Non lontano da noi, attorno a un sole bianco che insegue una stella verde, abitavano i Ferrolini: un popolo giocondo, fecondo e senza un pensiero al mondo… né guerre nelle loro terre, né leggi né borseggi, né veti né influssi maligni dei pianeti, nessuna preoccupazione seria, di materia o d’antimateria — perché avevano una macchina che, più di una macchina, era un sogno con bielle e rotelle, con molle e ampolle, perfetto sotto qualunque aspetto.
E vivevano cori la loro macchina: vivevano di essa, sotto di essa e dentro di essa, e quella macchina era tutto ciò che possedevano: prima, per molto tempo, avevano risparmiato ogni atomo che riuscivano a guadagnare, poi li avevano riuniti insieme, e quando ce n’era uno che non entrava bene, ne grattavano via un pezzo e tutto andava a posto.
Ciascun Ferrolino aveva una sua piccola presa e una spîna per collegarsi a essa, ed era assolutamente indipendente dagli altri.
E anche se non potevano dare ordini alla loro macchina, neanche la macchina dava ordini a loro: i Ferrolini, semplicemente, vi si inserivano al loro posto. Alcuni erano meccanici, altri meccanicisti, altri ancora macchinisti o macchinatori, ma tutti erano istintivamente portati per la meccanica.
Talvolta avevano compiti importanti, perché dovevano fare notte, o giorno, o un’eclissi di sole — ma questo non succedeva molto spesso, perché, altrimenti, si sarebbero stancati di farlo. Un giorno, però, da dietro il sole bianco che inseguiva la stella verde, spuntò una cometa con la crestina sulla testa, ossia una cometa femmina, cattiva come il veleno e atomica dalla punta della fronte all’estremità delle sue quattro lunghe code, orribile a vedersi, tutta blu di cianuri e, guarda caso, con un gran puzzo di mandorle amare. Arrivò fino a loro e disse: «Per prima cosa, vi riduco in cenere, e questo è solo l’inizio».
Tutti i Ferrolini si girarono a guardarla. Videro che il fuoco dei suoi occhi riempiva di fumo una buona metà del cielo e notarono come raccogliesse neutroni e mesoni per i suoi cannoni, radiazioni dure e neutrini pure, ripetendo: «Zuppa del demonio, uranio e plutonio».
Ed essi risposero: «Un momento, prego, noi siamo i Ferrolini, e non abbiamo paura di nessuno, non abbiamo guerre nelle nostre terre, né leggi né borseggi, né veti né maligni influssi dei pianeti, nessuna preoccupazione seria, di materia o d’antimateria — perché abbiamo una macchina che è un sogno: un sogno di bielle e rotelle, molle e ampolle; perfetto sotto qualsiasi aspetto. Perciò, va’ via, signora Cometa, o te ne pentirai».
Ma la cometa aveva già riempito il cielo, e bruciava, arroventava, ruggiva, soffiava… in breve tempo, la Ferroluna — la luna dei Ferrolini — si rinsecchì da un corno all’altro, avvizzita dal calore insopportabile, e anche se era vecchia, un po’ butterata e già in partenza troppo piccola, ridurla in quello stato non era stata una bella azione.
Perciò, senza sprecare tante parole, i Ferrolini presero i loro campi di forza più intensi, li fissarono con un buon nodo alla punta dei due corni lunari, poi li lasciarono partire: beccati questo, brutta strega.
Lo spazio tuonò, tremò, gemette e si schiarì con un lampo, e della cometa rimase solo un mucchietto di cenere… e la pace tornò a regnare.
Dopo un indeterminato periodo di tempo, però, comparve una Cosa: nessun sapeva che cosa fosse; salvo che era orrenda, e da qualsiasi angolo la si guardasse, ancor più orrenda risultava.
Qualunque cosa fosse, era pesante in maniera inimmaginabile, ma si alzò in volo, sali sulla vetta più alta, vi si accomodò e non si mosse più. E, anche se non faceva niente, dava un grande fastidio.
Perciò, quelli che abitavano vicino al monte le dissero: «Scusa, ma noi siamo i Ferrolini, e non abbiamo paura di nessuno, non abitiamo su un pianeta ma dentro una macchina, e non è una macchina qualsiasi, ma un sogno: un sogno di bielle e rotelle, molle e ampolle, perfetto sotto qualsiasi aspetto, perciò vattene via, brutta Cosaccia, o te ne pentirai».
Ma la Cosa non si mosse.
Perciò, le mandarono uno spaventocottero, ma per non debordare troppo con le spese non lo scelsero molto grande, pensando che uno piccolo fosse sufficiente: si sarebbe recato dalla Cosa, le avrebbe messo in corpo un po’ di sano timore — quanto bastava per farla andare via — e la pace sarebbe tornata a regnare.
Lo spaventocottero partì, e il solo rumore che si poteva udire era il ronzio dei programmi che lo azionavano, uno più terrorizzante dell’altro. Si avvicinò alla vetta — e come sibilava, come soffiava! spaventò perfino se stesso, un pocolino — ma la Cosa rimase dov’era.
Per scrupolo professionale, lo spaventocottero fece un secondo tentativo, questa volta su una frequenza diversa, ma ormai l’insuccesso lo aveva demoralizzato, e non venne a capo di nulla.
I Ferrolini capirono che ci voleva ben altro. Dissero: «Prendiamo qualcosa di più grosso, idraulico, differenziale ed esponenziale, plastico e stocastico, e non di taglio minuscolo, ma che sia tutto un muscolo: non si lascerà spaventare, se avrà un’arma nucleare».
E così, detto fatto, lo mandarono: universale e reversibile, doppiamente rinforzato, con la retroazione in ciascuna sezione, tutti i sistemi accesi e i sensi protesi, e all’interno c’erano un meccanico e un macchinista, e non è tutto, perché, per maggiore sicurezza, sulla torretta avevano fissato anche uno spaventocottero.
Arrivò a destinazione, con un’andatura così ben oliata che si sarebbe sentito cadere un ago, mise in canna il proiettile e attaccò il conto alla rovescia: meno quattro, tre, due, uno, non ho più pietà per nessuno! Ta-pum! che botta! e guarda il fungo, come s’ingavotta! è radioattivo, scotta! L’olio sfrigolò sotto il calore, per lo spostamento d’aria i cingoli furono colti dal tremore; infine, il meccanico e il macchinista poterono nuovamente affacciarsi dal finestrino della vettura: com’era da prevedere, la Cosa non aveva neppure un’ammaccatura.
I Ferrolini tennero un consiglio di guerra, poi costruirono un meccanismo che a sua volta costruì un meta-meccanismo che a sua volta costruì un megalo-meccanismo tale che perfino le stelle più vicine si spaventarono e fecero qualche passo indietro. In mezzo a tutto c’era una macchina con ruote e assi, e nel centro della macchina un servospettro, perché questa volta i Ferrolini erano davvero decisi.
Il megalo-meccanismo raccolse tutta la sua forza e poi colpì.
Un grande rombo di tuono, un terremoto, un fungo così enorme che ci sarebbe voluto un intero oceano per farci la minestra di funghi, stridore di denti, notte, un buio così profondo che non si distingueva più una cosa dall’altra. I Ferrolini guardarono nella direzione del loro meccanismo… niente, solo rottami, a perdita d’occhio, e neppure un segno di vita.
A quel punto, i Ferrolini cominciarono davvero a rimboccarsi le maniche.
«Dopotutto» si dissero «siamo meccanici e macchinisti, e tutti istintivamente portati per la meccanica, e inoltre abbiamo una macchina, un sogno con bielle e rotelle, con molle e ampolle, perfetto sotto qualunque aspetto. Come fa, quella brutta Cosa, a starsene lassù senza lasciarsi smuovere?»
Questa volta, cambiando radicalmente tattica, prepararono nientemeno che un’enorme cespuglio-ramazza di cyberedera rampicante: con l’intenzione di farla salire quatta quatta, come se badasse solo ai propri affari, si guardasse attorno, si facesse un po’ più ardita, piantasse una radice o due, crescesse sotto e si spingesse in alto, senza fretta, per poi circondarla, una volta arrivata alla Cosa… e tutto sarebbe finito.
Ed effettivamente tutto andò come previsto, salvo il particolare che, alla conclusione, non era esatto dire che tutto fosse finito; niente affatto.
A quel punto i poveri Ferrolini piombarono nella disperazione. Non sapevano neppure che cosa pensare, perché non era mai successo niente di simile, e allora si mobilitarono e analizzarono, prepararono lacci e colle, stoppacci e molle, trappole e aggeggi per farla soffocare, per farla scivolare e schiattare… provarono di tutto, ma senza alcun costrutto.
Stavano già per arrendersi, quando finalmente videro… avvicinarsi qualcuno: un tale a cavallo, ma no, i cavalli non hanno le ruote — doveva essere una bicicletta, ma le biciclette non hanno la prua, e perciò doveva essere un razzo, a parte il fatto che i razzi non hanno la sella. Che cosa fosse lo strano veicolo non ve lo dico, ma sulla sella c’era un nostro vecchio amico: era Trurl medesimo, il costruttore, uscito a fare bisboccia, o forse impegnato in una delle sue famose fatiche. Sereno e sorridente, volò sempre più vicino… ma anche da lontano si capiva subito che non era una persona qualsiasi.
Si abbassò lentamente, e quelli — mentre scendeva — gli raccontarono l’intera storia: «Siamo i Ferrolini, e abbiamo una macchina, che più che una macchina è un sogno: un sogno con bielle e rotelle, con molle e ampolle, perfetto sotto qualunque aspetto. Abbiamo sempre risparmiato i nostri atomi e poi li abbiamo messi insieme, personalmente; vivevamo senza un pensiero al mondo… niente guerre nelle nostre terre, né leggi né borseggi, né veti né maligni influssi dei pianeti, finché non è arrivata una Cosa che si è installata sulla nostra vetta più alta e rifiuta di sloggiare».
«Avete provato a spaventarla?» chiese Trurl, con un sorriso gentile.
«Abbiamo provato con uno spaventocottero, un servospettro e un megalo-meccanismo, tutto idraulico e di grosso calibro, con i neutroni e i mesoni per i suoi cannoni, radiazioni dure e neutrini, pure, e protoni e fotoni, ma non è servito a niente».
«Non è una macchina, dite?»
«No, signore, non è una macchina».
«Mmm, interessante. E che cos’è, esattamente?» chiese Trurl.
«Non lo sappiamo» risposero. «E’ arrivata in volo, nessuno sa cosa sia, salvo che è orrenda, e da qualunque parte la guardi, è ancora più orrenda. E’ atterrata, pesa in modo inimmaginabile, e una volta che si è seduta lassù, non si è più mossa. Ma dà un fastidio terribile, anche se non fa niente».
«Be’, a dire il vero, non ho molto tempo» rispose Trurl. «Il massimo che posso fare è rimanere tra voi per un breve periodo, come consigliere. Vi va bene?»
Andava benissimo, ovviamente, e i Ferrolini gli chiesero che cosa gli occorresse: fotoni, succhielli, martelli, cannoni, o un po’ di dinamì di T.n.t.?
E il nostro ospite preferisce il caffè o il tè? Dal distributore automatico, naturalmente.
«Il caffè andrà bene» confermò Trurl «non per me, ma per il lavoro. Quanto al resto, non penso che mi serva. Vedete, se lo spaventocottero, il servo-spettro, la cyberedera arborea non sono serviti, significa che occorrono altri metodi: arcaistici, archivistici e legalistici, non arcadici, ma sadici. Non li ho mai visti fallire, quando c’è di mezzo un corrispettivo dovuto e pagabile in toto».
«Come sarebbe a dire?» chiesero i Ferrolini, ma Trurl era già lanciato e, invece di spiegarsi, continuò: «In realtà, è molto facile. Tutto ciò che mi occorre è carta e inchiostro, timbri e sigilli, ceralacca e puntine da disegno, carta assorbente, uno sportello aperto al pubblico con il vetro a saliscendi, un cucchiaino e un piattino — il caffè lo abbiamo già — e soprattutto un postino. E qualcosa per scrivere… l’avete?»
«Andiamo a prenderlo!» esclamarono i Ferrolini, e corsero via.
Trurl si accomodò su una sedia e cominciò a dettare:
«Il presente atto per notificare che, in rif. alle molestie conseguenti al
FATTO
occupazione abusiva, come definita all’Art. C. 117(e) comma 2 lettera b del C.c. E considerato che
DIRITTO
quanto precede è in chiara violazione del combinato disposto dal citato articolo e dal paragrafo 199, Tucc, e per la parte attinente alle molestie trattandosi di violazione penalmente perseguibile dietro querela di parte come da Art. 1213, comma 5, lettera e del Regol. d’Applicaz. Dl n. 21651/1212
SI INGIUNGE
entro il termine di giorni 3 dalla notifica del presente atto la terminazione, non ripetizione e piena cessazione di ogni abusava occupazione e delle conseguenti molestie ai denuncianti
IN FORZA
dell’Ordinanza 67 Dl n. 14J/1101 e successive modifiche.
Addì giorno 19 del mese 17 del c.a. Reg. ed esposti al n. 77 del Foglio Suppl. n. 301 dell’Albo Pretorio, notificato in pari data. Al Convenuto è data facoltà di presentare ricorso contro la presente Ingiunzione appellandosi al Presidente della locale Corte d’Assise mediante domanda motivata e firmata presentata con allegata richiesta di procedura d’urgenza entro il termine — tassativo — di 24 ore».
Trurl appose il bollo a ceralacca su tutt’e tre le copie, sigillò la prima, vi appiccicò il francobollo, vi unì, spillata, la seconda copia e infilò la terza in un apposito faldone su cui aveva scritto: «Occupazione Abusiva n. 000/000/001».
«E adesso» ordinò «chiamate il postino».
Il postino prese le due copie, e tutti attesero e attesero, finché non lo videro ritornare.
«Gliel’hai consegnata?» chiese Trurl.
«Sì».
«E ti ha firmato l’atto di notifica, sulla copia?»
Ecco qui la firma, in calce. E qui c’è il ricorso».
Trurl prese il ricorso e, senza leggerlo, ordinò di restituirlo al mittente. In diagonale, scrisse sull’ultima pagina: «Respinto. Non compilato conform. modello minister.»
«Al lavoro, adesso!» esclamò.
Si sedette al tavolino e cominciò a scrivere, mentre tutti lo guardavano senza capire e si chiedevano che cosa significasse tutta quell’attività.
«Documenti ufficiali» rispose Trurl. «E d’ora in poi andrà tutto bene, fatto il passo iniziale».
Per tutto il giorno, il postino fece la spola avanti e indietro, correndo come un indemoniato; Trurl registrò e certificò atti, emise circolari, batté a macchina senza sosta, e, poco alla volta, un intero ufficio prese forma attorno a lui, con timbri di gomma ed elastici, graffette e cestini per la carta straccia, raccoglitori e armadi a scomparti, fogli protocollo e fogli formato lettera, cucchiaini, cartelli che dicevano VIETATO L’INGRESSO, calamai, moduli raggruppati per modello, e non si cessava mai di scrivere; dovunque si posasse l’occhio c’erano macchie di caffè, cestini, limatura di gomma e bruciature di sigarette.
Dopo qualche tempo, i Ferrolini cominciarono a preoccuparsi, perché non capivano che cosa stesse succedendo; intanto, Trurl usava corrieri espresso in porto assegnato, raccomandate con ricevuta di ritorno e tassa a carico del destinatario — una serie infinita di lettere di sollecito, note di addebito, diffide, ingiunzioni — e si fece aprire un paio di conti correnti, che al momento non contenevano neppure un soldo, ma in futuro non si sa mai.
Infatti, dopo qualche tempo si poteva già notare che la Cosa non sembrava orribile come prima, specialmente di profilo, e che, effettivamente, si era un po’ rimpicciolita.
I Ferrolini chiesero a Trurl: «E adesso?»
«In questo ufficio non si fanno discorsi personali» rispose Trurl, e continuò a mettere timbri, a graffare fogli, a controllare permessi, a revocare concessioni, a mettere i puntini sulle i, a convocare giurì, a chiedere a chi tocca, spiacente, l’ufficio è chiuso ritornate tra un’ora, l’orario della mattina è terminato, il caffè s’è raffreddato, il latte si è cagliato, le ragnatele hanno coperto tutto l’ammezzato, dal cassetto della segretaria è saltato fuori un vecchio paio di calze di nailon tutto bucato, il nuovo armadietto per le pratiche è laggiù che va montato e questo è grave, c’era qualcuno che intendeva corrompere il magistrato, e c’erano una pila di problemi e un problema di pile, un mandato di esecuzione, con incarcerazione per illecita appropriazione, protocolli con decine di bolli.
E la macchina da scrivere proseguì:
«…perciò, non avendo l’Occupante, in osservanza dell’atto di precetto notificatogli, lasciato e riconsegnato gli immobili abusivamente detenuta, ’habere facias possessionem’, p. Ord. della Corte di Cassazione della Repubbl. Cybernet., che, ’in vacuo et ex nihilo’, dispone con la presente l’immediata evacuazione dei suddetti immobili.
La presente decisione non è appellabile».
Trurl inviò il messo e a tempo debito intascò la ricevuta. Poi si alzò e, con ordine, scagliò nello spazio interstellare le scrivanie, le sedie, i timbri, i sigilli, gli armadi porta-archivi e tutto il resto. Rimase soltanto la macchina del caffè.
«Che diavolo fai?» gli gridarono i Ferrolini, che ormai si erano abituati a vedere quell’ufficio.
«Come osi?»
«Sst, miei cari» rispose il costruttore. «Invece di lamentarvi, date un’occhiata!»
Infatti, i Ferrolini diedero un’occhiata e rimasero a bocca aperta… ehi, non c’era più niente, lassù, la Cosa era sparita, come se non ci fosse mai stata! Ma dov’era andata? Evaporata nell’aria?
La Cosa si era ritirata codardamente, ed era diventata così piccola, ma così piccola, che occorreva la lente per vederla.
I Ferrolini si radunarono attorno a essa ma poterono trovare soltanto una macchiolina un po’ umidiccia, come se fosse caduta una goccia, ma di che, o da chi, non si sapeva.
«Proprio come pensavo» riferì Trurl. «Fondamentalmente miei cari, l’impresa è stata abbastanza semplice: nel momento in cui ha accettato la prima comunicazione e ha firmato la ricevuta, la vostra creatura era finita. E questo perché ho usato una macchina speciale, la macchina che inizia per B: da quando esiste il Cosmo, nessuno è mai riuscito a sconfiggere la B maiuscola!»
«D’accordo, ma perché buttare via i documenti e tenere solo la macchina del caffè?»
«Perché non divorasse anche voi!» rispose Trurl. E volò via, sorridendo loro con gentilezza… e il suo sorriso brillava come una stella