L’ALTRUIZINA OVVERO COME BONHOMMIUS, L’EREMITA ERMETICO, CERCO’ DI IMPORRE LA FELICITA’ UNIVERSALE E LE CONSEGUENZE DEL SUO ATTO

Un bel giorno d’estate, mentre Trurl il costruttore era intento a potare le cyber-rose nel cortile dietro casa, vide arrivare lungo la strada un robot mendicante tutto liso e sbrindellato, spettacolo quanto mai triste e doloroso. I suoi arti erano tenuti insieme da pezzi di vecchio tubo da stufa legati con il fil di ferro, la sua testa era una pentola così piena di buchi che si potevano sentir ronzare e sfrigolare i pensieri, all’interno, fra uno sprazzo di scintille e l’altro, il collo era un pezzo di rotaia arrugginita e nella sua pancia aperta si scorgevano tubi a vuoto che fumavano e ballavano così malamente che egli stesso doveva fermarli con la mano libera… l’altra gli serviva per tenere fisse le viti che minacciavano di svitarsi.

Proprio mentre arrancava davanti alla casa di Trurl, gli saltarono quattro fusibili in un colpo solo e cominciò, in mezzo a una nube puzzolente di fumo di isolanti bruciati, a cadere letteralmente a pezzi, sotto gli occhi del costruttore.

Trurl, mosso a compassione, afferrò un cacciavite e un rotolo di nastro isolante e offrì quel po’ di pronto soccorso che poteva al povero viandante, il quale continuava a cadere a terra, con un grande sferragliare di ingranaggi, dovuto a una totale perdita di sincronizzazione.

Alla fine, Trurl riuscì a fargli riprendere i sensi, nei limiti del possibile, poi lo fece entrare in casa, lo fece sedere in una comoda poltrona e gli passò un caricabatterie perché potesse riprendere un po’ di forza elettromotrice, e mentre il poveretto si affrettava a ricaricarsi, gli chiese, incapace di frenare oltre la curiosità, come fosse caduto in una condizione così disgraziata.

O generoso e nobile signore» rispose il robot forestiero, le cui lastre tremavano ancora «mi chiamo Bonhommius e sono, o dovrei dire ero, un eremita ermetico, perché sono vissuto per sessantasette anni in una caverna, dove passavo il tempo in pie meditazioni, finché una mattina capii che passare la vita in solitudine era sbagliato, perché tutti i miei profondi pensieri e i miei sforzi spirituali non avevano mai impedito a un chiodo di cadere ed è stato scritto che il nostro primo dovere è quello di aiutare il nostro vicino e non di pensare solo alla nostra salvezza, imperocché chi pensa solo…»

«Certo, certo» si affrettò a interromperlo Trurl «mi pare di avere capito il tuo stato d’animo, quel giorno. Che cosa è successo, poi?»

«Allora mi recai a Photura, dove per caso incontrai un famoso costruttore, un certo Klapaucius».

«Klapaucius?» esclamò Trurl, sorpreso.

«C’è qualcosa che non va, gentile signore?» chiese l’ex eremita.

«No, no… niente. Continua, ti prego!»

«A tutta prima, confesso di non averlo riconosciuto: era davvero un gran signore e aveva un carro automatico che non solo lo portava in giro, ma faceva anche conversazione con lui, un po’ come io converso con te.

«Ora, quel carro mi insultò con un epiteto irripetibile, perché camminavo in mezzo alla strada, non essendo abituato al traffico cittadino, e, per la sorpresa, gli ruppi con il mio bastone una delle lampade anteriori; questo portò il carro a una tale collera che il suo occupante fece fatica a tenere le redini, ma alla fine riuscì a calmarlo e mi invitò a salire a cassetta con lui.

«lo gli raccontai chi ero e perché avessi abbandonato la mia caverna e gli dissi che in realtà non sapevo che cosa fare; lui approvò la mia decisione e a sua volta si presentò, parlandomi diffusamente del suo lavoro e illustrandomi i suoi successi.

«Da ultimo mi raccontò la commovente storia del grande saggio, maestro di pensiero e filosofo, Cloriano Teoretico il Prof., alla cui triste fine ebbe il doloroso onore di assistere. Di tutto quello che mi raccontò sulle «Opere Complete» del Più Grande dei Robot, la parte che mi interessò di più fu quella sugli M.L.S.P. Tu, buon signore, ne hai forse sentito parlare?»

«Certo. Sono gli unici esseri dell’universo che abbiano raggiunto il Massimo Livello di Sviluppo Possibile».

«Sei davvero bene informato gentilissimo e nobilissimo signore. Ora, mentre sedevo a fianco del degno Klapaucius sul suo carro (che continuava a lanciare terribili insulti a chiunque fosse tanto imprudente da sbarrargli la strada) pensai improvvisamente che quegli esseri, sviluppatisi fino al massimo livello possibile, avrebbero certamente saputo consigliare uno come me, che sentiva il desiderio di aiutare i suoi simili.

«Così, rivolsi molte domande a Klapaucius su quegli esseri, gli chiesi se sapesse dove vivevano gli M.L.S.P., e come trovarli.

«Per tutta risposta mi rivolse un sorriso obliquo e scosse la testa. lo non osai rivolgergli altre domande sull’argomento, ma quando ci fermammo a una locanda (il carro era diventato rauco, nel frattempo, aveva perso completamente la voce; di conseguenza, Klapaucius era costretto a fare sosta fino all’indomani) e ci fummo seduti davanti a una brocca di elettrolito ben caldo e speziato che presto rimise di buon umore il mio compagno, guardando le termocoppie danzare alle note spiritate di una banda ad alta frequenza, Klapaucius mi accolse nelle sue confidenze e cominciò a raccontarmi… ma forse la mia storia ti ha stancato».

«Niente affatto, niente affatto!» protestò Trurl. «Sono tutt’orecchi, ti assicuro!»

«Mio buon Bonhommius» mi disse Klapaucius, in quella locanda, mentre i danzatori si surriscaldavano «sappi che presi talmente a cuore la storia dello sfortunato Cloriano che decisi di partire immediatamente per cercare quegli esseri perfettamente sviluppati, la cui esistenza egli aveva così conclusivamente dimostrato sulla base di considerazioni logiche e teoretiche.

«La principale difficoltà dell’impresa, a mio giudizio, stava nel fatto che ogni razza del cosmo crede di trovarsi al punto più alto dello sviluppo — di conseguenza, limitandomi a chiedere, non sarei arrivato a niente.

«Ma neppure una ricerca per tentativi ed errori pareva promettere molto, perché l’universo conteneva, secondo i miei calcoli, almeno quattordici centigigatrilioni di civiltà intelligenti; con cifre così grosse, non ci si poteva aspettare di arrivare per caso nel posto giusto.

«Così, riflettei, mi documentai sul problema, esaminai metodicamente parecchie biblioteche, studiai ogni sorta di antichi tomi, finché un giorno non trovai la risposta nelle opere di un certo Cadaverius Malignus, uno studioso che, a quanto pareva, era arrivato alle stesse conclusioni del Prof., ma almeno trecentomila anni prima, e che in seguito era stato completamente dimenticato… cosa che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che non c’è niente di nuovo sotto il sole — il nostro e qualunque altro.

«Inoltre, anche la vita di Cadaverius aveva avuto molti punti di contatto con quella del nostro Cloriano.

«Ma non divaghiamo. Fu proprio da quelle pagine ingiallite e fragili che appresi come cercare gli M.L.S.P. Malignus sosteneva che occorreva esaminare gli ammassi stellari alla ricerca di qualche fenomeno astrofisico impossibile: non appena se ne fosse trovato uno, quello sarebbe stato il luogo più probabile.

«Un indizio un po’ oscuro, a dire il vero, ma non lo sono un po’ tutti? Senza perdere altro tempo, rifornii la mia nave di tutto il necessario, partii e dopo numerose avventure su cui non è il caso di soffermarsi adesso, alla fine trovai in un grande sciame stellare un astro diverso da tutti gli altri, in quanto era a forma di cubo.

«Ora, quello fu davvero uno shock… qualunque ragazzino sa che le stelle devono essere sferiche e che ogni sorta di angolarità stellare, per non parlare di rettangolarità, è non solo altamente irregolare, ma del tutto da escludere!

«Mi avvicinai alla stella e immediatamente vidi che anche il suo pianeta era cubico, e per di più aveva rinforzi di rame ribattuti ai vertici e una costolatura di conci di calcite agli spigoli. Su un’orbita più esterna ruotava un altro pianeta, che sembrava assolutamente normale; un’occhiata al telescopio, però, mi mostrò orde di robot intente a farsi guerra: una vista che non invitava ad approfondire la ricerca.

«Così, riportai il mio strumento sul pianeta cubico e aumentai al massimo l’ingrandimento: immagina la mia sorpresa e la mia gioia quando accostai l’occhio all’oculare e scorsi una sigla incisa sui conci di pietra, lunghi parecchie decine di miglia, che facevano da spigolo al pianeta: quattro lettere, abbellite da fregi e svolazzi: M.L.S.P.! ’Per il grande Gauss!’ esclamai. ’Il posto deve essere questo!’

«Ma anche orbitando parecchie volte intorno al pianeta cubico, tanto da farmi venire addirittura il capogiro, sulla sua superficie sabbiosa non scorsi neppure un abitante. Solo quando scesi a una quota di sei miglia riuscii a distinguere un gruppo di macchioline che, al massimo ingrandimento, risultarono essere gli abitanti di quello strano corpo celeste.

«Ce n’era almeno un centinaio, stesi sulla sabbia, e rimanevano perfettamente immobili, tanto che per qualche istante pensai che fossero morti. Poi vidi che uno si grattava, e quel piccolo segno di vita mi incoraggiò a scendere. Ero talmente emozionato che non attesi neppure che il mio razzo si raffreddasse dopo aver attraversato l’atmosfera del pianeta, ma saltai immediatamente a terra e chiesi: ’Scusatemi, è per caso questo il pianeta del Massimo Livello di Sviluppo Possibile?’

«Nessuna risposta. In effetti, non mi prestarono alcuna attenzione. Un po’ deluso da quella dimostrazione di assoluta indifferenza, mi guardai attorno. La pianura scintillava ai raggi del sole cubico e qua e là si scorgeva qualche oggetto che sporgeva dalla sabbia: gomme usate, bastoni, pezzetti di carta e altri rifiuti, e gli abitanti erano stesi a terra, a casaccio, in mezzo a quel disordine: uno era sdraiato sulla schiena, l’altro sulla pancia, e un po’ più avanti ce n’era uno con le gambe per aria.

«Mi avvicinai al primo e lo esaminai. Non era un robot, ma non era neppure un uomo; almeno, non era un uomo del solito genere fatto di proteine glutinoso-albuminose. Aveva la testa tonda, le guance rosse, ma al posto degli occhi c’erano due fischietti da arbitro di calcio, e al posto delle orecchie due turiboli da cui si levava una nuvoletta d’incenso.

«La creatura portava un paio di larghi calzoni viola, con una striscia di seta blu sulla cucitura e con, a mo’ di applicazioni, tanti piccoli foglietti, scritti in una calligrafia minutissima, e ai piedi aveva scarpe dai tacchi alti. Inoltre teneva in mano un mandolino fatto completamente di panpepato, dall’impugnatura mancavano già alcuni morsi.

«Dato che russava saporitamente, mi chinai a guardare le scritte che s’era cucito sui calzoni, ma non riuscii a leggerne molte, perché l’incenso mi faceva lacrimare gli occhi. Le frasi erano molto curiose; per esempio: ’N. 7, diamante, peso netto 700 carati’. ’N. 8, Cioccolatini di Tespi, piangono quando li mangi, recitano il soliloquio di Amleto nello stomaco’, e ’Sparse le trecce morbide più avanti’. ’N. 10, coccodrillo da usare in casi di eliminazione d’emergenza, adulto’ e tante altre che adesso non ricordo.

«Quando toccai uno dei pezzetti di carta per poterlo leggere meglio, accanto al ginocchio della creatura, nella sabbia, si formò una depressione e si udì una vocina: ’Devo uscire, adesso?’

«‘Chi è?’ chiesi io, sorpreso.

«‘Sono io, il roccodrillo. Sei pronto? E’ ora?’

«‘No, non ancora!’ mi affrettai a dire, rinculando precipitosamente.

«La creatura successiva aveva la testa a forma di campana, tre corna, parecchie braccia di tutte le lunghezze (con due si grattava la pancia), orecchie lunghe e coperte di piume, un cappello con un bel balcone rosso, su cui una figurina stava discutendo con qualcuno all’interno — una discussione animata, a giudicare dai minuscoli piatti che volavano fuori — e inoltre aveva sotto le spalle un cuscino tempestato di gemme.

«Mentre io lo guardavo, questo individuo si staccò dalla testa uno dei corni, lo annusò e lo gettò via con una smorfia di disgusto, poi versò nell’apertura una manciata di sabbia. Accanto a questa creatura ce n’era un’altra, che a tutta prima mi parve una coppia di gemelli, e poi una coppia di amanti che si abbracciavano. Stavo per allontanarmi per non sembrare indiscreto, quando mi accorsi che non erano due persone, e neppure una, ma una e mezzo.

«La testa era pressoché normale, a parte le orecchie, che di tanto in tanto si staccavano e si mettevano a volare in giro, come farfalle. Aveva gli occhi chiusi, ma parecchi nei sul mento e sulle guance avevano minuscoli occhi che mi fissavano con ostilità.

«Questa strana creatura aveva un petto ampio, muscoloso, che però era tutto pieno di buchi, come se qualcuno si fosse divertito con il trapano, e i buchi erano tappati con una sostanza che ricordava la marmellata di mirtilli. Aveva solo una gamba, ma molto robusta e al piede un’elegante pantofolina di cuoio, in stile moresco, con un sonaglio sulla punta. Vicino al gomito scorsi un mucchio di torsoli di mela (o di pera?).

«Il mio stupore crebbe ancora quando, più avanti, scorsi un robot con la testa umana e con un bricco, a forma di samovar in miniatura, che gli bolliva allegramente sulla narice sinistra, e una figura che dormiva su un letto di frutta candita, e un’altra con una vetrina nella pancia, in cui si poteva ammirare una collezione di statuine di cristallo.

«Guardando meglio, vidi che le statuine erano mobili e stavano recitando una specie di commedia, ma talmente oscena che, dopo una sola occhiata, corsi via, rosso come un peperone.

«Ero talmente confuso che non feci attenzione a dove mettevo i piedi; così inciampai e caddi, e quando mi rialzai vidi un altro abitante di quello strano pianeta: completamente nudo, si grattava la schiena con un lungo bastoncino d’oro, e pareva provarne un grande piacere, anche se era senza testa.

«La testa era a pochi passi di distanza, con il collo piantato nella sabbia; intenta a pulirsi i denti con la lingua. Aveva il mento a scacchi, l’orecchio destro della forma e del colore di un cavolo (fiore), mentre quello sinistro era del tutto normale, a parte che c’era infilata una carota con un’etichetta: TIRARE.

«Senza riflettere, tirai, e la carota venne via. In fondo, però, era legata con un cordino: continuai a tirare, e dietro il cordino spuntò un’altra etichetta con la scritta: FUOCHINO, FUOCHERELLO. Tirando ancora, e continuando a tirare, all’estremità del cordino c’era finalmente una boccetta per medicine con l’etichetta: SIAMO CURIOSI, VERO?

«Tutto questo mi disorientò al punto che per qualche tempo persi la cognizione di dove mi trovassi. Ma infine ripresi un po’ la padronanza di me e cominciai a guardarmi intorno, alla ricerca di qualcuno con cui poter comunicare quanto bastava per rispondere a un paio di domande. Un possibile candidato, pensai, era un tizio molto grasso, seduto a terra, che mi girava la schiena ed era assorto su qualcosa che teneva sulle ginocchia — almeno aveva solo una testa, due occhi, due braccia e così via. Perciò mi avvicinai a lui e cominciai: ’Scusatemi, ma, se non vado errato, lorsignori sono talmente fortunati da avere raggiunto il Massimo Livello di Sviluppo Possibile…’

«La frase mi morì sulle labbra. L’indigeno dava l’impressione di non avermi ascoltato affatto, perché era completamente preso dalla cosa che aveva sulle ginocchia, e che risultava essere la sua stessa faccia, staccata in qualche modo dal resto della testa. La faccia sospirò piano quando lui la prese per il naso. Per un momento, rimasi paralizzato dallo stupore… ma solo per un momento, perché, subito dopo, ritrovai tutta la mia curiosità e mi dissi che dovevo scoprire a qualsiasi costo quello che stava succedendo.

«Corsi da un indigeno all’altro, parlai con loro, li interrogai, alzai la voce, insistetti, implorai, ragionai, li minacciai addirittura, ma senza ottenere alcun risultato.

«Esasperato, giunsi perfino ad afferrare per il braccio il tiratore di naso e con orrore scoprii che veniva via e che glielo avevo strappato, anche se la cosa non parve dargli alcuna preoccupazione: si limitò a frugare nella sabbia e ne trasse un altro braccio, esattamente uguale a quello che aveva perso — a parte le unghie laccate di arancione — vi soffiò sopra per togliere gli ultimi granelli di sabbia e poi se lo attaccò al moncherino.

«Incuriosito, chinai lo sguardo per osservare il primo braccio, ma mi affrettai a lasciarlo cadere quando si mise a schioccare le dita davanti ai miei occhi.

«Ormai il sole stava tramontando, già due dei suoi vertici erano scomparsi al di sotto dell’orizzonte, l’aria si era raffreddata e gli abitanti di M.L.S.P. cominciavano a prepararsi per la notte: si grattavano, sbadigliavano, facevano i gargarismi; uno tirava fuori una coperta adorna di smeraldi, un altro si staccava metodicamente naso, orecchie e gambe e li metteva in fila.

«Continuai a camminare nel buio, ancora per qualche tempo, poi ci rinunciai, con un sospiro, e anch’io mi stesi sulla sabbia per dormire. Cercando di trovare una posizione comoda, guardai le stelle del cielo e mi chiesi quale poteva essere la mia prossima mossa.

«‘Senza dubbio’ mi dissi ’questo dev’essere il pianeta di cui parlavano sia Cadaverius Malignus sia Cloriano Teoretico il Prof., dove abita la civiltà più progredita dell’universo, una civiltà di poche centinaia di individui che, né uomini né robot, se ne stanno sdraiati per tutto il giorno in un deserto disseminato di ogni sorta di rifiuti e non fanno altro che grattarsi la schiena e tirarsi il naso. No, ci deve essere qualche terribile segreto dietro tutto questo, e io non mi fermerò finché non l’avrò scoperto!’

«Poi pensai: ’Deve trattarsi davvero di un segreto terribile, per giustificare non soltanto la forma cubica del sole e del pianeta, ma anche le statuine pornografiche all’interno di un corpo e i messaggi insultanti nell’orecchio di un altro!

«‘Ho sempre pensato che se io, un semplice robot, posso dedicare la mia vita allo studio e alla ricerca di conoscenze, il tipo di fermento intellettuale che doveva regnare tra queste creature maggiormente sviluppate… anzi, le più sviluppate dell’universo_ doveva essere elevatissimo!

«‘Eppure, queste creature, qualunque cosa facciano, non passano certamente il tempo in conversazioni elevate: non si degnano neppure di rispondere alle domande. Perciò, dovrò costringerle a farlo, ma come?

«‘Forse, se darò loro fastidio, se romperò le scatole, per così dire, diventerò talmente irritante che accetteranno qualsiasi cosa, pur di liberarsi di me!

«‘Naturalmente, c’è qualche rischio: potrebbero irritarsi, e, senza dubbio, potrebbero distruggermi con la stessa facilità con cui si schiaccia una mosca…

«‘Ma no, non posso credere che siano disposti a ricorrere alla violenza — e poi, devo sapere! Bene, diamoci da fare!

«Nell’oscurità, mi alzai e cominciai a gridare con quanto fiato avevo in gola, poi mi misi a fare salti e capriole, presi a calci la sabbia e gliela scagliai negli occhi, danzai e cantai fino a rimanere senza voce, feci parecchi piegamenti sulle braccia e sulle ginocchia, infine mi misi a correre in mezzo a loro come un cane impazzito.

«Gli abitanti del pianeta mi girarono le spalle e sollevarono coperte e cuscini per proteggersi, e infine, quando ero giunto alla mia centesima capriola, sentii una voce che mi diceva, dentro la testa: ’Che commenti farebbe il tuo buon amico Trurl, se potesse vederti adesso, se potesse vedere come passi il tempo sul pianeta che ha raggiunto il Massimo Livello di Sviluppo Possibile, dove abita la Civiltà Più Progredita dell’Intero Universo?’

«Ma io non mi curai del suggerimento e continuai a urlare e a battere i piedi, incoraggiato da quello che si dicevano tra loro:

",Pss!’

«‘Che cosa vuoi?’

’Lo senti?’

«‘Come potrei evitare di sentirlo? Mi ha praticamente spaccato la testa con uno dei suoi calci’.

«‘Puoi sempre cambiarla’.

’Sì, ma non posso dormire’.

«‘Come?’

«‘Ho detto che non posso dormire!’

«‘E’ curioso’ sussurrò un terzo.

«‘E’ «tremendamente» curioso’.

«‘Questo è davvero troppo. Dobbiamo fare qualcosa’.

«‘Cosa?’

«‘Non so… cambiargli la personalità?’

«‘No, sarebbe immorale’.

«‘Senti come grida!’

«‘Aspettate, ho un’idea…’

«Bisbigliarono qualcosa tra loro mentre io continuavo saltare e a fare un baccano del diavolo (concentrando gli sforzi soprattutto sull’area da cui provenivano i bisbigli). Poi, proprio mentre ero finito con la testa contro la pancia di qualcuno, tutto divenne nero e l’istante successivo mi trovai sulla mia nave, già in volo nello spazio.

«Le gambe mi facevano male per tutta quella ginnastica; ma in ogni caso non sarei riuscito a muovermi, perché sedevo in mezzo a una pila di tromboni, vasetti di marmellata verde, orsacchiotti di pezza, «glockenspiel» con campanelline d’argento, monete d’oro, copriorecchie in filo dorato, braccialetti e spille con un luccichio così intenso da costringermi a socchiudere le palpebre.

«Quando finalmente riuscii a divincolarmi da tutti quei tesori e mi trascinai a un boccaporto, vidi che le costellazioni erano completamente diverse — non c’era la minima traccia di qualcosa di simile a un sole cubico!

«Poi, con qualche breve calcolo, scoprii che avrei dovuto viaggiare per seimila anni alla massima velocità per fare ritorno dagli M.L.S.P. Si erano liberati di me, certamente. E se fossi ritornato da loro, non avrei ottenuto niente: questo era chiaro; mi avrebbero allontanato di nuovo, con la loro telecinesi spaziale istantanea, o quello che era.

«E così, mio caro Bonhommius, ho deciso di affrontare il problema in modo completamente diverso…»

«E con queste parole, gentilissimo e nobilissimo signore» disse Bonhommius «il famoso costruttore Klapaucius terminò la sua storia…»

«Non sarà finita lì, spero!» esclamò Trurl.

«No, ha detto molte altre cose, o mio benefattore! E qui sta la mia sfortuna!» rispose il robot, con grande turbamento. «Quando gli chiesi che cosa avesse deciso di fare, si chinò verso di me e disse…

’Il problema pareva davvero senza soluzione, a tutta prima, ma ho trovato un modo. Tu dici di essere vissuto come eremita ermetico e sei soltanto un semplice robot, privo di particolari conoscenze, e perciò non ti annoierò con spiegazioni legate all’arte misteriosa della generazione cibernetica.

«‘Per dirla in parole semplici, perciò, ci sarà sufficiente costruire un dispositivo digitale, un computer capace di dare un modello informazionale di qualunque cosa esista. Programmato nel modo giusto, ci fornirà un’esatta simulazione di una creatura al Massimo Livello di Sviluppo Possibile, e noi potremo interrogarla e ottenere da lei le risposte!’

«‘Ma come è possibile costruire un simile strumento?’ chiesi io. ’E come puoi essere sicuro, o illustre Klapaucius, che la sua risposta non consista nell’allontanarci con lo stesso sistema istamatico e iperstiziale, o quello che è, impiegato dai veri M.L.S.P. sulla tua riverita persona?’

«‘Lascia fare a me’ disse Klapaucius. ’E non temere, caro Bonhommius, perché io scoprirò il grande mistero degli M.L.S.P. e tu scoprirai il modo migliore per mettere a frutto la tua naturale avversione per il male!’

«Puoi immaginare, gentile signore, la grande gioia da me provata nell’udire quelle parole, e l’ansia con cui aiutai Klapaucius a realizzare il suo piano.

«Come presto scoprii, la macchina digitale da lui costruita non era altro che il famoso Gnostotrone descritto da Cloriano Teoretico il Prof. prima di morire, una macchina capace — letteralmente — di contenere l’intero universo nelle sue innumerevoli memorie. (Klapaucius, però, non era soddisfatto del nome, e di tanto in tanto ne proponeva qualcun altro: l’Omniac, il Pansofoscopio, il COPTO — Computer Ontologico per Tutti gli Obiettivi — o il Mahatmatico 500, per citarne alcuni.)

«In esattamente un anno e sei giorni, la grande macchina venne completata, ed era così enorme che dovemmo costruirla a Flafundria, la luna cava dei Filisti… e una formica all’interno di un transatlantico non si sentiva perduta come noi nelle viscere di quel gigante binario, tra i suoi infiniti cavi di collegamento, i suoi deviatori e trasformatori escatologici, i suoi raddrizzatori agiopneumatici e i suoi resistori tentazionali.

«Confesso che i miei capelli erano tutti ritti e le lamelle del mio alternatore persero un battito, quando il mio illustre maestro mi fece accomodare alla console centrale di comando, e mi lasciò faccia a faccia con quella tremenda, gigantesca costruzione.

«Le luci che si rincorrevano sui suoi pannelli non erano diverse dalle stelle del firmamento; dappertutto c’erano insegne che avvisavano PERICOLO: SUPREMAMENTE INEFFABILE! e i potenziometri, con le lancette che ruotavano follemente, indicavano come i campi logici e semantici salissero a inusitati livelli di intensità.

«Sotto i miei piedi si agitava un mare di saggezza preternaturale e pretermeccanica: una saggezza che si diffondeva come un incantesimo lungo interi parsec di circuiti e su mega-ettari di magneti, ruotava e mi circondava da ogni lato, cosicché, nella mia vergognosa ignoranza, mi sentivo come una semplice molecola di polvere.

«Superai quella debolezza soltanto ripensando alla mia vita, tutta dedicata al servizio del bene, e alla mia passione per la verità e la bellezza, concepita fin da quando ero una semplice scintilla nell’oscilloscopio del mio costruttore.

«Così rafforzato, riuscii a balbettare la prima domanda: ’Parla, che genere di macchina sei?’

«Dai suoi tubi rosseggianti si levò un vento caldo; e sulle ali di quel vento giunse una voce, un sussurro di tuono che mi segnò fino al cuore, come un marchio rovente. La voce disse: ’Ego sum Ens Omnipotens, Omnisapiens, in Spiritu Intellectronico Navigans, luce cybernetica ira saecula saeculorum litteris opera omnia cognoscens, et caetera, et caetera’.

«Tale fu la mia paura, nel sentire questa risposta, che non riuscii più a continuare l’interrogatorio, finché Klapaucius non ridusse la FEM (Forza Epistemotrice) a un millesimo del suo voltaggio precedente, regolando i teostati.

«Allora chiesi allo Gnostotrone se era disposto a usarmi la gentilezza di rispondere a domande relative al Massimo Livello di Sviluppo Possibile e al segreto della sua civiltà.

«Tuttavia, Klapaucius mi spiegò che non era quello il modo di procedere: occorreva invece chiedere al Computer Ontologico di costruire, nel proprio interno d’argento e di cristallo, il modello di un abitante del pianeta cubico, e nello stesso tempo di dotare il modello di un’adeguata dose di loquacità. Così fatto, eravamo pronti a iniziare.

«Io, però, tremavo e paventavo e non riuscivo a parlare. Così, fu Klapaucius che prese il mio posto davanti alla console centrale di comando e chiese: ’Che cosa sei?’

«‘Ho già risposto’ ribatté la macchina, evidentemente seccata.

«‘Voglio dire, sei uomo o robot?’ spiegò Klapaucius.

’E che differenza c’è, secondo te?’ commentò la macchina.

«‘Ascolta, se intendi rispondere alle mie domande con un’altra domanda, non arriveremo da nessuna parte’ disse Klapaucius, secco. ’Sai che cosa voglio. Parla!’

«Anche se il tono da lui usato nel parlare alla macchina mi allarmò, parve funzionare, perché la macchina disse: ’A volte gli uomini costruiscono robot, e a volte i robot costruiscono uomini. Che importa, in realtà, se una persona pensa con un circuito metallico o con un mucchio di protoplasma? Quanto a me, posso assumere la forma che voglio e la sostanza che voglio — ovvero, le potevo assumere, perché non perdiamo più il nostro tempo in questi giochetti’,

«‘Già’ commentò Klapaucius. ’Allora, perché ve ne state a dormire tutto il giorno e non fate niente?’

’E che cosa dovremmo fare, esattamente?’ ribatté la macchina.

«A queste parole, Klapaucius si irritò e disse: ’Come faccio a saperlo? Noi dei bassi livelli di sviluppo facciamo ogni genere di cose’.

«Te facevamo anche noi, ai nostri tempi’.

«‘E ora non più?’

«‘Ora non più’.

«‘Perché no?’

«Qui l’M.L.S.P. computerizzato si rifiutò di rispondere, dicendo di avere già sopportato sei milioni di interrogazioni come quella, senza che lui e gli interroganti ne traessero un qualsiasi vantaggio. Ma dopo che Klapaucius ebbe alzato la loquacità e regolato qualche leva, il computer rispose:

‘Un trilione di anni fa, eravamo una civiltà come tutte le altre — credevamo nella trasmissione delle anime, nella Vergine Matrice, nell’infallibilità di PI quadro, consideravamo la preghiera come un feedback rigenerativo per il Massimo Programmatore e così via. Poi comparvero gli scettici, gli empiristi e gli accidentalisti, e in nove secoli arrivammo alla conclusione che Lassù non c’era Nessuno, e che di conseguenza le cose non accadevano perché erano predestinate da qualche scopo o da qualche piano superiore, ma… be’ accadevano e basta’.

«‘Accadevano e basta?’ non potei fare a meno di esclamare. ’Cosa intendi dire?’

’Di tanto in tanto nascono robot deformi’ spiegò la voce. ’Se tu fossi afflitto da una gobba, per esempio, ma credessi fermamente che l’Onnipotente ha bisogno della tua gobba per realizzare il suo Progetto Cosmico e che perciò quella gobba era prestabilita insieme al resto del Creato, ecco che tu accetteresti la tua deformità. Se invece ti dicessero che è solo l’effetto di una molecola fuori posto, allora non ti rimarrebbe che abbaiare alla luna’.

‘Ma una gobba si può raddrizzare’ protestai io ’e qualsiasi altra deformità si può correggere, se si possiede un livello scientifico sufficientemente alto!’

«‘Sì, lo so’ sospirò la macchina. ’E’ così che ragionano gli ignoranti e i sempliciotti…’

«Tuoi dire che non è vero?’ esclamammo io e Klapaucius, stupefatti.

«‘Quando una civiltà comincia a raddrizzare le gobbe’ disse la macchina ’credetemi, non si sa dove si va a finire! Raddrizzate le gobbe, passate a potenziare la mente, a rendere rettilinei i soli, a mettere le gambe ai pianeti e a fabbricare destini e fortune di tutti i tipi…

«‘Oh, la cosa inizia in modo abbastanza innocente, si scopre il fuoco strofinando due bastoncini, ma alla fine si arriva alla costruzione di macchine pensanti che usurpano il lavoro agli dèi: Ommac, Deofatti, Iperboreoni e Ultimathulorii!

«‘Il deserto del nostro pianeta non è realmente un deserto, ma un Giga-gnostotrone, in altre parole una macchina 10 alla nove volte superiore a questo vostro scherzetto primitivo.

‘I nostri antenati l’hanno creato per la semplice ragione che ogni altra realizzazione sarebbe stata troppo facile per loro; nella loro megalomania hanno pensato di rendere intelligente la stessa sabbia che stava sotto i loro piedi. Cosa inutile, perché non c’è modo di migliorare quello che è già perfetto, riuscite a capirlo, voi sottosviluppati?’

«‘Sì, certo’ rispose Klapaucius, mentre io tremavo. ’Ma perché, invece di dedicarvi a qualche attività stimolante, vi stendete su quella sabbia così intelligente e la vostra unica attività si riduce a grattarvi di tanto in tanto?’

«‘Il massimo potenziale dell’onnipotenza si raggiunge quando non si fa niente’ rispose la macchina. ’Vi arrampicate e vi arrampicate per arrivare in cima, ma, una volta lassù, scoprite che tutte le strade portano in basso! Noi, dopotutto, siamo persone di buon senso: perché dovremmo voler fare qualcosa?

«‘I nostri antenati — è vero — hanno trasformato il nostro sole in un cubo e hanno fatto diventare una scatola il nostro pianeta, scrivendo monogrammi sulle pietre delle sue montagne, ma l’hanno fatto unicamente per mettere alla prova il loro Gnostotrone.

«‘Alla stessa stregua, avrebbero potuto disporre le stelle secondo i quadrati di una scacchiera, spegnendo metà del cielo e accendendo l’altra metà, costruire creature popolate di creature inferiori, giganti i cui pensieri fossero i movimenti complessi di milioni di pigmei, o avrebbero potuto ridisegnare le galassie, rivedere le leggi del tempo e dello spazio… ma, dimmi, che senso avrebbe avuto tutto questo? L’universo sarebbe migliore, se le stelle fossero triangolari o se le comete avessero le ruote?’

«‘E’assurdo!’ gridò Klapaucius, indignatissimo, mentre io tremavo per la paura. ’Se siete davvero degli dèi, il vostro dovere è chiaro: allontanare immediatamente tutti i dolori e le disgrazie che affliggono gli altri esseri senzienti! Potreste almeno cominciare con i vostri poveri vicini… ho visto con i miei occhi come combattono tra loro! Ma no, preferite ciondolare tutto il giorno e grattarvi il naso, o insultare i poveri viaggiatori che vengono tra voi in cerca di conoscenza, farvi uscire messaggi umoristici dalle orecchie o far ballare statuine indecenti nelle vostre pance!’

«‘Vedo che non possiedi alcun senso dell’umorismo’ disse la macchina. ’Ma basta. Se ti ho capito bene, vorresti che noi dessimo la felicità a tutto l’universo. Be’, abbiamo dedicato più di quindicimila anni esclusivamente a quel progetto… ossia alla tettonica eudemonica, che rientra fondamentalmente in due scuole: quella brusca e rivoluzionaria, e quella lenta ed evoluzionistica.

«La tettonica eudemonica evoluzionistica consiste essenzialmente nel non alzare un dito per aiutare, nella convinzione che ogni civiltà finirà per farcela, prima o poi, con i propri mezzi. Le soluzioni rivoluzionarie, viceversa, si riducono tutte a due tipi: Carota e Bastone.

«‘Il Bastone — ossia dare la felicità con la forza — produce da una a ottocento volte più sofferenze che il non intervenire affatto. Quanto alla Carota, il risultato, lo crediate o no, è esattamente lo stesso e questo vale anche nel caso che usiate le rispettive macchine: nel secondo caso un Ultradeofatto o un Ipergnostotrone, e nel primo un Inferriac o un Gehennatore. Sapete, probabilmente, che cos’è la Nebulosa del Granchio?’

«‘Certo’ rispose subito Klapaucius. ’Sono i resti di una supernova esplosa molto tempo fa…’

«‘Supernova, dice lui’ ironizzò la macchina. ’No, mio benintenzionato amico, laggiù c’era un pianeta, con una civiltà piuttosto elevata, secondo la solita scala delle civiltà, che tirava avanti con la solita quantità di sangue, sudore e lacrime.

«‘Comunque, per farla breve, un bel mattino noi sganciammo su quel pianeta ottocento milioni di Soddisfattori di Desideri Universali, completamente transistorizzati, ma eravamo a meno di una settimana-luce dal pianeta, e stavamo tornando a casa, quando quel mondo esplose senza preavviso… e i pezzi si stanno ancora espandendo in tutte le direzioni!

«‘La stessa cosa accadde al pianeta degli Ominati… vuoi sentire la storia?’

«‘No, non disturbarti’ replicò Klapaucius, seccato. ’Comunque, mi rifiuto di credere che sia impossibile, con un po’ di ingegnosità, rendere felici gli altri!’

«‘Credi quello che ti pare! Noi abbiamo fatto quel tentativo sessantaquattromilacinquecentotredici volte. Mi si rizzano i peli su ciascuno dei miei crani, quando penso al risultato.

‘Oh, non ci siamo risparmiati fatiche per il bene delle altre creature! Abbiamo inventato una particolare telecamera per vedere i sogni, anche se capirai, naturalmente, che se su un pianeta ci fosse una guerra di religione e ciascuno dei contendenti sognasse soltanto di massacrare l’altro, ci guarderemmo bene dal realizzare quei sogni!

«‘Comunque, dovevamo dare la felicità senza violare le Leggi Superiori. Il problema era ulteriormente complicato dal fatto che la maggior parte delle civiltà cosmiche desidera, nel profondo del cuore, cose che non ammetterebbe mai apertamente di volere. Allora, che fai: li aiuti a raggiungere gli obiettivi che ammettono apertamente — con quel poco di decenza che gli rimane — di voler raggiungere, o soddisfi invece i loro desideri nascosti?

«‘Prendi per esempio i Demenziani e gli Amenziani. I Demenziani, nella loro malintesa religiosità medievale, bruciavano sul rogo tutti coloro che facevano commercio con il diavolo, soprattutto femmine, e lo facevano perché, primo, invidiavano i loro godimenti blasfemi e, secondo, perché avevano scoperto che torturare la gente con la scusa di amministrare la giustizia poteva dare un grande piacere.

«‘Gli Amenziani, invece, non veneravano altro che il loro corpo, e lo eccitavano mediante apposite macchine — anche se lo facevano in modo abbastanza modesto — e questa attività costituiva il loro massimo divertimento.

«‘Avevano certe loro scatole di vetro, in cui osservavano scene di violenza, stupro e mutilazione: tutte scene che servivano a destare i loro appetiti sessuali.

«‘Su quei pianeti sganciammo una moltitudine di dispositivi capaci di soddisfare quei desideri senza danneggiare nessuno: ciascuno strumento creava una distinta realtà artificiale per ciascun individuo. Entro sei settimane, Demenziani e Amenziani erano morti dal primo all’ultimo, per un travaso di gioia, gemendo per l’estasi mentre si spegnevano! E’ questo il tipo di ingegnosità a cui ti riferivi, o sottosviluppato?’

«‘O sei un completo idiota, o sei un mostro!’ gridò Klapaucius, mentre io riuscivo soltanto a battere le palpebre e a inghiottire a vuoto. ’Come puoi vantarti di imprese così scellerate?’

«‘Non me ne vanto affatto; mi limito a riferirle’ rispose con calma la macchina. ’Il punto è questo: abbiamo utilizzato tutti i metodi immaginabili. Su alcuni pianeti abbiamo provato con una vera pioggia di ricchezze, una pioggia di soddisfazione e di benessere, e il risultato è stato la completa paralisi; abbiamo dato buoni suggerimenti, i consigli più esperti, e come ringraziamento i nativi hanno aperto il fuoco contro le nostre navi. In verità, si ha l’impressione di dover cambiare la testa alla gente, per renderla felice…’

«‘Suppongo che possiate fare anche quello…’ brontolò Klapaucius.

«‘Certo che possiamo farlo! Prendi i nostri vicini, per esempio, quelli che abitano un pianeta quasi-terrestre (o, se preferisci, geomorfo). In particolare prendi una delle due fazioni, quella degli Antropodi. Ora, quelle creature si dedicano esclusivamente all’obbio e alla perplessione, perché hanno un terrore mortale dei Dughi, che secondo loro abitano nell’Oltrequa e aspettano con ansia l’arrivo dei peccatori, per torturarli con zanne, artigli e carboni accesi.

«‘Grazie all’imitazione dei beati Dimbligenti, seguendo la Via di Wambe il Santone ed evitando ogni contatto con l’Oddia e gli Abominèmini, un giovane Antropodo può diventare col tempo più industrioso, più virtuoso e più onorevole dei suoi antenati quadrumani.

«‘Va ammesso che gli Antropodi sono da sempre in guerra con l’altra nazione del pianeta, gli Artropoidi, per la «vexata quaestio» religiosa ed epistemologica delle Talpe e delle Tane, che si può così riassumere: E’ la talpa ad avere una tana o è la tana ad avere una talpa? ma in genere, in quella guerra, le perdite non arrivano neppure a metà di ogni nuova generazione.

«‘Ora, tu vorresti che togliessi dalia loro testa ogni credenza nell’obbio, nei Dimbligenti e in tutto il resto, per prepararli alla felicità che deriva dalla ragione. Eppure, questo equivarrebbe a un genocidio mentale, perché il tipo di mentalità che ne verrebbe fuori non sarebbe più né Antropodo né Artropoide… lo capisci anche tu, vero?’

«‘La superstizione deve sparire, davanti alla scienza’ disse Klapaucius, in tono fermo.

«‘Senza dubbio!’ rispose la macchina. ’Ma ti prego cortesemente di osservare che su quel pianeta ci sono attualmente circa sette milioni di penitenti che hanno trascorso l’intera vita a cercare di vincere le loro inclinazioni naturali, in modo da salvare dai Dughi i loro compagni.

‘E io, in pochi istanti, dovrei convincerli, al di là di qualsiasi dubbio, che i loro sforzi sono vani, che hanno sprecato la loro vita in sacrifici inutili e vuoti?

«‘Sarebbe un atto estremamente crudele! La superstizione deve ritirarsi davanti alla scienza, certo, ma la cosa richiede tempo. Considera il gobbo di cui parlavamo: nel suo caso, l’ignoranza corrisponde davvero alla felicità perché crede che la sua gobba svolga un ruolo cosmico nella grande opera divina della creazione. Dirgli che lui, in realtà, è frutto di uno sbaglio a livello molecolare servirebbe soltanto a farlo cadere nella disperazione. Meglio raddrizzargli la gobba, e basta…’

«‘Certo!’ esclamò Klapaucius.

«‘E noi abbiamo fatto anche quello’ continuò la macchina. ’Una volta, mio nonno ha raddrizzato trecento gobbe con un solo gesto della mano. E quanto se ne è pentito, in seguito!’

«‘Perché?’ non potei fare a meno di chiedere.

«‘Perché? Cento e dodici di loro vennero immediatamente messi a bollire nell’olio, perché la guarigione improvvisa e miracolosa venne presa per una chiara indicazione del fatto che avessero venduto l’anima al diavolo. Trenta altri, non più esonerati dal servizio militare, vennero subito presi in forza da qualche battaglione e morirono sull’uno o sull’altro dei vari fronti.

«‘Altri diciassette morirono subito, per l’emozione causata da quel colpo di fortuna, e gli altri — dato che il mio stimato progenitore aveva deciso di dare loro anche una notevole bellezza fisica — morirono a causa dei loro eccessi erotici… vedi, dopo essere stati privati per tanto tempo di quei piaceri, si diedero a ogni sorta di stravizi, ma in modo così violento e sfrenato, che in capo a due anni non ne era più rimasto nessuno. A parte qualche eccezione di poco conto, che non è il caso di citare, l’esperimento finì in un insuccesso’.

’No, parla anche di quelli!’ gridò Klapaucius. Gettai l’occhio su di lui e vidi che era molto turbato.

«‘Se insisti… In realtà ne rimasero due. Il primo si presentò a mio nonno e lo pregò in ginocchio di ridargli la gobba. Pare che da invalido vivesse abbastanza bene delle elemosine che raccoglieva, mentre adesso doveva lavorare ed era poco abituato alla fatica. Peggio ancora, adesso che aveva la schiena dritta, continuava a battere contro l’architrave delle porte…’

«‘E l’altro?’ chiese Klapaucius.

«‘L’altro era un Principe escluso dalla successione al trono a causa della sua deformità. Dopo l’improvvisa correzione del suo difetto, la matrigna, per assicurare la successione al proprio figlio, lo fece avvelenare…’

«‘Capisco…’ fece Klapaucius, in tono leggermente disperato. ’Però, siete in grado di compiere miracoli, vero?’

«‘Dare la felicità con un miracolo è sempre rischioso’ sentenziò la macchina. ’E, poi, chi dovrà essere miracolato? Un individuo? Ma la troppa bellezza nuoce alla fedeltà nel matrimonio, la troppa conoscenza porta all’isolamento, e la troppa ricchezza porta alla follia.

«‘No, ti dico, mille volte no! Gli individui, è impossibile renderli felici, e per quel che riguarda le civiltà… le civiltà è bene non toccarle, perché ciascuna deve seguire la propria strada, progredire naturalmente da un livello di sviluppo all’altro e deve poter ringraziare soltanto se stessa del bene e del male che gliene viene in conseguenza.

«‘Per noi al Più Alto Livello Possibile, non resta niente da fare in questo universo, e creare un altro universo, a parer mio, sarebbe una prova di pessimo gusto.

«‘In effetti, quale ne sarebbe lo scopo? Per vantarci di noi? Idea mostruosa! Per il bene, allora, di coloro che nasceranno? Ma che obbligo abbiamo nei confronti di creature che non esistono neppure? Per poter agire, bisogna non essere onnipotenti. Altrimenti, è meglio limitarsi a guardare senza agire… E adesso, se tu volessi gentilmente lasciarmi in pace…’

«‘Aspetta!’ esclamai io, allarmato. ’Certo puoi darci qualcosa, qualche mezzo per migliorare la qualità della vita, anche se soltanto di poco! Un modo per aiutare qualcuno! Ricorda la Regola Aurea: Ama il Tuo Prossimo!’

«La macchina sospirò e disse: ’Come sempre, ho parlato ai sordi. Era meglio allontanarti subito, come abbiamo fatto la scorsa volta…

«‘Benissimo, allora. Ho qui una formula che non abbiamo ancora sperimentato. Non ne verrà fuori niente di buono, come scoprirete a vostre spese, ma fate come vi pare! Adesso lasciatemi solo a meditare con i miei teostati e deiodi’.

«La voce si spense pian piano, le luci del quadro di comando si abbassarono, e noi leggemmo il foglio che la macchina aveva stampato per noi. Diceva pressappoco così:

«ALTRUIZINA.

Agente trasmettitore metapsicotropo efficace per tutti i senzienti Homoproteici. Il preparato duplica negli altri, per un raggio di cinquanta metri, tutte le sensazioni, emozioni e gli stati mentali sperimentati dal soggetto. Opera per telepatia, ma rispetta la privacy dei pensieri. Non ha effetto su robot e vegetali. Le sensazioni del trasmittente vengono amplificate e il segnale originario viene poi rimesso in ciclo dai riceventi, con effetto di risonanza proporzionale al numero di individui situato nei paraggi. Secondo il suo inventore, ALTRUIZINA assicura un regno indisturbato di fratellanza, cooperazione e compassione in ogni società, perché i vicini di un uomo felice devono condividere la sua felicità, e più felice è lui, più felici saranno loro, e di conseguenza è nel loro interesse volergli bene. Se dovesse subire qualche danno, correrebbero subito ad aiutarlo, per risparmiarsi i dolori indotti dal suo. Pareti, cancelli, siepi e ostacoli in genere non sono in grado di indebolire l’effetto altruizzante del farmaco. La sostanza è solubile in acqua e può essere somministrata mediante serbatoi, fiumi, pozzi e simili. E’ inodore e insapore. Un solo milligrammo è sufficiente per centomila individui. Non ci assumiamo responsabilità per effetti non corrispondenti alle affermazioni dell’inventore. Fornita dal rappresentante computerizzato gnostotronico dei Massimo Liv. Svil. Poss.

«Klapaucius era un po’ deluso dal fatto che l’Altruizina funzionasse soltanto sugli umani, cosa che significava che i robot avrebbero dovuto continuare a sopportare la loro sfortuna in questo mondo. Io, però, gli ricordai il dovere di solidarietà tra tutti gli esseri pensanti e la necessità di aiutare i nostri fratelli organici. C’erano da risolvere alcuni problemi pratici, ma entrambi fummo d’accordo su una cosa: il lavoro di dare la felicità non si poteva rimandare.

«Così, mentre Klapaucius faceva preparare allo Gnostotrone una buona dose di sostanza, scelsi un pianeta geomorfo, popolato da umani, a un giorno di viaggio.

«Come benefattore intendevo rimanere anonimo, e di conseguenza il mio illustre mèntore mi consigliò, una volta arrivato sul pianeta, di assumere forma umana, cosa che, come certo sai, è tutt’altro che semplice. Eppure, anche in questo caso il grande costruttore superò difficoltà soverchianti e presto fui pronto per la partenza, con una valigia per mano.

«La prima valigia conteneva quaranta chilogrammi di Altruizina in polvere, nell’altra c’erano pigiama, biancheria, nasi, capelli, occhi finti di scorta e così via. L’aspetto con cui mi presentavo era quello di un giovanotto ben proporzionato con folti baffi e frangetta.

«Ora, Klapaucius cominciò ad avere qualche dubbio sull’opportunità di applicare l’Altruizina su una scala così ampia, e anche se io non condividevo le sue riserve, gli promisi di fare una prova su piccola scala non appena arrivato su Terraria (così si chiamava il pianeta). Io non vedevo l’ora di iniziare la grande seminagione della pace e della fratellanza universali: così, dissi arrivederci a Klapaucius e mi affrettai a partire.

«Per condurre la prova, mi recai, subito dopo il mio arrivo, in una piccola cittadina, dove presi alloggio in una locanda gestita da un vecchio che non mi pareva particolarmente sveglio. Mentre portavano il mio bagaglio dal carro alla mia stanza, riuscii a gettare un pizzico di polvere nel pozzo in mezzo al cortile.

«Intanto, c’era una grande confusione, con ragazze che correvano avanti e indietro portando secchi di acqua calda; l’oste le insultò tutte; poi sentii arrivare un altro carro: ne uscì un vecchio con una borsa di cuoio nera, da medico… ma, invece di recarsi in casa, si recò nella stalla, da cui giungevano i gemiti più disperati.

«Come venni a sapere dalla cameriera, una bestia terraria appartenente all’oste — una mucca, mi disse — si stava riproducendo proprio in quel momento. La notizia mi preoccupò notevolmente: non avevo mai preso in considerazione la presenza animalesca. Ma ormai non potevo fare nulla: perciò mi chiusi nella mia stanza, in attesa che succedesse qualcosa.

«E non dovetti aspettare molto. Stavo ascoltando il rumore della catena del pozzo che scorreva nella carrucola — laggiù prendevano ancora l’acqua dal sottosuolo — quando la mucca muggì di nuovo… e questa volta le fecero eco parecchie altre voci.

«Immediatamente, il veterinario uscì di corsa dalla stalla, urlando e tenendosi in mano la pancia, seguito dalle cameriere e dal locandiere. Scossi dalle doglie della mucca, lanciarono un grande grido e fuggirono in tutte le direzioni… per poi tornare subito indietro, perché a una certa distanza il dolore spariva.

«Parecchie volte corsero verso la stalla e altrettante volte dovettero ritornare indietro, piegati su se stessi per il dolore delle contrazioni. Afflitto da quello sviluppo imprevisto, mi dissi che era necessario andare in città, se si voleva provare il farmaco nel modo migliore, perché laggiù non c’erano animali.

«Così, rifeci le valigie e andai a pagare il conto, ma nessuno mi dava retta, perché tutti soffrivano per le doglie dell’animale. Quando arrivai al mio carro, trovai cavalli e cocchiere sofferenti dei dolori del parto e perciò decisi di raggiungere a piedi la città.

«Stavo passando su un piccolo ponte, quando, come volle la mia sfortuna, mi sfuggi di mano la valigia e, cadendo, si aprì in modo da rovesciare nel fiume tutta la mia scorta di polvere. Io rimasi a guardare, ammutolito, mentre la corrente si impadroniva dei miei quaranta chilogrammi di Altruizina e li scioglieva. Ormai non c’era più niente da fare, perché il dado era tratto: quel fiume riforniva di acqua potabile la città.

«Quando raggiunsi l’abitato era già sera, e le luci erano accese; le strade erano piene di gente; io trovai un piccolo albergo, un luogo da dove osservare gli effetti della sostanza, anche se per il momento non parevano essercene.

«Stanco per aver viaggiato tutto il giorno, andai subito a dormire, ma venni svegliato in piena notte da un coro di grida davvero orrende. Buttai via le coperte e mi alzai: la mia stanza era illuminata dalle fiamme dell’edificio di fronte, a cui era stato appiccato fuoco.

«Quando scesi in strada, inciampai in un cadavere ancora caldo. Lì accanto, sei delinquenti tenevano fermo un vecchio, che gridava disperatamente aiuto, e gli strappavano dalle mascelle un dente dopo l’altro, con un paio di pinze… finché un unanime grido di trionfo non annunciò che finalmente avevano trovato quello che cercavano: il dente cariato che li aveva fatti impazzire a causa delle trasmissioni psicotrope. Poi, molto più sollevati, lasciarono nel fossato, più morto che vivo, il vecchio ormai sdentato.

«Tuttavia, non era stato quell’episodio a svegliarmi, ma ciò che stava accadendo in una taverna dall’altra parte della strada. Pareva che un sollevatore di pesi, ubriaco, avesse dato un pugno al compagno, e che, avendo sentito immediatamente il dolore del colpo, si fosse davvero arrabbiato e avesse preso a dargliele di santa ragione.

«Intanto, gli altri avventori, non meno indignati, si erano uniti alla mischia, e il cerchio di azione e reazione era arrivato a tali proporzioni da destare metà di coloro che dormivano nel mio albergo.

«Questi si erano armati di bastoni, scope e altre armi improprie, e, in camicia da notte, si erano uniti alla battaglia, piombando in massa tra le bottiglie rotte e i tavolini rovesciati, finché, a causa di un lume a petrolio caduto in terra, non era scoppiato l’incendio.

«Assordato dalle sirene dei carri dei pompieri — oltre che dai gemiti dei feriti — corsi via, e dopo un paio di isolati mi trovai in mezzo a una piccola folla che si era raccolta davanti a una graziosa casetta bianca con cespugli pieni di rose nel giardino.

«A quanto capii, all’interno c’erano due sposini che consumavano la prima notte di nozze. La ressa era incredibile, la gente spingeva per avvicinarsi di più, e in mezzo al gruppo scorsi uomini in divisa militare, altri in abito talare, perfino studentelli delle medie inferiori; i più vicini infilavano la testa nelle finestre, altri saltavano sulle spalle di quest’ultima e gridavano: B allora? Che cavolo aspetti? Smettila di cincischiare, sbrigati a concludere!’ e altre frasi del genere.

«Un vecchio signore, troppo debole per farsi largo a forza di gomitate, piagnucolava che lo lasciassero passare: a quella distanza non riusciva a provare niente, perché l’età gli aveva indebolito le facoltà mentali.

«Le sue perorazioni, però, non vennero ascoltate da nessuno — nella folla, alcuni erano persi in un trasporto deliziato, altri gemevano di piacere, mentre altri fumavano voluttuosamente.

«Dapprima i parenti degli sposini avevano cercato di allontanare gli intrusi, ma presto erano stati travolti anch’essi dall’ondata generale di concupiscenza e si erano uniti al coro di scurrilità, incoraggiando la giovane coppia ad audacie sempre maggiori. Nel triste spettacolo, una parte di primo piano era svolta dal nonno dello sposo, che cercava di sfondare, con la sua sedia a rotelle, la porta della camera.

«Terrorizzato, mi affrettai a fare ritorno in albergo, e per strada mi imbattei in parecchi gruppi, alcuni intenti a combattere, altri ad abbracciarsi con lascivia. Eppure questo non era niente, rispetto a quel che vidi in albergo.

«La gente saltava dalla finestra, in camicia da notte, e molti si rompevano le gambe quando toccavano terra; altri erano saliti sul tetto, mentre il proprietario, la moglie, le cameriere e i facchini correvano avanti e indietro per i corridoi, urlavano, andavano a nascondersi negli sgabuzzini o sotto i letti… tutto perché in cantina c’era un gatto che dava la caccia a un topo.

«Cominciai a capire di essere stato un po’ precipitoso, nel mio zelo. All’alba, l’effetto dell’Altruizina era talmente forte che se a una persona prudeva il naso, l’intero vicinato si metteva a starnutire. Coloro che soffrivano di emicrania cronica venivano abbandonati dai famigliari e i medici e le infermiere fuggivano in preda al panico quando li vedevano avvicinarsi… solo qualche squallido masochista rimaneva attorno a loro, ansimando pesantemente.

«Poi c’erano i dubbiosi, che colpivano a calci o pugni i loro compagni, soltanto per accertare se la straordinaria trasmissione di emozioni, di cui tutti parlavano, fosse vera, e i compagni erano svelti a restituire loro il favore, e presto l’intera città echeggiava del suono di schiaffi e pedate.

«All’ora di colazione, aggirandomi nelle strade in preda a una sorta di triste stupefazione, incontrai una moltitudine piangente, che rincorreva una vecchia in gramaglie e scagliava pietre contro di lei. Venni a sapere che era la vedova di un negoziante molto stimato, che era morto il giorno precedente e doveva essere sepolto quella mattina.

«Il dolore inconsolabile della povera donna aveva esasperato a tal punto i suoi vicini, e i vicini dei suoi vicini, che, incapaci di confortarla in qualsiasi modo, la volevano cacciare dalla città.

«Con questa triste visione che gravava sul mio cuore, tornai in albergo, e lo trovai avvolto dalle fiamme. A quanto pareva, la cuoca si era bruciata un dito perché l’aveva inavvertitamente infilato nella minestra, e il suo dolore aveva indotto un certo capitano, che in quel momento puliva il fucile all’ultimo piano, a tirare il grilletto, e così a uccidere, senza volere, moglie e quattro figli.

«A quel punto, tutti coloro che erano rimasti in albergo avevano condiviso la disperazione del capitano, il suo desiderio di porre fine ai suoi giorni; poi, un individuo più pietoso degli altri, per arginare la sofferenza generale, aveva spruzzato di kerosene tutti quelli che aveva trovato e gli aveva dato fuoco.

«Io corsi via dall’incendio come se fossi posseduto dal demonio, e cercai freneticamente almeno un uomo che, in un modo qualsiasi, fosse riuscito a ottenere la felicità dall’Altruizina… ma incontrai solo qualche disperso, reduce dalla partecipazione di massa alla notte nuziale.

«Né si peritavano di discuterne ad alta voce, i ribaldi; a quanto pareva, lo spettacolo fornito dai due sposini aveva deluso le loro aspettative. Intanto, procedendo per la strada, ciascuno di quegli sposi per procura s’era munito di bastone, e lo usava contro i sofferenti che osavano passargli davanti.

«Io avrei preferito morire di vergogna e di dolore, ma continuai a cercare un uomo — uno solo mi sarebbe bastato — che potesse lenire i miei rimorsi. Interrogando vari passanti, alla fine ottenni l’indirizzo di un famoso filosofo, un vero campione della fratellanza e della tolleranza universali, e mi diressi con ansia verso casa sua, sicuro di trovare, attorno all’edificio, un grande mucchio di persone.

«Ma, ahimè! Alla sua porta faceva le fusa solo qualche gatto, crogiolandosi nell’aura di buona volontà emanata con tanta abbondanza da quel saggio… ma c’erano anche parecchi cani, che, seduti fuori portata, aspettavano che andassero via, con l’acquolina in bocca. Passò uno storpio, gridando: ’Attento, piove!’ ma io non capii che cosa gli fosse venuto in mente. Guardai il cielo e vidi che era sereno.

«Mentre ero fermo davanti alla casa del filosofo, si avvicinarono due uomini. Uno mi fissò ben bene negli occhi, poi diede una bastonata al compagno, sul naso. lo li guardai senza capire, ma non mi venne in mente di gridare o di afferrarmi il naso a mia volta, perché, essendo un robot, non avrei potuto sentire il colpo, e fu proprio questo particolare a tradirmi, perché quei due erano poliziotti ed erano ricorsi a quella sceneggiata per smascherarmi.

«Ammanettato e portato in prigione, io confessai tutto, sicuro del fatto che avrebbero tenuto presenti le mie oneste intenzioni, anche se ormai una buona metà della città era andata distrutta.

«Prima, però, mi colpirono cautamente con dei punteruoli, poi, accertatisi che la cosa non produceva spiacevoli effetti su di loro, saltarono sopra di me e cominciarono a martellare ogni piastra e ogni filo del mio stanco corpo.

«Ah, i tormenti che ho subito, e tutto per aver cercato di renderli felici!

«Alla fine, quel che rimaneva di me venne infilato in un cannone e sparato nello spazio cosmico, buio e sereno come sempre. Mentre volavo, mi guardai alle spalle e vidi, anche se poco distintamente, l’influenza sempre più vasta dell’Altruizina, che si diffondeva man mano che fiumi e ruscelli la portavano sempre più lontano.

«Vidi quel che succedeva agli uccelli delle foreste, ai monaci e alle capre, ai cavalieri e agli abitanti dei villaggi, e alle loro mogli e ai loro nidi, alle vergini e alle matrone, e quella vista fece scoppiare per il dolore anche i miei ultimi tubi, e in questo stato finii per cadere, o gentilissimo e nobilissimo signore, non lontano dalla tua abitazione, guarito una volta per tutte dal desiderio di dare la felicità agli altri, con mezzi rivoluzionari…»

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