allegri, ma si diventa allegri perché si ride: come sostiene l’adagio, il riso fa buon sangue. Perciò, se tutti ripetessero che le cose non potrebbero andar meglio, la disposizione generale di spirito migliorerebbe immediatamente.

Di conseguenza, i sudditi di Ferocitus dovevano, per il loro bene, andare in giro gridando che tutto era meraviglioso; il vecchio, indefinito saluto «Salve» era stato cambiato dal Re nel più entusiastico «Alleluia!» anche se ai minori di quattordici anni era ancora permesso dire «Che cuccagna!» e «Ullallà!» e ai vecchi «Quale piacere!» Ferocitus godeva nel constatare che lo spirito della popolazione era così alto. Ogni volta che arrivava sulla sua auto a forma di nave da battaglia, la gente che lo vedeva applaudiva, e quando sollevava graziosamente la sua mano regale, la prima fila gridava: «Urrah!» e «Alleluia!» e «Grande!»

In cuor suo un democratico, gli piaceva fermarsi a scambiare quattro parole con i vecchi soldati che molto avevano visto e molto combattuto, amava ascoltare le storie che si raccontavano ai bivacchi e che vertevano sulle imprese più ardimentose, e spesso, quando un dignitario straniero si presentava a un’udienza, tutt’a un tratto, tra il lusco e il brusco, gli batteva lo scettro sul ginocchio e urlava: «Issate quelle cime!» o «Ammainate la scotta!» o «Tuoni e fulmini!» e non c’era nulla che apprezzasse tanto — o che avesse tanto a cuore — quanto l’ardire e il non ordire, l’azzardo e le decisioni al primo sguardo, la vita dura e l’assenza di paura, l’assalto di slancio e il profumo del rancio, la galletta e il grog, il gavettone e la polvere da cannone.

Così, ogni volta che si sentiva prendere dalle paturnie, per vincere la melanconia gli era sufficiente far sfilare i soldati sotto il suo balcone, e ascoltare le allegre marcette con cui scandivano il passo, come: «Avvita forte il tuo coraggio / Sia robusto il suo bullone davanti al nemico» e «Su col morale / Garrisce la bandiera e Saldi e pugnaci; combatteremo / Fino allo stremo, sempre più audaci» per poi concludere con il trascinante inno nazionale: «Calcio in spalla, occhio al mirino». E aveva già dato ordine, per il giorno del suo funerale, che i veterani della sua guardia cantassero sulla sua tomba il suo inno preferito: «I vecchi robot non arrugginiscono mai».

Klapaucius non arrivò immediatamente alla corte di questo grande sovrano. Nel primo villaggio in cui ebbe la ventura di trovarsi, bussò a parecchie porte, ma nessuno gli aprì. Alla fine notò, nella strada deserta, un bambino di pochi anni; questi si avvicinò a lui e gli chiese, con voce flebile e acuta: «Me ne compri uno, signore? Costano poco».

«Che cosa vendi?» chiese Klapaucius, sorpreso.

«Segreti di stato» rispose il piccolo, sollevando la camiciola quel tanto che permise a Klapaucius di vedere, sotto di essa, un fascicolo dei piani di mobilitazione. Ancor più sorpreso, Klapaucius disse: «No, grazie, piccolo. Piuttosto, puoi dirmi dove posso trovare il sindaco?»

«Che cosa vuoi dal sindaco, signore?» chiese il bambino.

«Gli devo parlare».

«In segreto?»

«Non fa differenza» rispose Klapaucius.

«Ti serve un agente segreto? Mio padre fa l’agente segreto. Fidatissimo. Molto economico».

«Bene. Allora, portami da tuo padre» rispose Klapaucius, il quale aveva capito che non sarebbe approdato a niente, con quel piccolo spacciatore di segreti.

Il bambino lo portò fino a una casa. All’interno, anche se era appena primo pomeriggio, c’era una famiglia raccolta attorno a una lampada accesa: il nonno ormai grigio, seduto sulla sedia a rotelle, la nonna intenta a fare la calza, e la loro progenie — numerosa e ormai adulta — indaffarata in tanti lavori domestici. Non appena Klapaucius entrò, gli balzarono addosso e lo bloccarono; gli aghi da calza risultarono essere un paio di manette, la lampada un microfono, la nonna era il Capo della Polizia.

«Devono avere commesso un errore» pensò Klapaucius, quando lo percossero e lo cacciarono in prigione. Pazientemente, attese per tutta la notte — non poté fare altro. Giunse infine l’alba, che illuminò le ragnatele sulle pareti della cella e i resti arrugginiti dei precedenti prigionieri. Dopo qualche tempo vennero a prenderlo per interrogarlo. Risultò che tanto il bambino quanto la casa — anzi, in effetti l’intero villaggio — erano soltanto una sofisticata esca per ingannare le spie straniere.

Klapaucius, comunque, non dovette affrontare i rigori di un lungo processo: la seduta arrivò rapidamente alla conclusione. Per il tentativo di prendere contatto con il padre-informatore c’era il ghigliottinamento di terza classe, perché gli amministratori locali avevano terminato, per l’anno fiscale corrente, i fondi destinati a far cambiare bandiera agli agenti nemici, e Klapaucius, da parte sua, s’era rifiutato di contribuire al fondo acquistando dalla polizia qualche opportuno segreto di stato. Né aveva con sé denaro sufficiente a far derubricare il reato.

Tuttavia, poiché il prigioniero continuava a protestare la propria innocenza — non che il giudice gli credesse; del resto, la cosa non aveva importanza, perché la sua autorità non arrivava fino al punto di poterne ordinare la scarcerazione — il caso venne trasmesso a una corte di grado superiore, e nel frattempo Klapaucius venne sottoposto a tortura, più per ragioni di forma, a dire il vero, che per reale necessità.

In circa una settimana, però, il suo caso prese un andamento positivo; finalmente prosciolto, si recò nella capitale, dove — dopo essere stato istruito sulle leggi e i regolamenti dell’etichetta di corte — ebbe l’onore di un’udienza privata con il Re. Lo dotarono anche di una cornetta, perché ciascun cittadino era tenuto ad annunciare il suo arrivo e la sua partenza dai luoghi pubblici con i regolamentari squilli di tromba, e tale era la ferrea disciplina del paese che il sole non si considerava ufficialmente sorto finché il trombettiere non suonava la sveglia.

Ferocitus, come previsto, chiese nuove armi, e Klapaucius gli promise di esaudire la sua regale richiesta: il suo piano, assicurò al Re, rappresentava un radicale progresso rispetto ai comuni principi dell’azione militare.

Che tipo di esercito — chiese per prima cosa — usciva invariabilmente vittorioso dallo scontro? Quello che aveva i capi migliori e i soldati più disciplinati. Il capo dava gli ordini, il soldato li eseguiva: il primo doveva essere saggio, il secondo obbediente.

Tuttavia, la saggezza della mente — anche della mente militare — aveva taluni limiti naturali. Inoltre, un grande capo poteva incappare, come nemico, in un altro capo altrettanto grande. O poteva cadere in battaglia e lasciare prive di guida le sue legioni. Oppure poteva compiere qualcosa di altrettanto temibile, dato che il militare era, per così dire, professionalmente addestrato a pensare, e l’obiettivo dei suoi pensieri era il potere.

Non era pericoloso avere in campo una legione di vecchi generali, con le teste arrugginite così piene di strategia e di tattica da spingerli ad aspirare al trono? Forse che per questa loro tendenza, parecchi regni non se l’erano vista brutta? Era chiaro, dunque, che i capi erano un male, purtroppo necessario; il problema stava nel renderlo un male non più necessario. Proseguendo, la disciplina di un esercito consisteva nell’eseguire con precisione gli ordini. Idealmente, si doveva arrivare al punto di avere mille cuori e mille teste fuse in un solo cuore, una sola mente, una sola volontà. La vita militare, con le sue corvè, le marce, le esercitazioni e le manovre serviva a questo. La meta ultima era dunque un esercito che agisse alla lettera come un sol uomo, che fosse nello stesso tempo il creatore e l’esecutore dei propri obiettivi.

Ma dove si poteva trovare incarnata una simile perfezione? Solo nell’individuo, perché a nessuno si obbediva così facilmente come a se stessi, e nessuno eseguiva così allegramente gli ordini come chi li dava. Né un individuo poteva disertare da se stesso, e l’insubordinazione o l’ammutinamento contro se stesso erano palesemente impossibili.

Il punto era dunque prendere tanta ansia di servire se stessi — l’auto-venerazione che caratterizza l’individuo — e trasmetterla a un esercito di migliaia di uomini. Ma come? E qui Klapaucius cominciò a spiegare al Re, che lo ascoltava con grande attenzione, le semplici idee — perché sono sempre semplici, le idee dei geni — enunciate dal grande Gargantius.

In ogni recluta (spiegò Klapaucius) si avvitavano una spina sul davanti e una presa sul di dietro. All’ordine» Serrare i ranghi! " le spine s’infilavano nelle prese e, mentre fino a un attimo prima avevate una folla di semplici civili, ora avevate un battaglione di perfetti soldati. Quando le loro menti separate (finora occupate da ogni sorta di sciocchezzuole non marziali) si fondevano in un’unica coscienza «reggimentale», non solo si otteneva la disciplina automatica — perché il battaglione era diventato un’unica macchina per combattere, fatta di mille parti — ma anche una saggezza corrispondente. Una saggezza proporzionale al numero dei singoli componenti.

Un plotone veniva a possedere la saggezza di un sergente maggiore di carriera, una compagnia era almeno intelligente quanto un tenente colonnello, una brigata era assai più intelligente di un generale, e una divisione valeva ben più di tutti gli strateghi e gli specialisti di un esercito messi insieme.

Agendo come suggeriva Gargantius si potevano creare formazioni di una perspicacia strabiliante. Che, naturalmente, eseguivano alla lettera i propri ordini. Non ci sarebbe più stato spazio per l’insubordinazione e l’indisciplina degli individui, non si sarebbe più dovuto fare affidamento sulle capacità di un particolare comandante, temere le consuete rivalità, invidie e inimicizie tra generali. E i distaccamenti, una volta uniti, non avrebbero più cercato di separarsi, perché questo avrebbe prodotto soltanto confusione.

«Un esercito il cui unico capo è l’esercito stesso: questa la mia idea» concluse Klapaucius.

Il Re, assai impressionato dalle sue parole, rispose infine: «Ritorna nei tuoi appartamenti. Ne parlerò con il mio stato maggiore…»

«Oh, non fatelo, Altezza Reale!» esclamò l’astuto Klapaucius, fingendo grande costernazione. «E’ esattamente quello che fece l’Imperatore Turbilone, e i suoi generali, per difendere i loro privilegi, gli consigliarono di non accogliere il suggerimento. Poco dopo, però, il vicino di Turbilone, Re Smaltarello, lo attaccò con un esercito riformato e ridusse in cenere il suo impero, benché le forze di cui disponeva fossero soltanto l’ottava parte delle sue!»

Detto questo, si inchinò, ritornò nella propria stanza e consultò la perlina, che ora era rossa come una barbabietola: questo significava che Trurl aveva fatto un discorso come il suo alla corte di Atrocitus.

Non passò molto tempo prima che il Re ordinasse a Klapaucius di riformare un plotone di fanteria; unita nello spirito e divenuta a tutti gli effetti una sola mente, al grido di «Uccidi, uccidi! " la piccola unità piombò su tre squadroni dei dragoni reali, armati fino ai denti e per di più comandati dai sei più famosi maestri della Scuola di Guerra dell’Accademia Militare… e li ridusse a striscioline.

Grande fu il dolore di generali, marescialli, ammiragli e comandanti in capo, perché il Re li mandò tutti in congedo per raggiunti limiti di età; ormai convinto dell’efficacia dell’invenzione di Klapaucius, ordinò di rivoluzionare l’intero esercito.

Così, gli elettricisti militari lavorarono giorno e notte, fabbricando a bigonce, a vagonate, le spine e le prese, che poi vennero installate in tutte le caserme, con la spiegazione che si trattava di innovazioni necessarie. Coperto di medaglie, Klapaucius viaggiava da una guarnigione all’altra e controllava ogni cosa. E Trurl non se la passava diversamente nel regno di Atrocitus, tolto il particolare che — a causa della ben nota parsimonia di quel sovrano — doveva accontentarsi del titolo vitalizio, ma privo di appannaggio, di Gran Traditore della Madrepatria.

Entrambi i regni si preparavano allo scontro. Nello sforzo della mobilitazione, sia le armi convenzionali sia quelle nucleari vennero messe in assetto di guerra, senza lesinare polish e olio di gomito né ai cannoni né agli atomi, come da regolamento.

l lavoro dei due costruttori era ormai quasi finito: fecero segretamente i bagagli, per potersi ricongiungere — al momento debito — nel luogo convenuto, a poca distanza dalla loro nave, nascosta in un bosco.

Intanto, tra soldati e graduati di truppa avvenivano veri e propri miracoli, in particolare nella fanteria. Le compagnie non avevano più bisogno di addestrarsi alla marcia, né di contare per uno allo scopo di sapere di quanti elementi fossero composte, proprio come una persona con due gambe sa sempre distinguere la destra dalla sinistra né ha bisogno di calcolare quante persone sia. Era una gioia vedere le nuove unità fare l’Avanti-Marsch, il Dietro-Front e il Compagnia-Alt; poi, quando si dava loro il rompete le righe, vederle chiacchierare con le altre compagnie, ciascuna parlando in coro, come un sol uomo. Più tardi, durante l’ora di uscita, dalle finestre aperte delle caserme giungevano le loro voci stentoree, che discutevano di argomenti come la verità assoluta, le proposizioni a priori analitiche in confronto a quelle sintetiche, e la Cosa in Sé: infatti, le loro menti collettive avevano già raggiunto quel livello.

Venne elaborato un gran numero di sistemi filosofici, che furono guardati con simpatia dai superiori, finché un certo battaglione di zappatori non arrivò a una posizione di assoluto solipsismo, con l’affermazione che nulla esisteva all’esterno dell’unità stessa e che il mondo circostante non era altro che un costrutto della sua immaginazione. Dato che tale posizione portava come corollario che non esistessero né il Re né il nemico, il battaglione venne scollegato, alla chetichella, e i suoi membri vennero assegnati a unità che seguivano rigorosamente il realismo epistemologico.

All’incirca nello stesso momento, nel regno di Atrocitus, la sesta divisione anfibia lasciò da parte le operazioni della flotta per, dedicarsi alla contemplazione trascendente e, totalmente immersa nel misticismo, per poco non affogò. Fosse come fosse, a causa di questo incidente venne dichiarata la guerra, e i soldati, rombando e sferragliando, lentamente si mossero verso 11 confine, in entrambi i regni.

La legge di Gargantius continuò a operare con logica inesorabile. Come una formazione si unì all’altra, proporzionalmente crebbe anche il suo senso estetico, che giungeva al massimo quando si arrivava alla dimensione di una divisione rafforzata. Di conseguenza, le colonne di una forza simile si perdevano facilmente in divagazioni, rincorrevano elusive fantasie: quando il corpo motorizzato che prendeva nome dal Re Bartolocausto giunse a una fortezza che doveva essere conquistata con un attacco-lampo, il piano di guerra tracciato nella notte risultò essere una raffigurazione artistica dei bastioni della fortezza stessa, dipinti, per di più, con una forte vena di astrattismo che andava contro tutte le tradizioni militari I corpi di artiglieria pesante presero in considerazione i più ponderosi problemi della metafisica e, con la distrazione caratteristica dei grandi geni, persero il loro equipaggiamento lungo la strada e si dimenticarono completamente del fatto che fosse stata dichiarata una guerra.

Quanto agli interi eserciti, la loro psiche era afflitta da una moltitudine di complessi, come spesso accade agli intelletti più progrediti, e fu necessario assegnare a ciascuna armata una particolare brigata psichiatrica motociclista, che praticava le adeguate terapie nel corso della marcia.

Intanto, con un assordante accompagnamento musicale di tamburi e di cornamuse, entrambi gli schieramenti raggiunsero lentamente le loro posizioni. Sei reggimenti di truppe d’assalto, appoggiati da una batteria di mortai e da due battaglioni di rinforzo, composero, con l’aiuto di una squadra di fucilieri, un sonetto intitolato «Il mistero dell’esistenza», e proprio durante il servizio di guardia. In entrambi gli eserciti si ebbero numerosi casi di confusione: l’Ottantesimo Corpo Malabardato, per esempio, sostenne che l’intero concetto di «nemico» dovesse essere definito più chiaramente, poiché era pieno di contraddizioni logiche dal punto di vista sintattico, e rischiava addirittura di essere privo di significato sotto quello semantico.

I paracadutisti cercavano di trovare la formula matematica del terreno sottostante, le ali continuavano a scontrarsi con il centro, cosicché i due Re finirono per inviare in volo aiutanti e corrieri straordinari per rimettere ordine nei ranghi. Ma ciascuno di questi, dopo essere arrivato in aereo o a cavallo al corpo in questione, prima che potesse scoprire la causa del disturbo perdeva improvvisamente la propria identità personale, che entrava a far parte di quella collettiva, e i Re rimanevano senza aiutanti di campo e senza corrieri.

La coscienza, a quanto pareva, costituiva una trappola mortale, in quanto si poteva entrare a farne parte, ma non se ne poteva più uscire. Atrocitus stesso vide come suo cugino, il Grande Principe Lingotto, per sollevare lo spirito dei soldati, fosse saltato tra le fila, e come — non appena collegatosi alla prima linea — il suo spirito fosse sparito nel mucchio, e non ne fosse rimasta traccia.

Con l’impressione che qualcosa non fosse andato per il giusto verso, Ferocitus rivolse un cenno del capo ai dodici suonatori di tromba che stavano alla sua destra. Atrocitus, dalla cima della sua collina, fece altrettanto: i trombettieri si portarono lo strumento alle labbra e suonarono la carica da tutt’e due gli schieramenti.

Al segnale delle trombe, ciascun esercito si collegò in toto, al completo. Lo spaventevole rumore metallico della chiusura dei contatti echeggiò lungo il futuro campo di battaglia. Al posto di mille bombardieri e granatieri, guastatori e lancieri, cannonieri e cecchini, zappatori e assaltatori, c’erano solo due esseri giganteschi, che si guardavano con un milione di occhi, dalle due estremità di una pianura coperta di cumuli di nubi.

Il silenzio era assoluto. Il famoso culmine della coscienza predetto con matematica precisione da Gargantius era stato raggiunto da entrambi gli eserciti. Infatti, al di là di un certo livello di coscienza, il militarismo, che è un fenomeno puramente locale, lascia il posto a una mentalità totalmente civile, perché il cosmo stesso è per sua natura civile, e la mente dei due eserciti aveva assunto dimensioni davvero cosmiche! Così, anche se all’esterno brillavano ancora le corazze e il mortale acciaio dell’artiglieria, all’interno nasceva un oceano di buona volontà reciproca, di tolleranza, benevolenza e ragione. E così, l’una di fronte all’altra, mentre i tamburi continuavano a rullare e le armi scintillavano al sole, le due armate si sorrisero.

In quello stesso momento, Trurl e Klapaucius salivano a bordo dell’astronave, poiché il loro progetto era divenuto realtà: davanti agli occhi dei loro sovrani mortificati e infuriati, i due eserciti si erano allontanati, mano nella mano, per raccogliere fiori, sotto un cielo di nuvole simili a bioccoli bianchi, sul campo di una battaglia che non era mai avvenuta.

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