LA STORIA DELLA SECONDA MACCHINA OVVERO IL BENEFATTORE DEL PIANETA

Accadde un giorno che il Grande Costruttore Trurl venisse convocato dal Re Tirapollici Terzo, sovrano di Tyrannia, il quale voleva imparare da lui come raggiungere la perfezione della mente e del corpo. Trurl gli rispose come segue:


Una volta atterrai sul pianeta Legaria e, come faccio sempre, mi fermai in un’osteria, deciso a restare nella mia stanza finché non avessi conosciuto meglio la storia e le abitudini dei Legariani. Era inverno, fuori soffiava il vento e nel buio edificio non c’era nessuno, finché, all’improvviso, non sentii bussare al portone.

Guardando fuori, vidi quattro figure incappucciate, che scaricavano da un automezzo blindato un mucchio di grosse valigie nere; poi gli incappucciati entrarono nell’albergo. L’indomani, verso mezzogiorno, dalla stanza vicina giunsero i suoni più strani: fischi, colpi di martello, ansimi, vetri rotti, e in mezzo a tutti quei rumori si levava una voce in chiave di basso profondo, che gridava senza interruzione: «Più svelti, figli della vendetta, più svelti! Versate gli elementi, muovete quel setaccio! Senza scuotere! L’imbuto, adesso! Riempite bene!

«Bene, e adesso fabbricatemi lo scampaschiuma, lo schivapinze, lo strizzafori, l’unità mnemonica edulcorata, quel maledetto figlio di un cacciavite che è andato a nascondersi codardamente nella fossa! Ma neppure la morte riuscirà a proteggerlo dalla nostra giusta collera! Passatemelo subito, con quel suo cervello svergognato e le sue gambette striminzite! E ora, tu con quelle pinze, pensiamo al naso! Di più, di più… dobbiamo poterlo afferrare bene, per l’esecuzione! E voi, forza sui mantici, miei fidi! Mettetelo nella morsa! E adesso piantate quei chiodi sulla sua faccia di bronzo! Una seconda fila, bene… Così… perfetto! Forza con quel martello! Uno-due, uno-due! E tirate quei nervi… non deve svenire troppo presto, come quello di ieri! Deve sorbire la nostra vendetta fino all’ultima sorsata, all’ultimo centello, all’ultimo zinzino! Uno-due! Ehi-ho, ehi-ho!»

La voce continuò a ruggire in questo modo, e le fecero eco i colpi di martello sull’incudine e il soffio dei mantici, finché non si udì un forte starnuto, e da quattro gole si levò un grido di trionfo. Subito dopo, sentii un breve trepestio, qualche sbuffo soffocato, rumore di colpi, e infine il cigolio di una porta che veniva aperta.

Guardando da una fessura della porta, vidi gli sconosciuti uscire dalla stanza e — anche se la cosa sembrava incredibile — adesso erano cinque!

Si avviarono tutti verso la scala e scesero in cantina: si chiusero a chiave e vi rimasero a lungo. Quando ne uscirono — solo in quattro — era ormai pomeriggio inoltrato e tutti avevano un’aria stanca ed erano silenziosi come se fossero stati a un funerale.

L’indomani, alla stessa ora, ossia verso mezzogiorno, i martelli ripresero a battere, i mantici a soffiare, e la voce terribile a gridare in chiave di basso: «Avanti, figli della vendetta! Più in fretta, miei elettrici fidi! Spalla alla ruota! Versate i protoni, gli ioni! E adesso coraggio, portiamo via quel maniaco dalle orecchie a sventola, quell’aspirante mago, quel maledetto miscredente e imbroglione incorreggibile, fatemelo prendere per il suo collo mal lavato e fatemelo portare, scalciante, a una morte certa e definitiva! Avanti con quei mantici, ho detto!»

E ancora una volta, alla fine di tutto, si udì un forte starnuto, ci fu un breve tafferuglio, e tutti lasciarono la stanza, in punta di piedi.

Nuovamente ne contai cinque, quando scesero, ma risalirono solo in quattro. Compresi che per risolvere il mistero dovevo recarmi laggiù: così, mi armai di pistola laser e, allo spuntar dell’alba, scesi in cantina, dove trovai soltanto qualche pezzo di metallo bruciacchiato e rotto; mi nascosi dietro un mucchio di paglia, mi sedetti nell’angolo più buio e aspettai che arrivassero i misteriosi personaggi.

E infatti, verso mezzogiorno, cominciai a sentire le grida e i colpi di martello, ormai familiari, poi, tutt’a un tratto, la porta si aprì e fecero il loro ingresso quattro persone, che ne trascinavano una quinta legata mani e piedi.

Quest’ultimo indossava un giustacuore di foggia antica, rosso vivo e con il collo di pizzo, e un berretto con la piuma; aveva la faccia tonda e il naso enorme, storceva la bocca per la paura e continuava a farfugliare parole incomprensibili.

I Legariani sbarrarono la porta e cominciarono a picchiarlo selvaggiamente, gridando, uno dopo l’altro: «Questo è per la Profezia della Felicità! E questo per la Perfezione dell’Essere! Beccati questo per il Letto di Rose, e questo per il Cesto di Ciliegie, per il Quadrifoglio dell’Esistenza! E questo per l’Elevazione dello Spirito!»

E lo colpivano con pugni e bastoni, con una tale forza che gli avrebbero certamente fatto rendere l’anima, se non avessi annunciato la mia presenza uscendo dalla paglia e puntando la pistola.

Quando ebbero lasciato libera la vittima, chiesi al quartetto perché punissero in quel modo un individuo che non pareva né un fuorilegge né un inutile vagabondo, almeno a giudicare dalla foggia e dal colore del suo vestito, che erano quelli di uno studioso.

I Legariani dondolarono prima su una gamba e poi sull’altra, lanciarono occhiate piene di desiderio alle loro armi, rimaste accanto alla porta, ma quando accesi la luce d’innesco e aggrottai la fronte, cambiarono idea e, scambiandosi qualche occhiata tra loro, chiesero al più grosso di tutti, quello con il vocione di basso, di parlare per loro. «Sappi, o straniero sconosciuto» disse quegli, girandosi verso di me «che non parli a comuni imbroglioni, delinquenti o banditi, o ad altre degenerazioni della specie dei robot, perché, anche se una cantina non parrebbe il luogo più adatto, quel che facciamo è l’opera più meritoria che si possa immaginare ed è anzi — non esito a dire — qualcosa di bello e santo!»

«Meritorio e santo?» esclamai. «Che cosa mi vai raccontando, o vile Legariano? Non ho visto con i miei occhi come vi siete lanciati sul vostro compagno dal farsetto rosso? E che gli avete assestato tali colpi che dalle vostre stesse articolazioni schizzava via l’olio? Osi chiamarla una cosa bella?»

«Se la Vostra Stimatissima Forestierezza continuerà a interrompere» rispose il Legariano dalla voce di basso «non verrà a sapere nulla, e perciò la invito cortesemente a tirare le redini della sua degnissima lingua e a domare l’irrequietezza del suo cavo orale, oppure dovrò trattenermi dal parlare.

«Sappia che davanti a sé ha i migliori fisici — cybernisti ed elettristici del primo ordine — miei allievi, brillanti e vigili, le migliori menti di Legaria, e io sono Vendetius Ultor d’Amentia, professore emerito di materie positive e negative ed enunciatore del Reincarnazionismo Onnigenerico, e ho dedicato la mia vita alla sacra opera della vendetta.

«Con l’aiuto di questi miei fedeli seguaci io ora vendico la vergogna e le sofferenze della mia gente su quell’escrescenza rossa e purulenta inginocchiata davanti a noi, un vile insetto chiamato — e che sia sempre maledetto il suo nome — Malapustio ovvero Malapusticus Pandemonius, che con l’inganno e la fellonia, con il furto e l’irreparabilità, ha portato l’infelicità fra i Legariani! Infatti, è stato lui a spingerli ad agire a loro detrimento e ad altre diavolerie, li ha scomposticcherati, rimbambineggiati e del tutto stramminchionati… poi si è surrettiziamente rifugiato nella tomba per evitare la punizione, convinto che nessun male potesse più raggiungerlo!»

«Non è vero, Vostra Sublime Visitatorietà! Non ho mai inteso… voglio dire, non avevo idea!…» gemette il nasuto facciatonda, dall’abbigliamento rubro, inginocchiato davanti a me. Io lo fissai, senza capire, mentre il basso intonava: «Gargomanticus, caro figliolo, scalcia il piagnone nelle troppo soffici terga!»

Il figliolo obbedì, con una tale velocità da far echeggiare la cantina. Mi affrettai a dire: «Fino al termine delle spiegazioni, calci e percosse sono assolutamente proibiti per l’autorità conferitami da questa pistola. Intanto, a lei la parola, professor Ultor, è pregato di continuare».

Il professore brontolò tra sé, fece per protestare, e infine disse: «Perché lei sappia come s’è verificata la nostra grande disgrazia e perché noi quattro, rinunciando alle cose del mondo, abbiamo fondato il Santo Ordine della Forgia della Resurrezione, consacrando il resto della nostra vita alla dolce vendetta, le riferirò la storia della nostra specie a partire dall’inizio della creazione…»

«E’ proprio necessario andare così indietro?» chiesi io, perché temevo che la mia mano s’indebolisse sotto il peso della pistola.

«Sì, Vostra Stranierezza! Ascolti… Ci sono leggende, come certo saprà, che parlano della razza dei visipallidi, i quali avrebbero creato in una provetta il genere dei robot, anche se — come sa chiunque abbia un po’ di buon senso — si tratta di una sciocca bugia.

«Infatti, all’inizio, non c’era che il Buio Informe, e nel Buio la Magneticità, che trascinava gli atomi di giro in giro. E un atomo, nel suo roteare, ne colpì un altro, e così nacque la Corrente, e la Prima Luce… la quale accese le stelle.

«Poi i pianeti si raffreddarono e nei loro nuclei l’afflato della Sacra Statistica diede origine ai Protomeccanoi, dai quali sorsero i Proteromeccanidi, che lasciarono posto ai Meccanismi Primitivi.

«Questi non sapevano ancora calcolare, faticavano a fare due più due, ma grazie all’Evoluzione e alla Sottrazione Naturale presto si moltiplicarono e generarono gli Omeostati, che generarono i Servostati — l’Anello Mancante — e da essi venne il nostro progenitore, l’«automatus sapiens».

«Dopo di lui vennero i robot delle caverne, i robot cacciatori-raccoglitori, e infine gli imperi robotici. L’elettricità per le loro necessità vitali, i Robot Antichi dovevano fabbricarsela a mano, per strofinìo, e questo era un lavoro vile, una fatica che ottundeva l’intelligenza. Ogni signore feudale aveva moltissimi cavalieri, e ogni cavaliere molti vassalli: anche lo strofinìo era feudale, ossia gerarchico, e andava dai più bassi ai più alti in grado.

«Questo lavoro manuale venne sostituito dalla macchina quando Ylem Symphiliac inventò lo strofinatore elettrostatico e Wolfram di Coulomb il parafulmine senza strofinìo.

«Così ebbe inizio l’Era della Batteria, epoca molto difficile per chi non possedesse un proprio accumulatore, dato che in una giornata serena, senza alcuna nube a cui attingere, dovevano sparagnare ogni frazione di watt e tenersela cara, e strofinarsi in continuazione per non perdere del tutto la carica.

«A quel punto comparve uno studioso, un infernale intellettricista e, come se non bastasse, esperto di efficienza, al quale, da bambino — senza dubbio per qualche intervento diabolico — nessuno aveva mai rincalcato la testa, e cominciò a insegnare che il tradizionale metodo di collegamento elettrico — ossia in parallelo — non aveva alcun valore, e che tutti avrebbero dovuto collegarsi come previsto dal nuovo, rivoluzionario piano da lui escogitato, ossia in serie.

«In serie, infatti, quando il primo della fila strofina, gli altri vengono immediatamente riforniti di corrente, anche a grande distanza, finché ogni robot ribolle letteralmente di volt.

«Ci mostrò i disegni da lui fatti, e ci ritrasse un tale paradiso da indurci a staccare i vecchi circuiti, che erano uguali e indipendenti, e a mettere in opera il suo, quello di Malapusticus Pandemonius».

Così dicendo, il professore picchiò parecchie volte la testa contro il muro, strabuzzò gli occhi e infine riprese a parlare. Ora capivo perché la superficie della sua fronte fosse tanto irregolare e butterata.

«Accadde così che un robot su due dicesse: ’Perché dovrei essere io a strofinare, se basta che lo faccia il mio vicino, e il risultato non cambia?’ E il suo vicino fece come lui, e la caduta di tensione divenne così grave che dovettero mettere, dietro ogni gruppetto, uno speciale caposquadra, e un controllore dietro di lui.

«Poi saltò fuori tiri discepolo di Malapustio — un certo Clustico il Confuso — e disse che ciascuno doveva strofinare non se stesso, ma il proprio vicino, e dopo di lui venne Tontus Altruistus con il suo programma di sadomasoflagellazione, e dopo ancora Magrundo Sputti che propose l’obbligatorietà del salone di massaggio, e dopo di questi comparve un nuovo teorico, Arsus Gargarsus, il quale sosteneva che le nubi dovevano essere accarezzate delicatamente — anziché punte con i parafulmini legati ai palloni — perché così avrebbero ceduto con maggiore grazia la loro carica, e dopo di questi vennero Moscio di Leydonia e Scrofole Thermafrodyne, sostenitori dell’installazione di autoconfricatori, detti anche titillatori o gabbagriglie, e infine Bestio Phystobufficus, che invece dello strofinìo suggerì una buona strigliata… con il bastone.

«Simili divergenze di opinione produssero grandi attriti, che portarono a ogni sorta di anatemi e di scomuniche reciproche, le quali, a loro volta, portarono alla bestemmia e all’eresia, e andò a finire che Faradayco Sterchi, Principe ed Erede al Trono di Allega, venne preso a calci dove non batte il sole, e scoppiò la guerra tra la Bronzea Alleanza Legaritica e l’impero Saldato a Freddo.

«Le ostilità durarono trentotto anni, poi altri dodici, perché verso la fine non si riusciva a capire, in mezzo a tutte quelle macerie, chi avesse vinto, perciò litigarono e ripresero a combattere. Così, il caos regnò e la carneficina divenne sempre più grande, si ebbe un tremendo abbassamento del voltaggio vitale, dappertutto regnavano campi magnetici parassiti e dissipazione chimica, ovvero, come lo chiamava il popolino, condizioni di ’malapustiamento completo’… e tutto questo era stato causato da quel diavolo e dalle sue cosiddette ’idee luminose’, che siano maledette!»

«L’ho fatto con le migliori intenzioni! Lo giuro, Vostra Laserità! Non ho mai pensato ad altro che al benessere generale!» piagnucolò Malapustio, che era ancora inginocchiato (il suo naso fuori del comune tremava tutto). Ma il professore lo allontanò con una gomitata e continuò: «Tutto questo ha avuto luogo 225 anni fa. Come forse avrai già capito, ben prima della Grande Guerra Legariana, prima dell’impoverimento generale, Malapusticus Pandemonius, dopo aver pubblicato un’infinità di trattati poderosi, in ognuno dei quali propagandava le sue vili, perniciose fumisterie, se ne mori bel bello, sereno, sicuro di sé, imperturbabile fino all’ultimo dei suoi giorni.

«Anzi, era così tronfio e soddisfatto di sé, che nelle sue ultime volontà scrisse di aspettarsi di venire nominato ’Supremo Benefattore di Legaria’.

«Comunque, quando arrivò il momento della punizione, non c’era nessuno da punire, nessuno da far pagare, nessuno che si potesse arrostire un po’, legato a uno spiedo.

«Ma io, o Illustre Intruso, dopo aver formulato la Teoria della Facsimilizzazione Generale, ho studiato le opere di Malapustio fino a estrarre il suo algoritmo, che — una volta infilato in una macchina duplicatrice di atomi — poteva ricreare «ex atoms oriundum gemellum», identico a lui fino al grado n, ossia Malapusticus Pandemonius in persona.

«Così, ogni giorno, noi ci riuniamo in questa cantina per infliggergli la pena che gli spetta, e quando è ritornato nella tomba, ricominciamo, per vendicare di nuovo la nostra gente, e così faremo per tutta l’eternità, amen!»

Inorridito, risposi, balbettando: «Professore, deve esservi dato di volta il cervello, se pensate anche per un solo minuto che questa persona — una persona innocente come una valvola appena uscita di fabbrica — che voi ricostruite dagli atomi che lo costituiscono, ogni giorno, debba rispondere degli atti, quali che siano, di un’altra persona che è morta tre secoli fa!»

E il professore rispose: «Allora, chi è questo proboscidato fifone che dice di chiamarsi Malapusticus Pandemonius? Dimmi, come ti chiami, ruggine cosmica?»

«Ma… Mala… Malapustio, Vostra Spietatezza…» balbettò in tono nasale il miserando.

«Comunque, non è «lo stesso» Malapustio» ripetei io.

«Come sarebbe a dire, non è lo stesso?»

«Non ha detto, professore, che Malapustio è morto?»

«Ma noi lo abbiamo fatto risorgere» protestò lui.

«Un sosia, un doppio, una copia esatta, ma non il medesimo, l’originale!»

«Me lo dimostri, signor Sapiente!»

«Non ho bisogno di dimostrare nulla» risposi io «dato che ho in mano questo laser. Inoltre, so benissimo, caro professore, che il tentativo di dimostrare quello che mi chiedi sarebbe una follia, perché la non-identicità dell’identicizzata «recreatio ex atomis individui modo algorytmico» non è altro che il famoso Paradosso Antinomico del Labirinto Lemiano, ben descritto nelle opere di quel famoso robofilosofo che ha il soprannome di Advocatus Laboratoris.

«Perciò — conclusi — senza prove, liberate subito il nasone, e non osate molestare ulteriormente la sua persona!»

«Mille grazie, Vostra Magnanimità!» esclamò il rossoabbigliato, levandosi da terra. «Il caso vuole che abbia, proprio qui — aggiunse, toccandosi la tasca del farsetto — una formula completamente nuova e inedita, questa volta assolutamente a prova di errore, che permetterà ai Legariani di raggiungere lo stato di beatitudine perfetta. Funziona sfruttando l’accoppiamento di schiena, ossia, un aggancio al contrario, schiena contro schiena, a due a due, e non in serie, che era soltanto il risultato di un errore di calcolo, sfuggitomi durante i miei studi di trecento anni fa! Vado immediatamente a trasformare in radiosa realtà questa mia nuova, mirabile scoperta!»

E infatti aveva già la mano sulla maniglia, mentre noi tutti lo guardavamo a occhi sgranati, ammutoliti per la sorpresa.

Abbassai la pistola e, distogliendo gli occhi da tutti, ormai privo di qualsiasi velleità, dissi al professore: «Ritiro ogni obiezione… Fate il vostro dovere…»

Con un sordo ruggito, tutt’e quattro si lanciarono contro Malapustio, lo scagliarono a terra e cominciarono a occuparsi di lui… finché non ne rimase neppure un pezzetto.

Poi, ancora ansimanti, s’infilarono il mantello, sollevarono il cappuccio, mi rivolsero un rigido inchino e uscirono in fila indiana dalla cantina; io rimasi solo, con la pistola laser che si faceva sempre più pesante, la mano che tremava, l’animo colmo di sgomento, il cuore stretto dalla malinconia.


Così Trurl terminò il racconto destinato a far riflettere il Re Tirapollici di Tyrannia, che lo aveva chiamato per imparare da lui la perfezione. Tuttavia, quando il Re gli chiese ulteriori spiegazioni su come raggiungere la perfezione non lineare, Trurl rispose come segue.


Una volta che mi trovavo casualmente sul pianeta Ninnica, potei vedere i risultati del progresso propugnato dal principio perfezionista.

I Ninnicani s’erano dati, molto tempo addietro, un altro nome: Hedophagoi o Giubilo-divoratori, ridotto poi semplicemente a «Giubilatori», e al mio arrivo erano nella loro epoca di massimo benessere.

Ciascun Ninnicano — anzi, Giubilatore — abitava in un palazzo costruito per lui dai suoi autonomatici (così chiamavano i loro schiavi triboluminescenti), veniva unto di essenze profumate, coperto di catene ingemmate, elettricamente massaggiato, impeccabilmente abbigliato, impomatato, pettinato, d’incenso fumigato, di tesori inondato, e rallegrato da piaceri, marmoree sale, squilli di tromba, balli… e nonostante tutto questo, era stranamente insoddisfatto e depresso.

Eppure, avevano tutto quel che si potrebbe desiderare! Su quel pianeta, nessuno aveva mai bisogno di alzare un dito: invece di fare una passeggiata, di bere una sorsata, di farsi una dormita o di intrattenersi con la compagna della propria vita, c’era un passeggiatore che ti faceva passeggiare, un dormitore che ti faceva sognare, un coniugatore che ti faceva accoppiare, e così via, ed era perfino impossibile tirare il fiato per un momento, perché c’era un apparecchio anche per quello.

Così, servito e sostituito da macchine in ogni modo immaginabile, ornato e lucidato da appositi Decoratori e Auto-Colf da cinque a quindici volte al minuto, coperto di un argenteo, fremente sciame di meccanicoli e di macchinetterie appositamente prodotte per rallegrarlo, cullarlo, sussurrargli all’orecchio delicate sciocchezzuole, massaggiargli la schiena, solleticarlo sotto il mento, mettersi sotto i suoi piedi per dargli l’impressione di essere un trionfatore, e continuare a baciare senza sosta tutto quel che porgeva da essere baciato… così il normale Giubilatore (o Hedophago o Ninnicano) traeva nell’ozio i suoi giorni, solo, mentre in lontananza, lungo tutto l’orizzonte, lavoravano le grandi Manufabbriche, che sfornavano in continuazione troni dorati, collane ornate di gemme, pantofoline di perle, manti d’ermellino, scettri, spalline da uniformi di gala, clavicembali e spinette, carrozze e un milione di manufatti e gratifatti destinati a procurare piacere.

Mentre camminavi lungo la strada, dovevi continuamente allontanare macchine senza padrone che ti offrivano i loro servigi; per cacciar via le più sfacciate occorreva colpirle sulla testa, tanta era la loro ansia di essere utili. Alla fine, per allontanarmi dalla loro folla, mi rifugiai tra i monti… e vidi una legione di macchinette dorate brulicare davanti all’imboccatura di una caverna, sbarrata da un muretto di pietra, e attraverso una fessura scorsi gli occhi accesi di un Ninnicano, che evidentemente tentava un’ultima resistenza contro la Felicità Universale.

Nel vedermi, le macchine cominciarono immediatamente ad accalcarsi attorno a me, a raccontarmi favole, a massaggiarmi e a baciarmi le mani, a promettermi un regno, ma per fortuna venni salvato dall’occupante della caverna, che spostò una pietra e mi lasciò entrare.

Era semi-arrugginito, ma lieto della sua condizione di povertà, e mi disse di essere l’ultimo filosofo di Ninnica. Naturalmente, non aveva bisogno di spiegarmi che l’abbondanza, quando era eccessiva, era peggio della privazione, perché — ovviamente — che cosa restava da fare, a una persona, quando poteva avere tutto quello che voleva? E una mente assediata da un mare di paradisi, confusa da una pletora di possibilità, costantemente in un blando stupore causato dalla soddisfazione immediata di ogni capriccio… Come poteva prendere una qualsiasi decisione?

Conversai con quel saggio individuo, che si chiamava Trizivio Hunco, ed egli concluse che se la gente non fosse stata salvata dall’invadenza di quelle macchine e se non fosse comparso qualche Complicatore-Imperfezionatore Ontologico, la fine sarebbe stata inevitabile.

Trizivio — evidentemente colpito dalla monotonia delle vite dei suoi compatrioti — considerava da qualche tempo la Complicazione come la massima soluzione esistenziale; io, però; gli mostrai l’errore della sua posizione, perché il suo sistema per riottenerla si basava semplicemente sull’eliminazione delle macchine a opera di altre macchine, in particolare rosicchieri, mazzatori, tentenaghe, frangigriglia, trincialastra e foratutto. Questo, ovviamente, sarebbe servito unicamente a peggiorare le cose: invece di complicare la realtà, avrebbe sortito l’effetto opposto. Come tutti sanno, la Storia è irreversibile, ed è impossibile ritornare al passato aureo, tranne che nei sogni e nelle fantasticherie.

Così, scelse l’Imperfezione come obiettivo a cui tendere, nella convinzione che essa finisse inevitabilmente per ridare la Complicazione alle vite dei poveri abitanti dei pianeti, oggi instradate in una sola direzione: quella del piacere. E quando decise di passare all’azione, insieme attraversammo la pianura disabitata, immersi fino al ginocchio in dobloni e ducati d’oro prodotti — nel tentativo di rendersi utili — dalle macchine disoccupate.

Dovevamo continuamente ricorrere al bastone per allontanare gli sciami di pestilenziali meccanismi beatificatori, e presto cominciammo a vedere una grande quantità di Ninnicani-Giubilatori sdraiati a terra: erano fuggiti dalle loro case per trovare pace nel deserto, ma erano stati raggiunti dalle macchine e ora gemevano piano, privi di sensi, sazi, soddisfatti, sovrasaturi di piacere; la vista di una tale esagerazione, di un successo così spietato, avrebbe destato pietà in chiunque.

Poi incontrammo gli abitanti delle ville automatizzate — l’antica cintura residenziale, attorno alla città — che si gettavano assurdamente nel cybercatch e in altre elettro-eccentricità: alcuni mettevano una macchina contro l’altra, altri spaccavano suppellettili preziose, perché non potevano più sopportare lo sfoggio di lusso, altri facevano il tiro al bersaglio con smeraldi e diamanti, spezzavano con l’accetta orecchini e diademi, o cercavano di sfuggire alla felicità riparando in cantina o in soffitta, ordinavano alle macchine di colpirli a frustate, o tutte queste cose insieme (o una dopo l’altra). Ma nessuna di queste misure riusciva sia pur minimamente a intaccare la schiera dei macchinari edonistici; come ben sapevamo, quei Ninnicani erano destinati a morire fino all’ultimo, accuditi e assistiti fino alla tomba.

Io avevo sconsigliato a Trizivio la semplicistica soluzione di chiudere le Manufabbriche, perché avere troppo poco — l’eccesso di Imperfezione — è altrettanto pericoloso quanto avere troppo, ma lui (che, come i suoi compatrioti, optava istintivamente per le soluzioni radicali anziché per quelle moderate), invece di analizzare tutte le conseguenze ontologiche di una Complicazione eccessiva, cominciò immediatamente a far saltare in aria le fabbriche con la dinamite.

Fu un grave errore, perché in seguito provocò una grande povertà, anche se — a dire il vero — egli non arrivò mai a vederla. Infatti, durante il tragitto da una fabbrica all’altra, un branco di autosatiri piombò su di lui, approfittando di un suo momento di distrazione: Trizivio venne afferrato da linguiformi e libidinatori che lo trascinarono via con loro.

Portato in un «vezzeggiatorium», venne stordito da tentennatori, solleticato, carezzato e lucidato a pomice fino a fargli scordare quel che si era proposto di fare, e anche la sua forte fibra dovette cedere. Dopo un ultimo grido di «Allo stupro!» giacque senza vita nel deserto, in mezzo alle monete d’oro, con la copertura metallica ormai totalmente consumata dagli assalti della passione meccanica.


«E questa, Vostra Altezza, fu la fine di una persona che era molto saggia, ma che sarebbe potuta esserlo ancora di più!» concluse Trurl; poi, vedendo che non era riuscito a convincere Re Tirapollici, aggiunse: «Che cosa desidera, in realtà, Vostra Altezza?»

«O Costruttore!» rispose Tirapollici. «Tu dici che le tue storie hanno lo scopo di migliorare la mente, ma io non trovo che sia così. Sono divertenti, però, e desidero che tu me ne racconti altre, e che non ti fermi mai».

«O Re!» rispose Trurl. «Tu vuoi imparare da me cosa sia la perfezione, e come la si possa raggiungere, ma non afferri i significati profondi e le grandi verità di cui abbondano le mie storie. In realtà, cerchi il divertimento, più che la saggezza… tuttavia, mentre ascolti, le mie parole ti penetrano lentamente nel cervello e in futuro finiranno anche per agire su di esso, come una sorta di bomba a orologeria. A questo fine, concedimi di narrarti una storia che è complessa, inconsueta e vera — o quasi — ma che può dare qualche buon suggerimento anche ai tuoi consiglieri.

«Ascoltate dunque, nobili signori, la storia di Zipperio, Re dei Partigani, dei Deutoni e dei Profigoti, che la concupiscenza portò alla rovina!»


Zipperio apparteneva alla grande casa di Tup, che era divisa in due rami: i Tuppi Destrogiri, che avevano il potere, e i Tuppi Levogiri — detti anche i Tuppi della Mano Sinistra ovvero i Tuppi Antiorari — che non lo avevano, e che di conseguenza odiavano i loro regali cugini. Il padre, Calcijone, si era unito morganaticamente a una lavoratrice comune, un’addetta a una pompa manuale, e così Zipperio aveva ereditato, dalla parte materna, una tendenza a farsi salire la pressione, e dalla parte paterna un temperamento lussurioso e una natura capricciosa.

Conoscendo i suoi difetti, i nemici del trono, gli Isomeri Sinistri, studiarono un sistema per distruggerlo facendo leva sulle sue tendenze lussuriose.

Così, gli mandarono un cybermedico chiamato Subtilio, esperto d’ingegneria mentale; Zipperio lo prese immediatamente in simpatia e lo nominò Grande Taumaturgo e Apotecario del Trono.

L’astuto Subtilio inventò parecchi sistemi per soddisfare i desideri sfrenati di Zipperio nella segreta speranza di indebolirlo al punto di farlo ammalare. Gli costruì un erotodromo e un debosciatorio, ma la ferrea costituzione del Re riuscì a fargli superare, indenne, tutte quelle depravazioni.

Questo finché gli Isomeri Sinistri, presi dall’impazienza, non ordinarono al loro agente di fare ricorso a tutta la sua astuzia e di mirare senza indugio allo scopo desiderato.

«Volete» chiese loro il cyber-internista, durante un abboccamento segreto nei sotterranei del castello, «che metta in corto circuito il Re o che gli smagnetizzi la memoria per renderlo un idiota?»

«Assolutamente no!» risposero quelli. «In nessun modo si deve poter collegare il nostro nome alla morte del Re. Zipperio deve morire vittima dei suoi desideri illeciti, distrutto dalle sue passioni peccaminose… non da noi!»

«Bene» rispose Subtilio. «Costruirò una trappola. La riempirò di sogni e metterò come esca una tentazione fortissima, a cui non saprà sfuggire. Per soddisfarla, si tufferà volontariamente in qualche folle fantasia, affonderà nei sogni nascosti all’interno dei sogni, e vi si troverà così invischiato che non potrà più fare ritorno alla realtà, se non da morto!»

«Benissimo» risposero quelli «ma non vantarti troppo, o cybernista, perché a noi servono fatti, non parole: Zipperio deve diventare un auto-regicida, ossia il proprio assassino!»

Così, Subtilio il Cybernista si mise all’opera e per l’intero anno da lui impiegato ad allestire il suo orribile piano continuò a chiedere al tesoro reale una crescente quantità d’oro, rame, platino, e un’infinità di pietre preziose, e tutte le volte che Zipperio protestava, si giustificava dicendo che stava costruendo una macchina per lui: una macchina che nessun monarca aveva mai posseduto!

Quando l’anno fu trascorso, tre enormi armadi vennero prelevati dal laboratorio del Cybernista e portati in gran pompa nel corridoio, davanti alle stanze personali del Re, perché non passavano per la porta. Sentendo il chiasso e i rumori dei facchini, Zipperio uscì dalle sue stanze e vide lungo la parete, imponenti e massicci, i tre armadi, alti quattro cubiti, larghi due e coperti di gemme.

Il primo, detto anche Armadio Bianco, era di madreperla con intarsi di albite, il secondo era nero come la notte, e ornato di agate e morioni, mentre il terzo era tutto rosso, coperto di rubini e di spinello rosa. Ciascuno poggiava su robuste gambe di acciaio inossidabile, decorate con sculture in oro raffiguranti grifoni alati, e conteneva un grosso cervello elettronico pieno di sogni: sogni che si sognavano da soli, senza bisogno di un sognatore che li sognasse.

Re Zipperio, assai stupito da quella spiegazione, esclamò: «E a che cosa servono, Subtilio? Armadi per sognare? A che pro? Che cosa me ne faccio? E come puoi dire che sognino davvero?»

Subtilio, inchinandosi umilmente davanti a lui, gli mostrò le file di prese che si scorgevano all’esterno degli armadi. Accanto a ciascuna coppia di fori c’era una piccola piastrina di madreperla con una breve descrizione; il Re, sempre più stupito, lesse:

«Sogno di guerra con castelli e principesse

Sogno d’erbaluce

Sogno di Fate, Ninfe e Filtro di Strega

Il meraviglioso materasso della Principessa Rimbalzina

Il Vecchio Soldato, ovvero il Cannone che non Sparava Più

Salto Erotico, ovvero la Ginnastica dell’Amore

I piaceri dell’ottuplice abbraccio di Paulina Ottomani

Perpetuum Amorobile

Mangiucchiare ritagli di piombo alla luce della Luna Piena

Colazione con Vergini e Musiche

Lo infila nel Sole per tenerlo al calduccio

La prima notte della Principessa Ineffabella

Sogno di gatti

Sogno di sete e pizzi

Sogno di quello che sai

Fichi senza foglie e altri frutti proibiti

Pruni pruriginosi

Come nacque il figlio dello Sporcaccione

Diavoli e Driadi si svagano prima della Sveglia, con crostini

Monna Lisa, ovvero il Labirinto della Dolcezza Infinita».

Il Re osservò il secondo armadio e lesse, sotto la duplice intestazione SOGNI E DIVERTIMENTI:

Cadaveri e Corsetti

Trottole e Bitte

Il Bastone del Critico

Spingi il Primo

Fracciami il Pizzo

Pannello e Ventilatore

Cybercroquet

Gamberobotico

Carte e Go-kart

Sogno del Cavaliere Alacrito e della bella Ramolda, figlia di Heteronio

Batti la Pinna

Volta la Pastorella

La Ruota e il Condannato

Il Boia, ovvero grida al taglio

Volta la Pastorella Bis

Cyclodoro e la Scatola Misteriosa

Cecilia e il Cyborg al Cianuro

Cyber-azione

Gara nell’Harem

Poker di Bastoni».

Subtilio, l’ingegnere mentale, spiegò rapidamente che ciascun sogno sognava se stesso, totalmente da solo, finché qualcuno non si collegava con esso e non appena inserita la spina — la mostrò al Re: era una piccola spina in fondo a una catena — in uno dei fori, si veniva immediatamente collegati con l’armadio, tanto profondamente che non c’era più differenza tra il sogno e la realtà.

Zipperio, interessato, prese la catena e immediatamente si collegò con l’Armadio Bianco, proprio dove la targhetta diceva: «Colazione con Vergini e Musiche»… e si sentì spuntare sulla schiena una fila di spine appuntite e due immense ali, sentì mani e piedi allungarsi fino a divenire zampe con lunghi artigli, e la sua bocca — che adesso aveva sei file di zanne — eruttava fuoco e fumi di zolfo.

Stupito oltre ogni dire, il Re trasse bruscamente il fiato, ma invece di un normale ansimo, dalla sua gola uscì un ruggito come quello del tuono, che scosse la terra. Questo lo stupì ancora di più; istintivamente, sgranò gli occhi e vide, nell’oscurità illuminata dal suo respiro di fiamma, che i servitori gli portavano, reggendole sulle spalle, vergini su vassoi da portata — quattro per vassoio — con contorno di verdure e con un così buon profumino da fargli venire immediatamente l’acquolina.

Il tavolo venne apparecchiato in pochi istanti — qui il sale, lì il pepe — e Zipperio-drago si leccò le labbra, si mise comodo e, a una a una, se le infilò in bocca come noccioline, sgranocchiandole e ruttando allegramente; l’ultima vergine, poi, era così tonda, così succulenta, che Zipperio schioccò le labbra e stava già per chiedere una seconda razione, quando tutto tremò davanti al suoi occhi ed egli si svegliò.

Si guardò attorno: era fermo, come prima, nel corridoio che portava alle sue stanze personali. Accanto a lui c’era Subtilio, Grande Taumaturgo e Apotecario, e davanti a loro gli armadi dei sogni, scintillanti di gemme preziose. «Com’erano le vergini?» chiese Subtilio. «Non male, ma dov’era la musica?»

«Il carillon si è bloccato» spiegò il Cybernista. «Vostra Altezza Reale vuole provare con un altro sogno?»

Certo, ma da un altro armadio, questa volta. Il Re si portò davanti a quello nero e si collegò al sogno chiamato «Sogno del Cavaliere Alacrito e della Bella Ramolda, figlia di Heteronio».

Batté gli occhi per la sorpresa, e vide che era tornato davvero all’epoca dei cavalieri elettrici erranti. Tutto rivestito d’acciaio, si trovava in un bel prato di montagna, una radura in mezzo agli alberi, e aveva ai suoi piedi un drago appena ucciso.

Le fronde stormivano, Zefiro soffiava dolcemente, una fonte cristallina gorgogliava poco lontano. Quando si inginocchiò sull’acqua, vide nell’immagine riflessa di essere nientemeno che Alacrito, un cavaliere del più alto voltaggio, un eroe senza pari.

La storia della sua vita gloriosa era incisa, sotto forma di cicatrici di battaglia, sulla sua intera persona, e Zipperio la ricordava tutta, come se quei ricordi fossero i suoi. L’ammaccatura sulla visiera dell’elmetto gli era stata fatta dal pugno, guantato di maglia, di Morbidor nell’agonia della morte, dopo ch’egli lo aveva sconfitto con l’abituale rapidità; le lacerazioni visibili nella maglia dello schiniero destro erano opera del defunto Ser Mazzapicchio de Blu; i rivetti mancanti sul manichino sinistro li aveva rosicchiati Odolmo l’Odioso prima di rendere l’anima; il cimiero era stato forato da Gorgobrasto Scroccaruli prima di cadere.

Analogamente, anche spallacci, corazza, resta, cosciali, panziera, tutti portavano i segni della battaglia. Il suo scudo era graffiato e ammaccato da innumerevoli colpi, ma lo schienale del gabbione era lucido e polito come se fosse fresco di fabbrica, perché mai — mai — egli aveva voltato la schiena al nemico per fuggire!

Quel tipo di gloria non diceva granché a Zipperio, ma a un tratto gli venne in mente la bella Ramolda: a quel pensiero, balzò sul suo super-destriero e cominciò a viaggiare in lungo e in largo per tutto il sogno, alla ricerca della bella Principessa.

Infine arrivò al castello del padre, il Duca Heteronio; le assi del ponte levatoio echeggiarono come rombi di tuono sotto il passo del cavaliere e del cavallo, e il Duca stesso venne ad accoglierlo a braccia aperte.

Era ansioso di vedere la sua Ramolda, ma l’etichetta gli imponeva di frenare l’impazienza: intanto, il vecchio Duca gli riferì che era giunto al castello anche un secondo cavaliere, un certo Micranio, della casa dei Polimeri, maestro spadaccino e temibile elasticista, il cui unico sogno era quello di misurarsi con lo stesso Alacrito.

Ora fu Micranio stesso, agile e scattante, a farsi avanti con queste parole: «Sappi, o Cavaliere. che anch’io amo Ramolda dalla linea aerodinamica, Ramolda dalle cosce idrauliche, il cui busto non teme punta di trapano diamantata, i cui occhi limpidi sono due magneti! E’ la tua promessa sposa, certo, ma ascoltami bene: ti sfido a mortal duello, giacché uno solo di noi può ottenere la sua mano». E gli gettò il suo guanto, bianco di polimeri.

«Il matrimonio avrà luogo subito dopo la giostra» aggiunse il Duca-padre.

«Benissimo» rispose Alacrito, ma, dentro di sé, Zipperio pensò: «Chi se ne frega. Posso averla dopo il matrimonio e poi svegliarmi. Ma chi ha mai chiesto di avere tra i piedi quel rompiscatole di Micranio?»

«Quest’oggi stesso, o coraggioso cavaliere» disse Heteronio «incontrerai Micranio di Polimera sul terreno di battaglia e combatterai con lui alla luce delle torce. Per ora, va’ in ritiro nei tuoi appartamenti e ristora le tue forze!»

Zipperio, all’interno di Alacrito, era un po’ sulle spine, ma cosa poteva fare? Si recò nella sua stanza e dopo qualche tempo sentì bussare furtivamente alla porta; una vecchia cyberstrega entrò in punta di piedi, gli strizzò l’occhio cisposo e disse: «Non temere, o Cavaliere, perché avrai la bella Ramolda! In verità, oggi stesso ti stringerà al suo petto d’alabastro! Di te solo sogna, giorno e notte! Ricordati soltanto di attaccare con forza e con foga, perché Micranio non può ferirti; la vittoria sarà tua!»

«Facile a dirsi, mia cybervecchia» rispose il cavaliere. «Ma tutto può capitare. Per esempio, che cosa succederebbe se inciampassi o se non riuscissi a parare in tempo? No, è troppo rischioso! O forse tu hai un amuleto che mi proteggerà?»

«Eh-eh!» rise la cybervecchia. «Che cosa dici mai, cavaliere d’acciaio! Non ci sono amuleti come quello che tu citi, né te ne servirebbero, perché io so quello che succederà e ti predico che vincerai senza problemi!»

«Comunque, preferirei un amuleto, soprattutto in un sogno come questo» disse il cavaliere «ma ascolta, ti ha forse mandato Subtilio, per darmi sicurezza?»

«Non conosco nessun Subtilio» disse la vecchia, «né so perché parli di sogno. No, questa è la realtà, mio signore

tutto d’acciaio, e lo capirai anche tu, quando la bella Ramolda ti porgerà le sue labbra elettriche da baciare!» «Strano» mormorò Zipperio, senza notare che la vecchia aveva lasciato la stanza, furtiva come era entrata. ’E’ un sogno o non lo è? Avevo l’impressione che lo fosse. Ma la vecchia ha detto che è la realtà. Uhm. Be’, in ogni caso, meglio stare doppiamente in guardia».

Poco dopo, si levò uno squillo di tromba e dalla porta giunse uno sferragliare di armature: tutti i corridoi si riempirono di armati, in attesa che lui uscisse.

Alacrito uscì dalla stanza, un po’ tremante sulle ginocchia; scese fino alla lizza e laggiù vide Ramolda, figlia di Heteronio. Lei lo guardò con affetto… ah, ma non c’era tempo per quelle smancerie! Micranio stava già arrivando, le torce si erano accese intorno a loro, e le spade si scontrarono con un sonoro clang.

A quel punto, Zipperio era davvero spaventato. Cercò di svegliarsi, ci provò con tutte le sue forze, ma inutilmente… l’armatura era troppo pesante, il sogno si rifiutava di arrendersi, il nemico attaccava!

I colpi gragnolavano sempre più forti; Zipperio, ormai indebolito, riusciva a malapena a sollevare la spada, quando all’improvviso l’avversario gridò una parola e mostrò la lama spezzata; Alacrito il cavaliere era pronto a balzare su di lui, ma Micranio uscì di corsa dall’arena e si fece dare un’altra spada dagli scudieri.

In quel momento, Alacrito scorse la vecchia, in mezzo agli spettatori. Si accostò a lui e gli disse: «Cavaliere coperto d’acciaio! Quando sarai vicino alla porta che conduce al ponte levatoio, Micranio abbasserà la guardia. Colpisci coraggiosamente, allora, e sii certo della tua vittoria!»

La vecchia svanì e il suo rivale, armato di una spada nuova, tornò all’attacco. Continuarono a combattere, con Mieranio che sferrava colpi come una macchina falciatrice fuori controllo, ma — sempre più stanco — sempre più spesso era costretto a parare, a indietreggiare.

Tuttavia, adesso che era arrivato il momento di sferrare l’attacco decisivo, Zipperio constatò come la spada dell’avversario fosse ancora piuttosto minacciosa, e, presa improvvisamente una decisione, si disse: «Al diavolo la bella Ramolda!» girò sui tacchi e corse via come un pazzo, prima verso il ponte levatoio e poi verso la foresta e l’oscurità della notte.

Dietro di lui si levarono grida di: «Vergogna!» e " Fellone!» e «Codardo!» ma Zipperio continuò a correre finché non batté la testa contro un albero, vide le stelle… e si trovò di nuovo al punto di partenza, nel corridoio davanti all’Armadio Nero dei sogni che si sognavano da soli, con accanto Subtilio, l’ingegnere mentale, che inalberava un sorriso storto.

Se era storto, quel sorriso, era perché Subtilio nascondeva a stento il suo disappunto: il sogno con Alacrito e Ramolda era in realtà una trappola per Re Zipperio, perché, se avesse seguito il suggerimento della vecchia cyberstrega, Micranio, che fingeva soltanto di essersi indebolito, l’avrebbe infilzato davanti al ponte levatoio. Il Re aveva evitato quella sorte unicamente grazie alla sua incommensurabile vigliaccheria.

«Vostra Maestà ha apprezzato le grazie della bella Ramolda?» chiese l’astuto Cybernista.

«Non era abbastanza bella» rispose Zipperio «e ho preferito non approfondire la questione. Inoltre, ci sono state delle complicazioni, e anche un duello. Preferisco che non ci siano duelli nei miei sogni, capito?»

«Come desidera Vostra Altezza Reale» rispose Subtilio. «Vostra Maestà scelga liberamente, perché in questi armadi dei sogni ci sono soltanto delizie, non lotte…»

«Vedremo» disse il Re e si collegò al «Sogno del materasso e della Principessa Rimbalzina», per trovarsi immediatamente in una stanza d’insuperabile leggiadria, tutta in broccato dorato. Da grandi finestre di cristallo filtrava una luce chiara come l’acqua della fonte più pura, e alla toeletta color perla si appoggiava la Principessa, che, sbadigliando, si preparava ad andare a dormire.

Zipperio, stupito da quella inattesa visione, cercò di schiarirsi la gola per informarla della sua presenza, ma non ne uscì alcun suono — che l’avessero imbavagliato? — così cercò di toccarsi la bocca, ma non riuscì a farlo, cercò di muovere le gambe, non riuscì a fare neanche quello, e allora si guardò attorno, disperatamente, alla ricerca di un posto dove sedere, perché si sentiva mancare, ma non riuscì neanche a guardare.

Intanto, la Principessa si stirò e sbadigliò una volta, e poi due, e poi tre; alla fine, vinta dal sonno, si lasciò cadere sul materasso, ma così pesantemente che Re Zipperio sentì una forte scossa dalla testa ai piedi, perché era lui il materasso su cui la Principessa si era gettata a corpo morto!

Poi, evidentemente, la giovane dama dovette fare qualche brutto sogno, perché continuò a girarsi e a rigirarsi nel sonno, pungolando il Re con i piccoli gomiti, colpendolo con i sottili talloni, e presto la regale persona di Zipperio (trasformata in materasso a opera di quel sogno) venne presa da una rabbia colossale. Il Re lottò con il sogno che non voleva lasciarlo libero, si gonfiò e oppose resistenza, finché le cuciture non scoppiarono, le molle non scattarono, il pagliericcio non si sfondò e la Principessa non finì a terra con un grido.

Quel grido, comunque, ebbe la forza di svegliarlo, e Zipperio si trovò ancora una volta nel corridoio, accanto a Subtilio il Cybernista che gli rivolgeva, ossequiosamente, un inchino.

«Imbecille pasticcione!» gridò il Re, indignatissimo. «Come hai osato? Come, vigliacco, io dovrei fare da materasso, e il materasso di un’altra persona, oltre tutto? Villano, ricorda chi sono io!»

Subtilio, allarmato dalla furia del Re, gli rivolse le sue scuse più umili e lo supplicò di provare un altro sogno, e tanto implorò che Zipperio, quando si fu calmato, prese di nuovo la catena e la inserì nella presa dell’«Abbraccio di Paulina Ottomani».

Si trovò in mezzo a una folla di spettatori, in un’enorme piazza, e davanti a lui passò una grande processione di danzatrici avvolte in sete e mussoline, di elefanti meccanici, di portantine in ebano riccamente scolpite; la portantina centrale pareva un altare, tanto era ricca di decorazioni d’oro, e in essa, celata dietro otto veli, c’era una figura femminile di meravigliosa beltà, un angelo dal viso abbagliante e dallo sguardo galattico, con orecchini ad alta frequenza; il Re, tutto tremante per l’emozione, stava già per chiedere chi fosse quella visione celestiale, quando la moltitudine mormorò con soggezione: «E’ Paulina! Paulina!»

Infatti, quel giorno si festeggiava con grande pompa e concorso di folla il fidanzamento tra la figlia del sovrano e un cavaliere straniero chiamato Oniromante.

Zipperio era un po’ sorpreso di non essere il cavaliere Oniromante, e quando la processione scomparve dietro le porte del palazzo, si recò con altri della folla in una locanda poco lontana; laggiù vide Oniromante, che, con indosso soltanto un paio di calzoni di broccato decorati di pietre preziose, e con una bottiglia di fosgene rinforzato ancora in mano, si avvicinò a lui, gli mise il braccio sulle spalle e gli sussurrò, con un fiato che vicino a una fiamma avrebbe immediatamente preso fuoco: «Ascolta, ho un appuntamento con la Principessa Paulina, a mezzanotte, dietro il cespuglio di filo spinato, accanto alla fontana di mercurio, ma non posso presentarmi in queste condizioni… ho bevuto troppo, come vedi… ma tu, gentile forestiero, sei proprio la mia immagine sputata, e perciò ti prego di andare all’appuntamento al posto mio, di baciare la mano alla Principessa e di dire che sei Oniromante e che sarai il suo fidanzato per sempre e ancora per un giorno di più!»

«Perché no?» rispose Zipperio, dopo averci pensato per qualche istante. «Sì, penso di poterlo fare, ma quando?»

«Subito, non c’è un minuto da perdere, è quasi mezzanotte. Ricorda, però, che il Re non ne sa niente: lo sanno solo la Principessa e il vecchio guardiano della porta; quando ti sbarrerà la strada, dovrai mettergli in mano questa borsa piena di monete d’oro, e lui ti farà passare!»

Il Re annuì; prese la borsa piena di monete d’oro che Oniromante gli porgeva e corse al castello, perché gli orologi, come tanti gufi di ghisa, cominciavano già a battere l’ora. Attraversò di corsa il ponte levatoio, diede un’occhiata al fossato, rabbrividì, abbassò la testa e passò sotto le punte della saracinesca, poi attraversò il cortile per arrivare al cespuglio di fil di ferro e alla fontana che spruzzava mercurio… e laggiù, alla pallida luce della luna, scorse la divina figura della Principessa Paulina, bella al di là di qualsiasi sogno, e così affascinante da farlo fremere di desiderio.

Intanto, osservando le smorfie e i movimenti del monarca addormentato, nel corridoio del palazzo, Subtilio si sfregava le mani soddisfatto, questa volta era certo di riuscire a eliminare il Re, perché sapeva che quando Paulina avesse stretto lo sventurato nel suo abbraccio a otto mani e lo avesse trascinato sempre più profondamente nel sogno stringendolo con i suoi teneri tentacoli d’amore, Zipperio non sarebbe più riuscito a ritornare alla realtà!

E in effetti Zipperio, ansioso di farsi avvolgere dall’abbraccio della Principessa, correva lungo il muretto, nell’ombra, diretto verso l’immagine di argentea bellezza… quando all’improvviso comparve il vecchio guardiano, che lo bloccò con l’asta dell’alabarda.

Il Re sollevò il sacchetto con le monete d’oro, ma solo allora si accorse di quanto fosse piacevole il loro peso e provò un forte dispiacere a separarsene… che vergogna gettare via un simile patrimonio per un solo abbraccio!

«Qui c’è una moneta d’oro per te» disse, aprendo il sacchetto. «Lasciami passare!»

«Te ne costerà dieci» rispose il guardiano.

«Cosa, dieci monete d’oro per un semplice baciamano?» rise il Re. «Devi aver perso la testa!»

«Dieci» ripeté il guardiano «il prezzo è questo».

«Non puoi farmi uno sconto?»

«Dieci monete d’oro, non una di meno».

«Ah, ecco la fregatura!» esclamò il Re, a cui (per influsso dell’antica professione materna) era già salita la pressione, come sempre. «Benissimo, cane, allora non becchi niente!»

A quel punto il guardiano gli diede un bel colpo di alabarda, e tutto si mise a roteare davanti al Re: il muro, la fontana, il ponte levatoio; Zipperio si sentì girare la testa e dovette chiudere gli occhi. Quando li riaprì, vide Subtilio accanto a lui, e l’Armadio dei Sogni.

Il Cybernista era piuttosto confuso, perché a quel punto aveva ormai fallito due volte: la prima per la codardia del Re, la seconda per la sua avidità.

Tuttavia, facendo buon viso a cattivo gioco, invitò il Re ad assaggiare un altro sogno.

Questa volta Zipperio scelse l’«erbaluce» e si trovò immediatamente nei panni di Ciondolone Debilitus, signore di Epileption e di Malattina, un vecchio confusionario, rachitico e — a dispetto di tutto — incurabile sporcaccione, con un’anima che bruciava ancora dal desiderio di commettere malaffari.

Cosa poteva fare, però, con le articolazioni cigolanti, le braccia tremanti e le gambe piene di gotta?

«Ho bisogno di tirarmi su» si disse, e ordinò ai suoi degenerali, Tartarone e Tortoruso, di partire e mettere a ferro e fuoco tutte le terre vicine, saccheggiando, distruggendo e portando via quel che si poteva.

Così fecero, e al loro ritorno dissero: «Sovrana Maestà! Abbiamo messo a ferro e fuoco tutto quello che abbiamo potuto, abbiamo saccheggiato ed ecco che cosa ti portiamo: la bellissima Adoradora, Vergine Regina dei Mimoicani, con tutti i suoi tesori!»

«Eh, come avete detto, con i suoi tesori?» ansimò il Re, con un filo di voce. «Ma dov’è? E cosa sono questi piagnucolii e questi fruscii?»

E’ qui sul divano reale, Vostra Altezza!» gridarono in coro i degenerali. «Il piagnucolio viene dalla prigioniera, la già menzionata Adoradora, china a testa bassa nella sua tunica di perle! E il fruscio viene dalle perle, che scivolano l’una sull’altra a causa dei suoi fremiti. Quanto alla ragione di questi ultimi, trema perché, in via principale, non indossa altro che quell’elegante, ma freddina, tunica ricamata d’oro, e, in via subordinata, perché pensa alle grandi iniquità e degradazioni che dovrà subire!»

«Come? Iniquità? Degradazioni? Ottimo!» ansimò il Re. «Portatemela qui; la violerò e oltraggerò subito!»

«Impossibile, Vostra Altezza!» intervenne il Chirurgo e Medicurgo Reale «per ragioni di sicurezza nazionale».

«Come? Non posso oltraggiare e violare? Io, il Re? Sei impazzito? Che cosa ho sempre fatto, da quando sono salito al trono?»

«E’ proprio questa la ragione, Maestà!» rispose il Medicurgo. «La salute di Vostra Maestà è stata gravemente compromessa da quegli eccessi!»

«Oh, be’, in tal caso… datemi una scure. Le taglierò la testa…»

«Con il permesso di Vostra Altezza, anche questo sarebbe estremamente rischioso. La minima emozione…»

«Fulmini e scintille! A che cavolo mi serve, allora, essere Re?» protestò Debilitus, che sentiva crescere in sé la disperazione. «Allora, maledetto te, guariscimi! Rimettimi in salute! Fammi ringiovanire, in modo che io possa… sai benissimo che cosa, proprio come quando ero giovane. Altrimenti, se non riuscirete ad aiutarmi, io…»

Terrorizzati, tutti i cortigiani, i degenerali e il personale medico corsero a cercare qualche sistema per ringiovanire il loro Re; alla fine convocarono addirittura il grande Calcolone, un sapiente di saggezza sterminata. Questi si presentò al sovrano e chiese: «Che cosa desidera Vostra Altezza Reale?»

«Desidera, eh?» gracchiò il Re. «Te lo dico io, che cosa desidera! Desidera continuare con le sue orge quotidiane, le feste settimanali, le scorpacciate occasionali e le licenze ogni volta che gliene viene la fregola, e in particolare desidera svergognare e debitamente spulzellare la Regina Adoradora, che al momento è trattenuta in una cella!»

«Allora vi sono aperte due possibilità di azione» riferì il saggio Calcolone. «Vostra Altezza potrebbe degnarsi di scegliere un individuo adeguatamente competente, che esegua per procura quel che Vostra Altezza, a lui collegato con apposito cavo, gli ordinerà; in questo modo, Vostra Altezza sperimenterà tutto quel che sperimenterà il soggetto da lui scelto, esattamente come se egli stesso esperisse l’esperienza esperita. Oppure potete rivolgervi alla vecchia cyberstrega che abita nella foresta, in una capanna su tre zampe di gallina, perché quella vecchia è una strega geriatrica e si occupa soltanto degli acciacchi dell’età avanzata».

«Sì? Be’, proviamo con i fili, prima!» disse il Re, e la cosa venne allestita in un battibaleno. Gli elettricisti reali collegarono al Re il Capitano della Guardia, e il Re gli ordinò immediatamente di segare in due il famoso saggio, perché questo era proprio il tipo di cattiva azione che gli piaceva maggiormente.

Le urla e le suppliche di Calcolone non servirono a niente. Tuttavia, durante l’operazione, uno dei fili perse l’isolamento e il Re poté ricevere solo la prima metà dell’esecuzione.

«Un metodo da pidocchiosi. Quel ciarlatano meritava di essere segato in due» ansimò Sua Altezza. «Adesso, cercate quella cybervecchia, la strega con la capanna su tre zampe di gallina!»

I cortigiani corsero immediatamente verso la foresta, e, dopo breve tempo, il Re sentì una cantilena un po’ triste, che faceva pressappoco così:

«Ripara vecchi e vecchiette!

Guarisce, rigenera, a nuovo rimette;

Corrosione e sclerosione,

Ve ne toglie a profusione!

Chi tentenna, cigola, trema,

Da lei venga senza tema!

Rugginosi perforante,

Ve la toglie in un istante!»

La vecchia cyberstrega ascoltò pazientemente le lamentele del Re, gli rivolse un profondo inchino e disse: «Maestà Sovrana! Al di là dell’orizzonte azzurro, ai piedi del Monte Calvo, sgorga una fonte, e da questa fonte nasce un ruscello, un ruscello di olio lubrificante, e sulle sue rive cresce l’erbaluce, un potente specifico ad altissimo numero di ottani, che ridà la gioventù e cancella la vecchiaia… un cucchiaio di quell’erba e puoi dare l’addio a sette volte sette anni! Anche se bisogna lare attenzione a non prenderne troppa; una dose eccessiva di erbaluce può farti ringiovanire più degli anni che hai, e allora, puf! Sparisci! Fammi avere quell’erba, Sire, e ti preparerò l’elisir che ti ho detto, puro e schietto!»

«Meraviglioso!» esclamò il Re. «E io farò portare la Regina Adoradora… che la poverina sappia quello che l’attende, ah-ah!»

Poi, con mani tremanti, cercò di raddrizzare le viti storte, e per tutto il tempo continuò a ridacchiare e a parlottare tra sé, e anche a sussultare, perché soffriva di demenza senile, benché la sua passione per il male fosse forte come sempre.

Intanto, i cavalieri del Re si erano diretti oltre l’orizzonte azzurro, verso il ruscello di olio lubrificante, e poco più tardi la vecchia cyberstrega accese il calderone, su cui presero ad addensarsi i vapori dei misteriosi intrugli che vi si rimescolavano. Terminata la bollitura, la vecchia si diresse verso il trono, si inginocchiò davanti al Re e gli porse una coppa, piena fino all’orlo di un liquido che brillava e tremava come l’argento vivo, e disse ad alta voce: «O Re Ciondolone Debilitus! Guarda, questa è l’essenza ringiovanitrice dell’erbaluce! Rinvigorisce, esalta, è proprio quello che ci vuole per le prodezze d’alcova e di torneo! Bevi questa coppa e nell’intera Galassia, per te, non ci saranno abbastanza pianeti da spogliare né abbastanza vergini da disonorare! Bevi, alla tua salute!»

Il Re sollevò il bicchiere, ma alcune gocce caddero sul suo sgabello poggiapiedi, che, non appena ne fu toccato, subito si impennò su due gambe, poi si gettò sul Degenerale Tartarone, con l’intenzione di violarlo e umiliarlo. In un batter d’occhio gli aveva già strappato sei manciate di medaglie.

«Bevi, Maestà, bevi!» ripeté la cyberstrega. «Vedi che meraviglie riesce a compiere!»

«Tu per prima» disse il Re, con un filo di voce, perché quelle emozioni l’avevano fatto invecchiare in fretta. La strega impallidì, cercò di indietreggiare, ma, a un cenno del Re, tre soldati la afferrarono e, con un imbuto, le cacciarono giù per la gola un paio di centellini di quella pozione luccicante.

Un lampo, un’esplosione, fumo dappertutto! I cortigiani fissarono attoniti la scena, il Re sgranò gli occhi… non rimaneva traccia della cyberstrega: c’era solo un grosso buco nel pavimento, e da quel foro si vedeva un altro foro, un foro nel sogno stesso, da cui comparivano una gamba e un piede, elegantemente calzato, anche se la calza era rotta e il fermaglio d’argento annerito, come se fosse stato colpito da un potentissimo acido.

Il piede, naturalmente, apparteneva a Subtilio, Grande Taumaturgo e Apotecario di Re Zipperio. Così potente era il veleno che la vecchia strega aveva preparato con l’erbaluce, che non solo aveva dissolto lei e il pavimento, ma aveva anche forato il sogno ed era arrivato alla realtà, dove aveva colpito il piede di Subtilio, procurandogli una brutta scottatura.

Il Re, terrorizzato, cercò di svegliarsi, ma (fortunatamente per Subtilio) il Degenerale Tortoruso gli diede una mazzata in testa; a causa del colpo, quando riprese i sensi, Zipperio non riuscì a ricordare nulla di quel che era successo mentre indossava i panni di Debilitus. Comunque, ancora una volta, aveva mandato in fumo i piani del Cybernista uscendo in tempo dal sogno, salvato, questa volta, dalla propria natura sospettosa.

«Mi è successo qualcosa… ma non saprei dire che cosa» riferì il Re, quando fu di nuovo nel corridoio, davanti agli Armadi che Sognavano. «Ma che ti è preso, Subtilio, per saltellare su un piede e tenerti in mano l’altro?»

«Non è niente, Vostra Altezza… un vecchio roubatismo… si vede che cambia il tempo» balbettò l’astuto Taumaturgo, e passò subito a proporre al Re di assaggiare un altro sogno.

Zipperio ci pensò, lesse tutte le scritte delle cabine, e scelse «La prima notte della Principessa Ineffabella». E sognò di sedere accanto al fuoco e di leggere un antico volume, strano e bizzarro, in cui si narrava, con belle parole scritte in inchiostro rosso su foglia d’oro, della Principessa Ineffabella, che aveva regnato cinquecento anni prima, nella terra di Dentedileone. Nel libro si parlava della sua Foresta di Ghiaccioli, della sua Torre Elicoidale, dell’Uccello Parlante, del Tesoro dai Cento Occhi, ma soprattutto della sua bellezza e delle sue mirabili grazie…

Immediatamente, Zipperio si sentì prendere dal desiderio di rimirare tanta bellezza, e il desiderio che si accese in lui gli infiammò tutto il cuore: con gli occhi che brillavano come fari, corse fuori e frugò in ogni angolo del sogno, per rintracciare Ineffabella, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte; anzi, nessuno aveva mai sentito parlare della Principessa, tranne qualcuno dei più vecchi robot.

Stanco delle lunghe peregrinazioni, Zipperio arrivò infine nel deserto reale, dove le dune erano laminate d’oro, e vi trovò un’umile capanna; avvicinandosi, scorse un individuo dall’aspetto del patriarca, che indossava una lunga tunica, bianca come la neve.

L’eremita si alzò e così disse: «Tu cerchi Ineffabella, povero tapino! Eppure, sai bene che non esiste più da cinquecento anni e che vana e inutile è la tua passione! La sola cosa che posso fare per te è mostrartela… ma non in carne e ossa, bensì in un fac-simile informatico eseguibile, un modello digitale e non fisico, stocastico e non plastico, ergodico e sicuramente erotico, che verrà ricostruito dalla Scatola Nera, da me inventata nel tempo libero».

«Oh, fammela vedere! Fammela vedere subito!» esclamò Zipperio, fremente di passione.

L’anacoreta gli rivolse un cenno d’assenso, esaminò il vecchio libro per trovare l’equazione della Principessa, mise i suoi dati e quelli dell’intero Medioevo su un nastro perforato, scrisse il programma, abbassò la leva, aprì il coperchio della Scatola Nera e disse: «Guarda!»

Il Re si accostò alla Scatola Nera e, dentro, vi scorse, certo, il Medioevo simulato alla perfezione, un po’ digitale, un po’ binario e un po’ non lineare, e al centro di tutto c’era la terra di Dentedileone, con la Foresta di Ghiaccioli, il palazzo della Torre Elicoidale, l’Uccello Parlante e pure il Tesoro dai Cento Occhi; e c’era anche la meravigliosa Ineffabella, che languidamente percorreva un cammino stocastico nel suo giardino simulato, e i cui circuiti timidamente arrossivano e si indoravano mentre raccoglieva viole simulate e cantava un’arietta simulata.

Zipperio, incontenibile, nella sua follia cercò di tuffarsi nella Scatola Nera per entrare a far parte del suo mondo computerizzato, ma il patriarca staccò subito la spina, bloccò il Re e disse: «Pazzo! Vorresti tentare l’impossibile? Nessuna creatura concreta può entrare in un sistema che è solo un flusso di elementi alfanumerici, di configurazioni discontinue di interi, e che è composto della materia astratta di cui sono fatti i numeri!»

«Ma io devo entrare!» ripeté Zipperio, fuori di sé, e cominciò a dare craniate contro la Scatola Nera, fino ad ammaccarla.

Il vecchio saggio disse: «Se questo è il tuo desiderio irrinunciabile, c’è un modo per collegarti alla Principessa Ineffabella, ma prima devi lasciare la tua forma presente, perché io prenderò le tue coordinate e ti trasformerò in un programma, atomo per atomo, e ti metterò, sotto forma di simulazione, in quel mondo medievalmente modellato, informazionale e rappresentazionale, e laggiù la tua simulazione rimarrà, e vivrà finché gli elettroni percorreranno questi fili saltando da catodo ad anodo. Ma tu, tu che ora mi stai di fronte, sarai annullato, perché la tua sola esistenza sia quella in forma di campi e di potenziali, statistica, euristica e digitale».

«Questo è abbastanza difficile da credere» disse Zipperio. «Come posso essere certo di essere proprio io, a venire simulato, e non qualcun altro?»

«Be’, possiamo fare un giro di prova» rispose il saggio. E prese le misure del Re, come se dovesse cucirgli un vestîro, ma con una precisione assai superiore, poiché di ogni atomo vennero accuratamente presi posizione e peso. Infine, inserì il programma nella Scatola Nera e disse: «Guarda!»

Il Re guardò nella Scatola e vide se stesso seduto accanto al fuoco e intento a leggere, su un vecchio libro, la storia della Principessa Ineffabella; poi l’immagine corse a cercarla, chiedendo qua e là, finché, nel cuore del deserto laminato d’oro, non s’imbatté in un’umile capanna e in un anacoreta dalla barba bianca come la neve, che lo salutò con le parole: «Tu cerchi Ineffabella, povero tapino!» E così via.

«Adesso sarai convinto» disse il patriarca, spegnendo il diorama. «Ora ti programmerò nel Medioevo, a fianco della dolce Ineffabella, in modo che tu possa sognare con lei un sogno illimitato, simulato, non lineare, binario…»

«Sì, sì, capisco» disse il Re. «Però, si tratta sempre della mia immagine, non di me stesso, perché io sono qui e non nella Scatola!»

«Ma tu non resterai qui per molto tempo» rispose il Saggio, con un sorriso gentile. «Io stesso mi occuperò della cosa…»

E tirò fuori, da sotto il letto, un martello. Un martello grosso e pesante, che poteva risultare utile in quel frangente. «Quando sarai tra le braccia della tua amata» assicurò il patriarca «farò in modo che non esistano due copie di te, una fuori e una dentro, nella Scatola… Mi servirò di un metodo forse un po’ primitivo, ma sicuro; perciò, se tu volessi piegare un poco la testa…»

«Prima, fammi dare un’altra occhiata alla tua Ineffabella» disse il Re. «Tanto per avere la certezza…»

Il saggio sollevò di nuovo il coperchio della Scatola Nera e gli mostrò Ineffabella. Il Re la guardò a lungo e infine disse: «La descrizione di quell’antico volume è molto esagerata. Non è niente male, naturalmente, ma non certo bella come dicono le cronache. Be’, arrivederci, mio buon anacoreta…»

E fece per andarsene.

«Dove vorresti andare, pazzo?» gridò l’eremita, sollevando il martello, perché il Re era già alla porta. «Dovunque, meno che nella Scatola» rispose Zipperio, e corse via, ma proprio in quel momento il sogno gli scoppiò sotto i piedi, come una bolla di sapone, e il Re si trovò di nuovo nel corridoio del suo palazzo, dinanzi a un Subtilio amaramente deluso — deluso perché Zipperio si era quasi lasciato mettere nella Scatola Nera, dove il Grande Taumaturgo avrebbe potuto tenerlo chiuso per sempre… «Ascoltami bene, Ser Cybernista» disse il Re «quei tuoi sogni con le Principesse sono grandi sciocchezze, e promettono tanto senza mantenere nulla. Adesso, o mi indichi un sogno che mi diverta davvero… senza tanti trucchi e complicazioni… o fili via dal palazzo, tu e i tuoi armadi!»

«Signore!» rispose Subtilio. «Ho proprio il sogno che fa per voi, della migliore qualità e rifinito a mano. Assaporatelo per un solo istante e vi convincerà!»

«Che sogno sarebbe?» chiese il Re.

«Questo, Vostra Altezza» rispose il Grande Taumaturgo, e indicò una delle piccole piastre di madreperla: quella con la scritta «Monna Lisa, ovvero il Labirinto della Dolcezza Infinita».

Poi, prima che il Re potesse dire «sì» o «no», Subtilio prese la catena e fece per inserire la spina, affrettandosi il più possibile, perché le cose non stavano andando per niente bene: Zipperio — troppo ottuso per lasciarsi completamente sedurre dalla seducente Ineffabella — era riuscito a sfuggire all’eterno imprigionamento nella Scatola Nera.

«Aspetta!» protestò il Re. «Lo faccio io!»

Inserì la spina ed entrò nel sogno, ma solo per scoprire di essere ancora se stesso, Zipperio, nel corridoio del palazzo, accanto a Subtilio il Cybernista, che gli spiegava come, di tutti i sogni, «Monna Lisa» fosse il più dissoluto, perché conteneva l’essenza della femminilità portata all’infinito.

Udito questo, Zipperio infilò immediatamente la spina e si guardò attorno, alla ricerca di Monna Lisa e delle sue carezze infinite, ma in quel sogno all’interno di un sogno si trovò ancora nel corridoio del palazzo, al fianco del Grande Taumaturgo, e così, con irritazione, infilò la spina ed entrò nel sogno successivo, ma era sempre lo stesso, con il corridoio, i tre armadi, il Cybernista e lui stesso.

«E’ un sogno o non lo è?» gridò, infilando di nuovo la spina, e ancora una volta si trovò nel corridoio, con gli armadi, il Cybernista; riprovò, ma la scena non cambiò; riprovò ancora, sempre più in fretta…

«Dov’è Monna Lisa, imbroglione?» gridò, e tirò via la spina per svegliarsi… ma non ci riuscì, si trovò ancora nel corridoio davanti all’armadio!

Infuriato, batté i piedi per terra e si lanciò di sogno in sogno, di armadio in armadio, di Cybernista in Cybernista. Il sogno, ormai, non gli interessava più, voleva soltanto ritornare alla realtà, al suo amato trono, agli intrighi di corte e alle vecchie nefandezze, cosicché prese a tirare e a infilare le spine con furia cieca.

«Aiuto!» gridava, e «Ehi! Il Re è in pericolo!» e «Monna Lisa, aspettami!» correndo lungo i corridoi, terrorizzato, e andava da un angolo all’altro, alla ricerca di un varco nel sogno, ma senza trovarlo.

Non capì che cosa gli fosse successo, né come, o perché, ma questa volta la sua stupidità non fu in grado di salvarlo, né la sua codardia, né la sordida avarizia, perché questa volta si era infilato troppo profondamente ed era intrappolato e avvolto nel sogno, come in un centinaio di bozzoli, cosicché, anche quando riusciva, facendo appello a tutta la sua forza, a liberarsi da uno, tutto era inutile, perché immediatamente cadeva in un altro, e quando staccava la spina dall’armadio, spina e armadio erano solo un sogno, non la realtà, e quando colpiva Subtilio, anche questi non era che un sogno.

Zipperio corse avanti e indietro, cercò dappertutto, ma, dovunque si recasse, tutto era sogno e nient’altro che sogno: le porte, il pavimento di marmo, le pareti filettate d’oro, gli arazzi, il corridoio, e anche lo stesso Zipperio era un sogno, un sogno che sognava, un’ombra che camminava, un’apparizione vuota, non concreta, fuggitiva, persa in un labirinto di sogni e sempre più sprofondata in esso, per quanto si divincolasse e si agitasse… benché pure questo suo agitarsi fosse assolutamente immaginario!

Colpì Subtilio sul naso, ma non era quello reale; ruggì e gridò, ma niente di reale uscì dalla sua bocca, e quando alla fine, stordito e semi-impazzito, riuscì davvero a farsi strada fino alla realtà, la scambiò per un sogno e tornò a infilare la spina nella presa dell’armadio e ripiombò nel sogno, e continuò a sognare, come era inevitabile, e così Zipperio, gemendo, sogno invano di svegliarsi, senza immaginare che «Monna Lisa» fosse — in realtà — soltanto una diabolica abbreviazione di «monarcolisi», ossia dissoluzione, dissociazione e totale eliminazione del Re. E in verità, di tutte le trappole tese da Subtilio, quella era la più terribile…

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