LA STORIA DELLA TERZA MACCHINA OVVERO MYMOSH IL FIGLIO DI SE STESSO

Questa storia narra di come il Grande Costruttore Trurl, per il tramite di una normalissima brocca, desse origine a una fluttuazione locale, e di quel che poi ne fu.


Nella Costellazione del Cacciavite c’era una galassia a spirale, e in quella galassia c’era una nebulosa nera, e nella nebulosa c’erano cinque ammassi del sesto ordine, nel quinto e ultimo dei quali c’era un sole color lillà, molto vecchio e pallido, e attorno a quel sole orbitavano sette pianeti, e il terzo aveva due lune, e in tutti quei soli e stelle e pianeti e lune aveva luogo una varietà di eventi svariati e variabili, che tuttavia ricadeva entro distribuzioni statistiche perfettamente normali, e sulla seconda luna del terzo pianeta del sole lillà del quinto ammasso della Nebulosa Nera della galassia a spirale della Costellazione del Cacciavite c’era una discarica di rifiuti, il tipo di discarica che si può incontrare su ogni luna e ogni pianeta, assolutamente nella media — ossia piena di rottami e spazzatura — venuta in esistenza perché un tempo gli aberrazionisti globerici avevano mosso guerra — una guerra del tipo a fissione e a fusione — contro i geni albumenidi, con la naturale conseguenza che i loro ponti, strade, case e palazzi, e naturalmente essi stessi, si erano ridotti in polvere e rottami, che poi i venti solari avevano sospinto nel luogo di cui parliamo.

Ora, per molti e moltissimi secoli non avvenne altro, nella discarica, che l’arrivo di nuovi rifiuti, anche se una volta si verificò un terremoto che portò in cima i rifiuti che erano in fondo, e in fondo quelli che erano in cima, cosa che in se stessa non rivestiva alcun particolare significato simbolico, ma che preparò la strada a un fenomeno assai inconsueto.

Infatti accadde che Trurl, il Favoloso Costruttore, mentre volava nei pressi, venne abbagliato da una cometa con la coda particolarmente splendente. Si allontanò subito dalla sua traiettoria, gettando freneticamente dall’oblò, come zavorra, tutto quello che gli capitava sotto mano; pezzi degli scacchi — del tipo cavo, che lui aveva riempito di liquore per il viaggio — certi fusti metallici usati dagli Ubidubbi di Clorelai per costringere gli avversari a capitolare, una manciata di utensili assortiti e una vecchia brocca di terracotta, con una crepa in mezzo e il manico staccato.

La brocca, accelerando in accordo con le leggi di gravità e sottoposta all’attrazione della coda della cometa, si schiantò sul fianco di una montagna sovrastante la discarica, ricadde, rotolò lungo una montagnola di rottami verso una pozzanghera, scivolò su un breve tratto di fango e alla fine urtò contro un vecchio barattolo di lamiera; l’urto piegò il metallo attorno a un filo di rame, e nello stesso tempo serrò tra la lamiera e il filo qualche pezzetto di mica: così si generò un condensatore, mentre il filo, piegato dal barattolo, costituì l’inizio di un’induttanza.

Una pietra, colpita dalla brocca, spostò a sua volta un pezzo di ferro arrugginito, che per caso era una calamita, e questo diede origine a una corrente, e la corrente passò per sedici altre lattine e pezzetti di filo, liberando un certo numero di solfuri e di cloruri, i cui atomi si legarono ad altri atomi, e le molecole che si formarono si collegarono ad altre molecole, finché, nel centro della discarica, non venne a crearsi un circuito logico, seguito da altri cinque, e da altri diciotto ancora, nel punto in cui la brocca finì per fermarsi.

Quella sera, qualcosa emerse dai margini della discarica, non lontano dalla pozzanghera che ormai si era asciugata, e questo «qualcosa», una creatura puramente accidentale, era Mymosh il Figlio di Se Stesso, che non aveva né madre né padre, ma era nato da sé, perché suo padre era la coincidenza, sua madre l’entropia.

Mymosh si sollevò dalla discarica, del tutto indifferente al fatto che la probabilità della sua esistenza era meno di una su cento miliardi di ziliardi elevati alla zilionesima potenza, e fece un passo, e poi ne fece altri, fino a raggiungere la pozzanghera più vicina, che non si era ancora prosciugata, cosicché, inginocchiatosi davanti a essa, poté facilmente specchiarvisi.

E scorse, sulla superficie dell’acqua, la sua testa dalla forma puramente accidentale, con orecchie simili a palline, e la destra alquanto più piccola dell’altra, e vide il suo corpo dalla forma puramente accidentale, un pot-pourri di lattine, viti e rottami, con il petto a barile — dato che il suo petto era effettivamente un barile — anche se un po’ più stretto nel centro, come per segnargli la vita, perché nell’uscire dai rifiuti era stato colpito da una pietra che glielo aveva schiacciato, e rimirò le sue membra rugginose, e le contò, e come volle la sorte c’erano due gambe e due braccia, e — accidentalmente — anche due occhi, e Mymosh il Figlio di Se Stesso si compiacque grandemente della propria persona, e sospirò con ammirazione per la vita sottile, per la disposizione simmetrica degli arti e per la rotondità della testa e fu portato a esclamare: «Davvero sono bellissimo, anzi, perfetto, e questo non fa che testimoniare la Perfezione di Tutto il Creato! E come deve essere buono Colui che mi ha fatto!»

Continuò a camminare, lasciando dietro di sé una scia di viti (giacché nessuno le aveva serrate come si deve) e cantando inni in lode della Sempiterna Armonia della Provvidenza, ma al settimo passo incespicò e cadde a faccia in giù nei rifiuti, e da quel momento in poi non fece altro che arrugginire, corrodersi e lentamente disintegrarsi per i successivi trecento e quattordici mila anni, perché aveva battuto la testa ed era entrato in corto circuito e non esisteva più.

Alla fine di quel periodo, però, avvenne che un certo mercante, il quale portava un carico di anemoni di mare del pianeta Medulsa agli stomatopodi di Trycia, litigò con il suo aiutante, mentre passavano accanto al sole color lillà, prese una scarpa e la scagliò contro di lui, e la scarpa sfondò l’oblò e uscì nello spazio, dove la sua traiettoria susseguente subì una perturbazione, a causa del fatto che la stessa cometa che in un’epoca lontanissima aveva abbagliato Trurl ora tornava a passare nello stesso punto, e così la scarpa, roteando lentamente su se stessa, venne deviata verso la luna, fu un po’ strinata dall’attrito con l’atmosfera, urtò il fianco della montagna, al di sopra della discarica, rimbalzò a quota più bassa e assestò un sonoro calcione a Mymosh il Figlio di Se Stesso, proprio con la giusta forza e proprio nella giusta direzione per creare esattamente la torsione, la coppia, la forza centrifuga e la quantità angolare di moto occorrenti per riattivare il cervello accidentale di quella creatura accidentale.

Andò così: Mymosh, colpito, finì nella pozzanghera più vicina, dove i suoi cloruri e i suoi ioduri si mescolarono con l’acqua, l’elettrolito filtrò nel suo cranio e, gorgogliando, vi creò una corrente, che continuò a circolare per tutta la sua testa, tanto che Mymosh si rizzò a sedere sul fango e fece mentalmente questa considerazione: «Penso, dunque (a quanto pare) sono!»

Ciò, tuttavia, fu la sola cosa che poté pensare nei seguenti sedici secoli, e la pioggia batté su di lui, e la grandine lo bombardò, e per tutto questo tempo la sua entropia aumentò e crebbe. Ma dopo esattamente mille e cinquecento e venti anni, un certo uccello, che volava al di sopra della discarica, attaccato da un predatore che si era lanciato su di lui in picchiata, si svuotò il soverchio gravame del ventre — un po’ per paura e un po’ per aumentare la velocità — e le deiezioni piombarono in centro alla fronte di Mymosh, che riportato in esistenza da questo urto, starnutì e disse: «Certo, sono! E non è il caso di aggiungervi un ’a quanto pare’! Eppure, il problema sussiste: chi è, a dire che io sono? Ovvero, in altre parole, chi sono io? Ora, come si può trovare risposta a questa domanda? Ah! Se soltanto esistesse qualcosa al di fuori di me, una cosa di qualsiasi genere, che mi servisse da pietra di paragone! Allora potrei dire di avere già vinto metà della mia battaglia. Ma, ahimè, non c’è niente, perché — come posso chiaramente vedere — non vedo niente! Perciò, l’unica cosa che esiste sono io, e io sono tutto quello che c’è e che può esserci, perché posso pensare in ogni modo da me desiderato. Ma che cosa sono io, dunque? Solo uno spazio vuoto per i pensieri, e niente di più?»

In effetti non possedeva più alcun organo di senso, perché erano arrugginiti e si erano ridotti in polvere nel corso dei secoli e dei millenni, dato che l’Entropia, moglie del Caos, è un’amante crudele e implacabile.

Di conseguenza Mymosh non poteva vedere la pozzanghera che era sua madre né il fango che era suo padre, e neppure il vasto, ampio mondo né il cielo che tutto sovrasta, e non aveva alcun ricordo di quel che gli era successo in precedenza, e in generale non era in grado di fare altro che pensare. Poteva fare soltanto quello, e perciò vi si dedicò con convinzione.

«Per prima cosa» disse a se stesso «devo riempire il vuoto che c’è in me, e così allontanare questa insopportabile monotonia. Perciò, pensiamo a qualcosa, perché, quando pensiamo — oh, meraviglia! — il pensiero esiste, e nient’altro che il nostro pensiero ha esistenza».

Da questa affermazione si può notare come fosse già divenuto alquanto presuntuoso, perché si riferiva a se stesso con la prima persona plurale.

«Ma, aspetta» si disse poi «non potrebbe esistere qualcosa anche al di fuori di me? Dobbiamo prenderne in considerazione la possibilità, anche solo per un momento, e anche se è una considerazione che suona assurda e addirittura offensiva e folle. Chiamiamo, ipoteticamente, questa esteriorità il Gozmos. Se dunque esistesse un Gozmos, io dovrei essere una sua parte ed esservi contenuto».

Qui si fermò, rifletté per qualche tempo su quel problema e alla fine respinse l’ipotesi in quanto priva di qualsiasi base e fondamento. In effetti, non c’era la benché minima prova a favore dell’ipotesi, non c’era alcuna testimonianza a suo sostegno, e così, vergognandosi di aver perso del tempo in simili speculazioni illogiche e campate per aria, disse a se stesso: «Di quello che sta al mio esterno — ammesso e non concesso che qualcosa esista — non ho conoscenza. Ma quel che c’è al mio interno lo conosco, o almeno lo conoscerò non appena ne avrò pensato qualcosa, perché chi può sapere meglio di me, perbacco, quello che io penso?»

Pensò e pensò, e pensò nuovamente al Gozmos, ma questa volta ci pensò dentro di sé, soluzione che gli parve assai più sensata e rispettabile, ben entro i confini della ragione e della correttezza. E cominciò a riempire il Gozmos di vari pensieri assortiti. Per prima cosa, poiché non aveva molta esperienza e non possedeva ancora la necessaria abilità, immaginò i Perlanti, che ghimbavano ogni volta che ne avevano l’occasione, e i Pratinfi, che si compiacevano di flicortare. Immediatamente, i Pratinfi attaccarono i Perlanti per asserire la supremazia del flicorteggio sul ghimbamenio, e Mymosh, dalle sue fatiche di creatore di mondi, non ricavò altro che un brutto mal di testa.

Nel suo successivo tentativo di creazione di pensieri si mosse con maggiore cautela, pensando prima gli elementi come il brutonio, un gas nobile, e le particelle elementari come il cogitone, ossia il quanto del pensiero, e creò alcuni esseri che fruttificarono e si moltiplicarono.

Di tanto in tanto commise errori, ma dopo un paio di secoli divenne molto abile, e il suo Gozmos, robusto e stabile, prese forma nell’occhio della sua mente., e brulicò di una moltitudine di entità, oggetti, creature, civiltà e meraviglie. La loro esistenza era quanto mai gradevole, perché Mymosh aveva reso le leggi del Gozmos assai liberali, dato che non gli piacevano le regole rigorose e inflessibili, ossia quel tipo di disciplina carceraria che viene imposta da Madre Natura (anche se, naturalmente, non aveva mai saputo nulla di Madre Natura).

Così, il mondo del Figlio di Se Stesso era un luogo di capricci e miracoli, dove tutto poteva verificarsi una volta in un modo e un’altra volta in un modo del tutto diverso — e questo senza particolari motivi o esigenze di rima. Se, per esempio, un individuo doveva morire, c’era sempre il modo di evitarlo, perché Mymosh era assolutamente contrario agli eventi irreversibili. E nei suoi pensieri gli Zigroti, i Calsoniani, i Flimmeroni, gli Juppi, gli Arligini e i Wallamachinoidi prosperarono e fiorirono, generazione dopo generazione. Durante questo periodo, anche le braccia e le gambe deformi di Mymosh si staccarono, e tornarono a far parte dei rifiuti da cui erano uscite in prima istanza, e l’acqua fece arrugginire il barile che era il suo tronco, e il suo corpo affondò lentamente nell’acqua stagnante. Ma prima aveva fatto in tempo a creare un gruppo di costellazioni completamente nuove, e le aveva disposte amorevolmente nell’eterna notte della sua consapevolezza di sé — che era il suo Gozmos — e faceva del suo meglio per mantenere un accurato ricordo di tutto ciò che aveva creato col pensiero, benché la testa gli dolesse per lo sforzo, perché si sentiva responsabile del suo Gozmos, profondamente obbligato a seguirlo e necessario a tutte le sue componenti.

Intanto — anche se lui non aveva modo di saperlo — la ruggine gli aveva sempre più corroso le piastre del cranio, finché il manico della brocca di Trurl, la stessa brocca che molti millenni prima l’aveva portato all’esistenza (un manico che diversamente dal resto era rimasto a orbitare attorno al satellite), lasciò finalmente l’orbita che per tanti millenni aveva seguito, e che progressivamente si era sempre più abbassata, e precipitò sulla superficie, in direzione della sua testa, che era la sola parte di Mymosh che emergesse ancora dall’acqua.

E proprio nel momento in cui Mymosh immaginava l’incantevole, cristallina Bauci e il suo fedele Ondragor. e li mandava in viaggio, mano nella mano, dall’uno all’altro dei soli neri della sua mente, e tutte le genti del Gozmos — compresi i Perlanti — li ammiravano in un silenzio rapito, e la coppia si scambiava sottovoce le più dolci parole… il cranio consumato dalla ruggine si spaccò sotto l’urto del manico, l’acqua della palude si rovesciò sugli avvolgimenti di rame spegnendo la corrente nei circuiti logici, e il Gozmos di Mymosh il Figlio di Se Stesso raggiunse la perfezione, ossia quell’estrema perfezione che si ottiene con l’annullamento. E colui che — pur senza averne avuto l’intenzione — l’aveva messo al mondo non seppe mai della sua esistenza.


La macchina si inchinò e Re Genius meditò tristemente sulle sue parole, così a lungo che tutti cominciarono a mormorare contro Trurl, che aveva osato rannuvolare la mente reale con una simile storia. Ma presto il Re sorrise e chiese: «E non hai altro per noi, mia buona macchina?»

«Certo» rispose quella, inchinandosi rispettosamente «vi racconterò la storia, straordinariamente profonda, di Cloriano Teoretico, detto il Prof(eta), intellettuale elettrico e sapiente «par excellence»».


Accadde un giorno che Klapaucius, il famoso costruttore, ansioso di riposare dopo le sue grandi fatiche (aveva appena terminato per Re Thanaton una Macchina Che non C’è, ma questa è un’altra storia), arrivò al pianeta dei Mammonidi e prese a girellarvi di qua e di là, in cerca di solitudine, finché non vide, ai margini di una foresta, un’umile capanna, tutta ricoperta di cyberbacche selvatiche e con un filo di fumo che si levava dal camino.

L’avrebbe evitata con piacere, ma notò sul gradino una pila di boccette d’inchiostro vuote, e quella singolare presenza lo spinse a dare un’occhiata all’interno.

Là, a un massiccio tavolo di pietra, sedeva un vecchio saggio, così male in arnese, rappezzato con il fil di ferro e arrugginito, che destava stupore a vederlo. Aveva la fronte ammaccata in cento punti, e gli occhi, che ballavano nelle orbite, cigolavano orribilmente, e così le braccia, che da tempo non venivano lubrificate.

A quanto pareva, il vecchio doveva la sua miserabile esistenza alle toppe, alle saldature e ai pezzi di filo che lo tenevano insieme, e miserabile doveva essere davvero, come testimoniavano i pezzi di ambra che si scorgevano qua e là sul tavolo: a quanto pareva, quella povera creatura otteneva la sua elettricità strofinandoli tra loro!

Lo spettacolo di una simile indigenza impietosì Klapaucius, il quale stava già per trarre discretamente qualche moneta dal borsellino, quando il vecchio, che ora lo fissava con lo sguardo velato dalla cateratta, disse con voce esile: «Allora, sei arrivato, finalmente?»

«Be’, sì» mormorò Klapaucius, stupito che qualcuno lo aspettasse in un luogo dove non aveva mai pensato di recarsi.

«Ebbene, che tu possa arrugginire, fare una brutta fine, che ti si spezzino le braccia, il collo e le gambe» strillò il vecchio sapiente, infuriato, e cominciò a tirare tutto quello che gli capitava sotto mano — più che altro spazzatura — contro l’ammutolito Klapaucius.

Quando finalmente si fu stancato e cessò il bombardamento, la vittima della sua collera gli chiese con calma il motivo di una reazione così poco ospitale. Per qualche tempo il saggio continuò a mormorare frasi come: «Che ti scoppiasse un fusibile!» «Che ti si bloccassero i meccanismi per sempre, o vile corrosione» ma alla fine si calmò e il suo umore migliorò, fino al punto da indurlo a sollevare un dito — anche se di tanto in tanto lanciava qualche insulto e sollevava una tale quantità di scintille che tutta l’aria puzzava di ozono — e a raccontare la sua storia con le seguenti parole.


Sappi, o forestiero, che io sono un sapiente, un sapiente per sapienti, il primo dei filosofi, perché la mia principale passione e professione, per tutta la vita, è sempre stata l’ontologia, e il mio nome (che un giorno brillerà più delle stelle) è Cloriano Teoretico il Prof.

Sono nato in una famiglia umîle, e fin dalla prima infanzia ho sentito un’irresistibile attrazione per il pensiero astratto. A sedici anni ho scritto la mia prima opera, «Lo Gnostotrone», in cui si proponeva la teoria generale delle divinità a posteriori, divinità che dovevano essere aggiunte all’universo in un secondo tempo, da parte delle civiltà progredite, poiché, come si sa, la Materia viene sempre per prima e non c’era nessuno, all’inizio, che potesse pensare. Chiaramente, a quell’epoca, all’Alba della Creazione, l’assenza di pensiero regnava suprema, com’è ovvio quando si dà un’occhiata al nostro Cosmo!

(A quel punto, il vecchio saggio fu preso dall’ira e batté vigorosamente i piedi, ma presto si stancò e riprese a parlare.)

Semplicemente, spiegavo la necessità di costruire degli dèi a posteriori, perché non ce n’erano a priori. In effetti, ogni civiltà che si dedica all’intelligenza elettronica non cerca altro che di costruire un Omniac — un calcolatore universale — che, con la sua infinita misericordia, possa raddrizzare le correnti del male e tracciare il cammino della rettitudine e della vera sapienza.

Ora, in quel mio primo lavoro, includevo anche il progetto del primo Gnostotrone, oltre a diagrammi sulla sua onnipotenza in uscita, misurata in unità chiamate geovah. Un geovah corrispondeva a un miracolo in un raggio di un miliardo di parsec.

Non appena il mio trattato venne pubblicato (a mie spese), io corsi in strada, sicuro che la gente mi avrebbe portato trionfalmente sulle spalle, incoronato di ghirlande, coperto d’oro, ma nessuno, neppure un cybernetista zoppo, venne a complimentarsi con me.

Allarmato ancor prima che deluso da un simile oblio, immediatamente mi misi a scrivere un’opera in due volumi, «Il flagello della ragione», in cui dimostravo che ogni civiltà ha davanti a sé due sole strade, ossia morire per la troppa agitazione o morire per la troppa compassione.

E mentre percorrono l’una o l’altra strada, le civiltà divorano l’universo, trasformando la materia planetaria e stellare in assi del cesso, portamantelli, ruote, bocchini per sigarette e cuscini, e si comportano così perché, incapaci di capire l’universo, cercano di cambiare quella Incomprensione in Qualcosa di Comprensibile e non si fermeranno finché nebulose e pianeti non saranno stati trasformati in lettini, vasi da notte e bombe, il tutto nel nome dell’Ordine Sublime, perché solo un universo con pavimenti, impianti idraulici, etichette e cataloghi è accettabile e rispettabile.

Nel secondo volume, intitolato «Advocatus materiae», dimostravo come la Ragione — un’entità avida, mai contenta è soddisfatta soltanto quando riesce a incatenare un geyser cosmico, o a imbrigliare uno sciame atomico… per esempio, per produrre un unguento per togliere le pustole.

Fatto questo, la Ragione corre a occuparsi del successivo fenomeno naturale, intenzionata ad aggiungerlo, come una testa impagliata, alla sua amata collezione di spoglie scientifiche.

Ma, ahimè, anche questi miei due eccellenti volumi vennero accolti con il massimo disinteresse da parte del mondo; allora mi dissi che per arrivare al successo occorrevano pazienza e perseveranza.

Avendo difeso, prima, la Ragione contro l’universo (assolvendo la Ragione da ogni colpa, in quanto la Materia permette ogni sorta di abominio soltanto perché è priva di mente) e poi l’universo contro la Ragione (da me completamente demolita, oserei dire), per un’ispirazione improvvisa scrissi «Il sarto esistenziale», in cui dimostravo in via definitiva l’assurdità di avere più di un filosofo, in quanto ciascuno mira a elaborare una filosofia propria, che calza a lui solo, come un guanto o un vestito su misura.

E poiché quel lavoro venne del tutto ignorato, subito ne scrissi un altro, in cui presentavo tutte le possibili ipotesi sull’origine dell’universo: per prima l’opinione che esso non esista affatto, per seconda che sia il risultato di tutti gli errori commessi da un certo Demiurgo, il quale si era accinto a creare il mondo senza la minima idea di come procedere; terza, che il mondo è in realtà l’allucinazione di qualche Supercervello divenuto folle in maniera infinita ma circoscritta; quarta, che è un’idea asinina materializzatasi per burla; quinta, che è materia che pensa, ma con un coefficiente di intelligenza spaventosamente basso… poi mi misi ad aspettare le reazioni, prevedendo attacchi veementi, dibattiti accesi, notorietà, allori, denunce, lettere degli ammiratori e minacce anonime.

Invece, anche questa volta, niente di niente. Incredibile. Allora pensai: be’, forse non ho letto a sufficienza le opere degli altri pensatori, e così, procuratomi le loro opere, feci la conoscenza dei più famosi: Phrensius Whiz, Buffon von Schneckon, fondatore del movimento Schneckonista, e poi Turbulo Turpitus Catafalicum, Ithm di Logar e, naturalmente, Lemuel il Pelato.

Eppure, in tutte quelle opere non scoprii niente di importante. Intanto, anche i miei libri venivano gradualmente venduti, e perciò ne dedussi che qualcuno li leggeva: se così era, presto o tardi se ne sarebbe parlato. In particolare, non dubitavo che il Tiranno mi avrebbe chiamato, con la richiesta di dedicarmi esclusivamente a rendere immortale il suo glorioso nome.

Naturalmente, gli avrei detto con sdegno che il mio unico padrone era la verità e che per essa ero disposto a sacrificare la vita. Allora il Tiranno, desideroso di ricevere le lodi che la mia mente superiore poteva formulare, avrebbe cercato di conquistarmi con parole suadenti e forse anche con sacchi di monete tintinnanti, ma, vedendomi deciso e incrollabile, avrebbe dichiarato (dietro suggerimento dei suoi consiglieri) che se mi occupavo dell’universo dovevo occuparmi anche di lui, perché anch’egli era una parte della Totalità Cosmica.

Offeso da questa presa in giro gli avrei risposto con qualche battuta tagliente, e lui mi avrebbe messo alla tortura. Perciò, rafforzai il mio corpo in anticipo, per poter sopportare — con filosofica indifferenza — anche il peggio.

Eppure, passarono i giorni e i mesi, ma non ricevetti mai una parola dal Tiranno… mi ero preparato invano al martirio. L’unico a occuparsi di me fu uno scribacchino chiamato Noxion, il quale scrisse, in uno squallido giornale del pomeriggio, che un certo Cloriano, senza dubbio un burlone, aveva esposto un’infinità di trovate bizzarre in un suo libro intitolato spiritosamente «Lo Gnostotrone, o il supremo Onnipotenziometro, ovvero Un’ocata nel futuro».

Corsi alla mia biblioteca… ed era proprio così: il tipografo aveva scritto «ocata» invece di «occhiata».

Il mio primo impulso fu quello di ucciderlo, poi prevalse la ragione. «Il mio tempo verrà! " dissi a me stesso. «Non può essere che una persona dispensi a destra e a manca, giorno e notte, perle di saggezza eterna, finché la mente viene accecata dalla Luce della Comprensione Finale… e che non succeda niente! No, arriverò alla fama e al plauso, alla cattedra d’avorio, al titolo di Primo Mentore, all’affetto della gente, a una mia scuola, in un boschetto ombroso, ad allievi che raccolgono ogni mia parola, a una folla osannante!»

Infatti, o straniero, ogni intellettuale sogna queste cose. Certo, ti diranno che il loro unico sostegno è la Conoscenza, e la loro unica gioia è la verità, che non fanno per loro gli orpelli di questo mondo, i nastri, le medaglie e i premi, l’abbraccio della folla, l’oro, la gloria, l’applauso. Tutte balle, mio caro signore, tutte balle! Tutti vogliono le stesse cose, e la sola differenza tra loro e me è che io, almeno, ho la grandezza di spirito di ammettere simili fragilità, apertamente e senza vergogna.

Ma gli anni passarono, e si parlava di me soltanto per chiamarmi Cloriano il Pazzo o il Povero Clorio. Quando giunse il quarantesimo anniversario della mia nascita, constatai che le masse non si decidevano ancora a scoprirmi.

Così, scrissi una tesi sugli M.L.S.P., ossia la razza avente la civiltà più progredita dell’universo.

Come, dici di non averne mai sentito parlare? Ma, se è solo per questo, neanch’io la conosco, e non l’ho mai vista, né mi aspetto di vederla; ho ricavato la sua esistenza in base a considerazioni puramente deduttive, in un modo strettamente logico, inevitabile e teoretico.

Infatti — così procede la mia dimostrazione — se l’universo contiene molte civiltà a vari stadi di sviluppo, la maggioranza sarà più o meno a uno stadio medio, mentre alcune civiltà saranno rimaste indietro e altre saranno riuscite a portarsi avanti.

Ma ogni volta che si ha una distribuzione statistica, per esempio dell’altezza in un gruppo di individui, ce n’è soltanto uno che corrisponde al valore massimo, e la maggioranza insiste su valori prossimi alla media; analogamente, nell’universo, esiste una sola civiltà che ha raggiunto l’M.L.S.P… il Massimo Livello di Sviluppo Possibile.

I suoi abitanti, gli M.L.S.P., hanno conoscenze che noi non possiamo neppure immaginare. Ho detto tutto questo in quattro volumi, pagando di tasca mia la carta patinata e il ritratto dell’autore sul frontespizio, ma anche quei volumi hanno fatto la fine degli altri che li hanno preceduti. Un anno fa ho riletto l’intera opera da cima a fondo, e ho pianto, tanto erano brillanti le sue deduzioni, così piene del respiro dell’Assoluto… no, e impossibile descrivere la bellezza di quell’opera.

Poi, a cinquant’anni, per qualche tempo arrivai al massimo! Vedi, di tanto in tanto acquistavo le opere di altri saggi, che accumulavano grandi ricchezze e ottenevano il successo, per conoscere gli argomenti di cui trattavano. Be’ scrivevano della differenza tra il prima e il poi, della bellezza del trono del Tiranno, con i suoi braccioli aggraziati e le sue gambe ben tornite, e trattati sulle buone maniere, e descrizioni particolareggiate di questo e quello, e in quei libri nessuno parlava direttamente di sé, ma in qualche modo si capiva che Phrensius aveva paura di Schneekon, e viceversa, mentre tutt’e due erano ammirati dai Logariti. Poi c’erano i tre famosi fratelli Voltaici: Voltore lodava Vantore, Vantore lodava Vanitoso, e questi lodava Voltore.

Leggendo le loro opere, all’improvviso venni colto da un’ira trascinante e le distrussi, strappando con le unghie e con i denti le loro pagine… finché non smisi di singhiozzare, poi, asciugate le lacrime, mi misi a scrivere «L’evoluzione della Ragione come fenomeno a doppio ciclo».

Infatti, come spiegavo in quel saggio, robot e visipallidi sono uniti tra loro da un vincolo reciproco. Prima, dall’accumularsi di fango viscido su una spiaggia marina, nascono creature viscose, appiccicose e bianche, fatte di albumine. Dopo un tempo lunghissimo, queste imparano a dare vita al metallo e fabbricano Automi per avere degli schiavi.

Con il tempo, però, il fenomeno si inverte e gli Automi, liberatisi degli Albuminoidi e scordatisi della loro origine, finiscono per condurre esperimenti in cui cercano di sapere se nelle sostanze gelatinose possa sopravvivere la coscienza e la risposta, come si sa, è affermativa, perché le proteine dell’albumina possono ospitarla. Poi, dopo milioni di anni, i visipallidi sintetici scoprono di nuovo i metalli e il ciclo si ripete per l’eternità.

Come vedi, ho così risolto il vecchio interrogativo se venga prima il robot o il visopallido. Presentai questa opera all’Accademia: sei volumi rilegati in cuoio, e il costo della loro pubblicazione consumò gli ultimi resti della mia eredità. C’è bisogno che ti dica che anche quell’opera passò sotto silenzio?

Avevo più di sessant’anni, mi stavo avviando verso i settanta, e la speranza di raggiungere la gloria durante la mia vita stava progressivamente svanendo. Che cosa potevo fare, allora? Cominciai a pensare alla posterità, alle future generazioni che un giorno mi avrebbero scoperto e che si sarebbero inginocchiate nella polvere davanti al mio nome.

Ma che beneficio ne avrei tratto, mi domandai, dato che non sarei stato presente? Perciò fui costretto a concludere, in accordo con i miei insegnamenti contenuti in quarantaquattro volumi — oltre che con i prolegomeni, i paralipomeni e le appendici da me scritti — che non ne avrei tratto alcun beneficio.

Così, con il cuore che ribolliva di amarezza, mi accinsi a scrivere il mio «Testamento per i discendenti», in cui intendevo prenderli a calci e coprirli di sputi, svillaneggiarli, insultarli e maledirli quanto possibile, e il tutto nel modo più scientifico e rigoroso.

Perché? mi chiedi. Pensi che fosse ingiusto, che avrei fatto meglio a indirizzare la mia indignazione contro i miei contemporanei, i quali non avevano saputo riconoscere la mia genialità?

Bah! Rifletti, o degno straniero! Quando il mio «Testamento» sarà esaltato dalla fama futura, e ogni sua sillaba brillerà di grandezza, i contemporanei saranno ormai polvere, e come potranno essere raggiunti dalle mie maledizioni?

No, se facessi come dici tu, i loro discendenti studierebbero le mie opere con spirito perfettamente equanime, e di tanto in tanto osserverebbero, con un sospiro calmo e superiore: «Ahimè! Con che calma, con che eroismo il maestro ha sopportato la sua crudele oscurità! Com’era giustificata la sua rabbia contro i nostri antenati, e, nello stesso tempo, com’è nobile da parte sua averci lasciato in eredità, nonostante tutte le offese, i frutti della sua saggezza!»

Ecco, è esattamente quello che direbbero! E poi? Gli idioti che mi hanno sepolto vivo non devono essere puniti? La tomba deve poterli riparare dalla mia collera e dalla mia vendetta? La sola idea mi fa ribollire tutto l’olio! Che i figli possano leggere in pace le mie opere, sgridando educatamente, da parte mia, i loro genitori?

Niente affatto! Il minimo che possa fare è mostrargli la lingua da lontano, dal passato! Devono sapere, coloro che venereranno il mio pensiero e che innalzeranno monumenti dorati alla mia memoria, che in cambio io voglio che… gli si sloghino i giunti, gli scoppino le valvole, gli si brucino le trasmissioni, perdano i dati che hanno nelle loro memorie, e la ruggine li ricopra da cima a fondo, se non sanno fare altro che onorare le salme esumate dal cimitero della storia!

Forse sarà già nato tra loro un nuovo saggio, ma essi, troppo occupati a faticare come schiavi sui frammenti dei miei messaggi alla lavandaia, non si accorgeranno di lui! Che sappiano, dico io, che sappiano, una volta per tutte,

che li condanno cordialmente, e che sinceramente li disprezzo, che li considero baciascheletri, leccacadaveri, sciacalli professionisti, perché si nutrono di carogne e non sanno riconoscere la saggezza quando è ancora viva!

E, nel pubblicare le mie «Opere Complete» — le quali dovranno includere questo «Testamento», la mia maledizione finale sulle loro future teste — che quei vili tanatomiti e necrofiti siano almeno privati della possibilità di congratularsi con se stessi per il fatto che Cloriano Teoretico il Prof., l’impareggiabile pensatore che ritrasse il domani infinito, apparteneva alla loro risma!

E quando si inchineranno sotto il mio monumento, che sappiano come io abbia augurato loro soltanto il peggio che l’universo ha da offrire, e come la forza del mio odio, proiettata contro il futuro, fosse uguagliata solamente dalla sua impotenza!

Sappiano che li ripudio per sempre e che ho scagliato su di loro soltanto il mio disprezzo e i miei anatemi!


Per tutto questo lungo concione Klapaucius aveva cercato invano di calmare l’infuriato sapiente. Nel pronunciare le ultime frasi, però, il vecchio era balzato in piedi e ora, minacciando con il pugno le generazioni a venire, scaricò una serqua di insulti sorprendentemente pungenti (sorprendente era soprattutto il fatto che Cloriano li conoscesse: dove poteva averli imparati, avendo sempre condotto una vita così esemplare?) Poi, schiumante e fumante, ruggì e batté i piedi sul pavimento, e, con una pioggia di scintille, crollò a terra, morto per un travaso di bile.

Klapaucius, addolorato dallo spiacevole esito del colloquio, si sedette al tavolo di pietra, raccolse il «Testamento» e cominciò a sfogliarlo, anche se presto gli vennero le traveggole per la grande quantità di epiteti rivolti al futuro. Alla seconda pagina era già coperto di sudore, perché l’ormai defunto Cloriano Teoretico dava prova di una capacità di invettiva davvero cosmica. Per tre giorni continuò a leggere, con gli occhi inchiodati al manoscritto, e infine provò soltanto un profondo senso di dubbio; doveva rivelarlo al mondo oppure distruggerlo? E per quanto ne posso sapere io, è ancora seduto laggiù, incapace di decidere…

«Mi pare di scorgere qualche allusione» commentò Re Genius, quando la macchina ebbe terminato e si fu ritirata «alla questione della ricompensa monetaria, che ormai sarebbe ora di affrontare, perché, dopo una notte bravamente trascorsa in racconti, fuori dalla nostra caverna albeggia ormai il nuovo giorno. Allora, mio buon costruttore, come devo remunerarti?»

«Vostra Maestà» rispose Trurl «mi mette un po’ in imbarazzo. Qualunque richiesta io faccia, finirei prima o poi per pentirmene, nel caso venisse soddisfatta, perché penserei che avrei potuto chiedere di più. D’altra parte non vorrei offendere Vostra Maestà chiedendo una cifra esorbitante. Perciò lascio alla generosità di Vostra Maestà la determinazione dell’onorario…»

«Così sia, allora» rispose il Re affabilmente. «Le storie erano eccellenti, le macchine certamente perfette, e perciò non vedo altra possibilità che quella di premiarti con il tesoro più grande di tutti: un tesoro che, ne sono certo, non scambieresti con nessun altro.

«Ti lascio la salute e la vita… e questo, secondo me, è il solo dono adatto. Qualsiasi altro sarebbe un insulto, perché non c’è nessuna somma di denaro che possa comprare Trurl o la Saggezza. Va’ dunque in pace, amico mio, e continua a nascondere le tue verità, troppo amare per questo mondo, sotto forma di favole e di racconti fantastici».

«Vostra Maestà…» disse Trurl, allarmato «all’inizio intendevate, forse togliermi la vita? Era quello il pagamento che volevate darmi?»

«Interpreta le mie parole come preferisci» rispose il Re «ma ecco come la vedo io: se tu mi avessi semplicemente fatto divertire, la mia munificenza non avrebbe conosciuto limiti. Ma tu hai fatto molto di più, e non c’è ricchezza, nell’universo, che possa eguagliarlo. Così, nell’offrirti la possibilità di continuare la tua illustre carriera, non posso darti premio od onore più alto…»

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