Due

Lo scienziato indossava bermuda corti a scacchi, una camicia di un giallo scolorito, dei sandali, e non portava il cappello. Oscar era spiritualmente preparato a tollerare lo spettacolo delle gambe nude e ossute della loro guida, e perfino la sua barba antiquata. Ma era difficile prendere veramente sul serio un uomo che non indossava un cappello adeguato.

L’animale in questione era di colore verde scuro e aveva un corpo magro coperto da una fitta peluria. Era un binturong, un mammifero originario del Sud-Est asiatico, ormai da lungo tempo estinto allo stato brado. Quell’esemplare era stato clonato nel Collaboratorio nazionale di Buna; era cresciuto nel ventre modificato di una mucca domestica.

Il binturong clonato si era appeso alle assi di legno di una panchina del parco e leccava via le scaglie di vernice con una lingua sottile e chiazzata. L’animale aveva all’incirca le dimensioni di una sacca da golf.

«Questo esemplare è davvero addomesticato» osservò Pelicanos in tono cortese, tenendo in mano il cappello.

Lo scienziato scosse la testa barbuta. «Oh, qui al Collaboratorio noi non ‘addomestichiamo’ nessun animale. Lo abbiamo deferalizzato, ma certo non lo si potrebbe definire amichevole.»

Il binturong si staccò dalle assi della panca e attraversò con andatura ondeggiante la folta erba del prato sulle sue zampe, simili a quelle di un orso.

L’animale si fermò ad annusare le scarpe di cuoio di Oscar, arricciò il muso appuntito in segno di disgusto e brontolò come una pentola scoperchiata. A una distanza tanto ravvicinata, Oscar si rese conto a cosa somigliasse quell’animale. Un binturong era simile a una donnola… una grossa donnola capace di arrampicarsi sugli alberi. Con una coda prensile e pelosa. Inoltre, emanava una puzza tremenda.

«Sembra proprio che dovremo prendere un binturong» annunciò Oscar con un sorriso. «Ce lo incarterete in un foglio marrone?»

«Se mi sta chiedendo come sia possibile far pervenire questo esemplare al suo amico senatore… be’, per farlo possiamo servirci dei canali adatti.»

Oscar inarcò le sopracciglia. «Canali?»

«Canali, certo… il senatore Dougal dispone di persone che si occupano proprio di questo genere di faccende…» Improvvisamente la loro guida tacque, assumendo un’aria colpevole e agitata, come se avesse bevuto l’ultimo caffè dell’ufficio, dimenticandosi di prepararne dell’altro. «Guardi, io sono soltanto un tecnico di laboratorio, non ne so molto di queste faccende. Dovrebbe chiedere ai tizi del dipartimento Ricadute industriali.»

Oscar spiegò la sua mappa tascabile laminata del Collaboratorio Nazionale di Buna. «E dove sarebbe questo dipartimento?»

La loro guida gli venne in aiuto, indicando il punto sulla mappa di plastica di Oscar. Aveva le mani macchiate dalle sostanze chimiche e il pollice calloso era di un gradevole verde cupo. «Il dipartimento Ricadute industriali era l’edificio che si trovava proprio alla vostra sinistra quando avete superato la porta stagna principale.»

Oscar socchiuse gli occhi per leggere i caratteri minuscoli stampati sulla mappa. «L’Archer Parr Memorial Competitive Enhancement Facility?»

«Esatto, è proprio quello il posto. Il dipartimento ‘Ricadute industriali’.»

Oscar sollevò lo sguardo verso l’alto, aggiustando la tesa del suo cappello per proteggersi dal sole ardente del Texas. Un’immensa rete di montanti tagliava il cielo sopra la sua testa, formando come l’esoscheletro di una diatomea mostruosamente grande. I lontani montanti erano piloni di pietra, grossi e solidi, che reggevano lastre di plastica, simili a quelle che venivano utilizzate per la costruzione delle serre, ognuna delle dimensioni di una pista di hockey. Il laboratorio federale era stato sovvenzionato, creato e costruito in un periodo in cui la manipolazione genetica veniva considerata pericolosa quanto le centrali nucleari. La cupola del Collaboratorio Nazionale di Buna era stata progettata in modo da resistere a tornado, uragani, terremoti e bombe a saturazione. «Non ero mai stato in una struttura a tenuta stagna tanto estesa da richiedere un’apposita mappa» commentò Oscar.

«Ci si abitua» fece spallucce la guida. «Ci si abitua alle persone che ci vivono e perfino al cibo della mensa… Il Collaboratorio diventa la tua casa, se ci passi parecchio tempo.» La guida si grattò la mascella coperta di peli. «A parte il Texas orientale, all’esterno delle porte stagne. Un sacco di persone non sono mai riuscite ad abituarsi al Texas orientale.»

«Ci permetta di ringraziarla per averci mostrato gli animali locali» intervenne Pelicanos. «È stato molto gentile da parte sua sottrarre del tempo al suo intenso programma di ricerche per dedicarlo a noi.»

Lo zoologo cercò ansiosamente il suo telefono cellulare. «Volete che faccia venire qui l’addetta del dipartimento Pubbliche relazioni?»

«No,» rispose Oscar in tono soave «poiché l’addetta è stata tanto gentile da affidarci a lei, credo che d’ora in poi proseguiremo da soli nel nostro giro.»

Lo scienziato brandì il suo antiquato e ingombrante telefono federale di servizio, tutto imbruttato di impronte verdi. «Avete bisogno di un passaggio per recarvi al dipartimento Ricadute industriali? Posso chiamarvi un veicolo.»

«No, grazie, preferiamo sgranchirci un po’ le gambe» rispose Pelicanos, declinando l’offerta.

«Lei ci è stato di grande aiuto, dottor Parkash.» Oscar non dimenticava mai un nome. Non c’era nessuna ragione particolare per ricordare quello del dottor Averill Parkash, tra i nomi dei duemila ricercatori federali che vivevano nel Collaboratorio, dei loro assistenti, degli addetti alle pubbliche relazioni, dei membri di varie krew e di altri parassiti dello stesso stampo. Comunque, Oscar sapeva che ben presto avrebbe memorizzato tutti i nomi, le facce e i dossier del personale del luogo. Quello era un vizio peggiore della droga, ma lui non poteva farci nulla.

La loro guida iniziò a dirigersi verso il Centro gestione animali, chiaramente ansiosa di tornare nel suo soffocante e sudicio ufficio. Oscar gli rivolse un cenno di saluto con un sorriso smagliante.

Parkash si girò e tentò di gridare «Qui vicino c’è un bar dove servono del vino eccellente! Di fronte al dipartimento Strumenti e NMR di flusso!»

«Grazie del consiglio! Lei è stato davvero gentile! Grazie mille!» Oscar fece immediatamente dietrofront e si diresse verso una vicina fila di alberi, seguito immediatamente da Pelicanos.

Presto furono al sicuro tra gli alberi. Oscar e Pelicanos si incamminarono lungo un sentiero fangoso ricoperto di torba e muschio, all’interno di una giungla apparentemente assemblata con un procedimento taglia e incolla. Il Collaboratorio vantava immensi giardini botanici — in effetti si trattava di intere foreste in miniatura — di specie rare. Specie in pericolo di estinzione, oppure già completamente estinte. Specie selvatiche nate in ecosistemi ormai cancellati da molto tempo dai mutamenti climatici, dalle maree, dai bulldozer e dal processo di urbanizzazione globale di 8,1 miliardi di esseri umani.

Le piante e gli animali erano tutti cloni. Nelle cripte della fortezza sotterranea del Centro di conservazione del genoma nazionale erano conservati decine di migliaia di campioni genetici, provenienti da ogni angolo del pianeta. Il prezioso DNA veniva accuratamente riposto in luccicanti contenitori di nitrogeno liquido, custoditi in un burocratico labirinto costituito da infinite caverne scavate dalle macchine nel calcare del sottosuolo.

Era considerato un comportamento prudente deibernare ogni tanto pochi frammenti dei campioni di tessuto e usarli per produrre organismi completamente sviluppati. Così facendo, ci si accertava che i dati genetici fossero ancora validi. In genere, le creature viventi che costituivano il risultato di tali esperimenti erano anche gradevolmente fotogeniche. I cloni costituivano un utile strumento per le pubbliche relazioni. Ora che la biotecnologia era uscita dall’ermetico regno dell’arcano per trasformarsi in un’industria come le altre, l’improvvisato zoo del Collaboratorio era il suo fiore all’occhiello politico.

Spesso le gigantesche caverne scavate nel sottosuolo erano la prima cosa che veniva mostrata alle vittime del turismo locale, ma Oscar aveva trovato la loro atmosfera kafkiana decisamente oppressiva. Invece, scoprì di apprezzare molto quella passeggiata nella giungla. Di solito un vero ambiente allo stato selvaggio lo annoiava, ma c’era un non so che di moderno e attraente in quella versione tascabile, razionale e urbanizzata della natura. La vegetazione, ormai domestica, proveniente dalle più diverse parti del globo, scintillava come alberi di Natale, dotata di irrigatori gocciolanti, dispositivi per la raccolta della linfa e pompette per la somministrazione degli ormoni. Alberi e arbusti si crogiolavano come turisti ubriachi al sole sotto le speciali luci che favorivano la loro crescita.

Secondo le indicazioni fornite dalle pratiche mappe tascabili, adesso Oscar e Pelicanos si trovavano in una giungla ibrida, delimitata dal laboratorio di Ingegneria animale, dal laboratorio di Chimica atmosferica, dal Centro gestione animali e da una struttura estremamente complessa che era il centro per il trattamento dei rifiuti del Collaboratorio. Nessuno di quegli edifici federali tanto articolati era visibile dall’interno della foresta artificiale, tranne, naturalmente, le torri severe, simili a fortezze, della Struttura di contenimento. Questa gigantesca Zona Calda sorgeva al centro della cupola del Collaboratorio. Le sue torri cilindriche ricoperte di vetro opacizzato erano sempre visibili dall’interno della cupola e brillavano come una vasta distesa di porcellana di qualità sopraffina.

Lì, all’interno della foresta artificiale, c’erano scarse probabilità che qualcuno avesse impiantato dispositivi di ascolto. Continuando a spostarsi, Oscar e Yosh avrebbero potuto parlare in tutta sicurezza.

«Credevo che non saremmo mai riusciti a liberarci di quel tizio» sbuffò Pelicanos.

«C’è qualcosa che vuoi dirmi, Yosh?»

Pelicanos sospirò. «Vorrei sapere quando torneremo a casa.»

Oscar sorrise. «Siamo appena arrivati. Cos’è, non ti piacciono i texani? Senza dubbio si sono dimostrati molto cordiali.»

«Oscar, tu hai portato qui dodici persone come tuo entourage. La gente del posto non ha nemmeno un numero di stanze sufficienti a ospitarci.»

«Ma io ho bisogno di dodici persone. Ho bisogno di avere con me tutta la mia krew. In questa faccenda ho bisogno di tutto l’aiuto possibile.»

Pelicanos grugnì per la sorpresa quando un animale dotato di una cresta e con gli zoccoli fessi — una specie di tapiro, forse? — attraversò in tutta calma il sentiero che stavano seguendo. Nel Collaboratorio circolavano liberamente animali rari, che andavano dai formichieri-lupi agli xebu. Di solito li si vedeva aggirarsi innocui lungo le strade e i giardini, come mucche sacre sotto l’effetto della droga.

«E va bene, sei riuscito a organizzare un lavoretto extra dopo la fine della campagna» commentò Pelicanos. «Be’, Bambakias può sicuramente permetterselo e loro senz’altro apprezzano il gesto. Ma i professionisti che partecipano alle campagne politiche sono lavoratori a tempo determinato per natura. Adesso non hai più bisogno di loro. Non puoi aver bisogno di dodici persone per preparare una relazione da sottoporre alla commissione del Senato.»

«E invece sono utili! E tu stesso non godi dei loro servizi? Abbiamo un pullman, un autista, la nostra protezione personale e persino una massaggiatrice! Viviamo nel lusso. Inoltre, possiamo scaricarli qui, nel Paese delle meraviglie, come in qualsiasi altro posto.»

«Non mi stai dando delle vere risposte.»

Oscar lo guardò fisso. «Non è da te parlare così, Yosh… Dimmi la verità, ti manca Sandra.»

«Già» ammise Pelicanos. «Mi manca mia moglie.»

Oscar gli rivolse un cenno di invito con la mano. «E allora prenditi un fine settimana di tre giorni. Vola a Boston. Te lo meriti e noi possiamo permettercelo. Va’ a vedere come sta Sandra.»

«D’accordo. Penso che lo farò. Andrò a trovare Sandra.» Pelicanos si rianimò. Oscar percepì che l’umore di Yosh stava migliorando: sembrò irradiarsi come un’onda dal corpo dell’uomo. Era molto strano, tuttavia Pelicanos era diventato felice all’improvviso. Anche se la triste realtà era che la moglie era rinchiusa in una clinica per malattie mentali da ben nove anni.

Pelicanos era un eccellente organizzatore e un contabile quasi geniale, ma la sua vita privata era una tragedia abissale. Oscar trovava tutto questo estremamente interessante, affascinava la parte più nascosta e profonda della sua personalità: l’insaziabile curiosità nei riguardi degli esseri umani e di tutte le strategie e le tattiche con cui possono essere costretti oppure persuasi ad agire. Apparentemente Yosh Pelicanos viveva la sua vita come chiunque altro e, tuttavia, si trascinava sempre sulle spalle quel fardello segreto, pesante mezza tonnellata. Pelicanos conosceva davvero il significato della devozione e della lealtà.

Oscar, invece, non aveva particolare dimestichezza né con la devozione né con la lealtà, ma si era allenato a riconoscere negli altri tali qualità. Non era certo un caso che Pelicanos fosse il dipendente di Oscar che lo seguiva da più tempo.

Pelicanos abbassò la voce. «Ma prima che io vada, Oscar, ho bisogno che tu mi faccia un piccolo favore. Devi dirmi cosa hai in mente.»

«Sai che lo faccio sempre, Yosh.»

«D’accordo, allora fallo ancora una volta.»

«Molto bene.» Oscar passò sotto un arco di rami verde e alto sui cui lati spuntavano boccioli rosa. «Allora, questa è la situazione: io amo la politica. È un gioco per cui sembro essere tagliato alla perfezione.»

«Questa non è una novità, capo.»

«Tu e io abbiamo appena concluso la nostra seconda campagna politica e siamo riusciti a fare eleggere il nostro candidato. Questo è un grosso risultato. Tutti sanno che un seggio al Senato federale è una grande occasione politica.»

«Sì, è vero. E quindi?»

«E quindi, nonostante tutte le nostre fatiche, siamo di nuovo nel deserto della politica.» Oscar scostò un ramo fetido dalla spalla della giacca. «Credi davvero che la signora Bambakias voglia qualche dannatissimo animale raro? Stamattina alle sei mi arriva una chiamata dal nuovo capo dello staff. Mi dice che la moglie del senatore è molto interessata al mio attuale incarico e che, se è possibile, vorrebbe avere un animale esotico. Ma non mi chiama lei, e neppure Bambakias. No, mi chiama Leon Sosik.»

«Giusto.»

«Quel tizio sta cercando di sabotarmi.»

Pelicanos annuì saggiamente. «Senti, Sosik sa benissimo che tu vuoi il suo lavoro.»

«Già. Lo sa. Per questo mi sta con il fiato sul collo: in modo da essere sicuro che io stia davvero scontando la mia pena in questo posto sperduto nel Texas. E per giunta ha perfino la faccia tosta di affibbiarmi questa piccola commissione. Così facendo, non può perdere. Se gli rifiuto un favore, commetto una follia. Se fallisco o finisco nei guai, allora mi fa fuori. E se invece ci riesco, sarà lui ad attribuirsi ogni merito.»

«Sosik sa come condurre le lotte interne. Sono anni che lavora nell’ambiente di Washington. Sosik è un vero professionista.»

«Sì, è come dici tu. E per lui noi siamo soltanto dei principianti. Ma vinceremo ugualmente. E vuoi sapere in che modo? Useremo di nuovo la strategia della campagna. In principio, agiremo mantenendo un basso profilo, perché nessuno crederà che abbiamo davvero una possibilità qui. Ma poi supereremo a tal punto le loro aspettative, ci daremo talmente da fare in questa campagna che spazzeremo via completamente l’opposizione.»

Pelicanos sorrise. «Un piano tipico della tua mente, Oscar.»

Oscar sollevò un dito. «Ecco il piano. Scoviamo i pezzi grosso del posto, scopriamo quello che vogliono e facciamo degli accordi. Eccitiamo i nostri e confondiamo i loro. E infine, battiamo sotto il profilo organizzativo chiunque cerchi di fermarci. Lavoriamo più di loro e attacchiamoli su argomenti che non si aspetterebbero mai, e insistiamo, insistiamo, senza mai fermarci; alla fine li metteremo al tappeto!»

«Ha tutta l’aria di essere un lavoro duro.»

«È vero, ma ho radunato un numero sufficiente di persone per raggiungere lo scopo. Hanno dimostrato di saper lavorare insieme in politica. Sono creativi, intelligenti, e tutti, fino all’ultimo, mi devono un bel po’ di favori. Che ne pensi allora? Ce la farò anche stavolta?»

«E lo chiedi proprio a me?» chiese Pelicanos, allargando le braccia. «Al diavolo, Oscar, io sono sempre pronto. Lo sai.» Poi si permise una risatina allegra.


I vecchi dormitori del Collaboratorio offrivano un’ospitalità cupa e sinistra. La richiesta di letti era alta, poiché il laboratorio federale ospitava un numero sconfinato di nomadi del mondo scientifico, appaltatori in carriera e varie specie esotiche di burocrati para-scientifici. I dormitori erano precari edifici a due piani, con bagni e cucine in comune. Le stanze disponevano di pochi mobili di compensato, di qualche lenzuolo e asciugamano. Le serrature a tessera magnetica funzionavano con le carte d’identità del Collaboratorio. Molto probabilmente, le smart card e le serrature compilavano dossier automatici su cui venivano registrate le entrate e le uscite giornaliere di chiunque, a beneficio dei responsabili della sicurezza locali.

Sotto l’immensa cupola formata da lastre a forma di losanga non esistevano variazioni climatiche. L’intera gigantesca struttura era sostanzialmente un mostruoso reparto di cura intensiva, tutto persiane mobili, luci accecanti ed enormi filtri d’aria alla zeolite; in sottofondo si udiva il costante ronzio di generatori ospitati in profonde cavità sotterranee. I laboratori biotecnologici del Collaboratorio erano costruiti come fortezze. I dormitori del personale, al contrario, erano del tutto privi di vere e proprie pareti, di soffitti, o di altri elementi isolanti. Erano angusti, affollati e rumorosi.

E così, pur di potere svolgere il proprio lavoro in santa pace, Donna Nunez era intenta a rammendare alcuni vestiti sulle panchine di legno all’esterno dell’edificio che ospitava il dipartimento Antinfortunistica. Donna aveva portato con sé il cestino da lavoro con l’occorrente per cucire e tutta una serie di abiti della krew. Oscar, invece, aveva con sé il computer portatile. Preferiva evitare di lavorare in camera sua, da quando aveva avuto la certezza istintiva che era sottoposta a sorveglianza elettronica.

L’edificio era uno dei nove che sorgevano lungo la circonvallazione centrale che girava intorno alle torri scintillanti della Zona Calda. Quest’ultima era circondata da vasti appezzamenti a cuneo di colture sperimentali manipolate geneticamente: sorgo che traeva le sostanze nutritive dall’acqua salata, riso rampicante e qualche mora transgenica. I campi erano circondati a loro volta da una stretta strada a due corsie. Questa strada ad anello costituiva la principale arteria di scorrimento all’interno della cupola del Collaboratorio, dunque rappresentava un eccellente punto di osservazione dei bizzarri costumi della gente del luogo.

«Dico sul serio, quei dormitori sudici e puzzolenti non mi infastidiscono particolarmente» commentò Donna in tono tranquillo. «Sotto questa cupola si sta così bene e l’aria è così profumata! Se lo volessimo, potremmo anche vivere all’esterno degli edifici. Potremmo semplicemente andare in giro nudi, come gli animali.»

Donna si protese verso un animale e gli accarezzò la testa. Oscar rivolse una lunga occhiata alla creatura. A sua volta, l’esemplare ricambiò quello sguardo, senza mostrare paura, con occhi scuri, sporgenti e inespressivi come una tavoletta ouija. Il processo di deferalizzazione, un ramo della fiorente ricerca neurologica del Collaboratorio, aveva ridotto tutti gli animali del luogo in uno stato stranamente alterato di ottundimento della volontà.

Quel particolare esemplare aveva l’aspetto vivace e in piena salute dei modelli sulle scatole di cereali; le sue zanne non avevano carie, il suo pelo irto era liscio, sembrava esse stato appena spazzolato. Tuttavia, Oscar ebbe la netta sensazione che quell’animale avrebbe provato un enorme piacere nell’ucciderlo e nel divorarlo. Sicuramente l’animale doveva avere provato quell’impulso primario durante la loro breve conoscenza, ma, in qualche modo, aveva perso la volontà di attuarlo.

«Per caso conosci il nome di questa creatura?» chiese Oscar.

Donna diede un colpetto sul muso lungo e rugoso dell’animale. Quello grugnì, in estasi e sporse un’orrenda lingua grigia. «Forse è un maiale?»

«No, non è un maiale.»

«Be’, qualsiasi cosa sia, credo di piacergli. È tutta la mattina che mi segue. È carino, no? È brutto, ma è brutto in modo piacevole… Qui gli animali non fanno mai del male a nessuno. Gli scienziati hanno fatto loro qualcosa di strano al cervello.»

«Oh, sì.» Oscar premette un tasto. Rapidamente, in perfetto silenzio, il portatile mise in correlazione numerosi ordini di acquisto del Collaboratorio con i verbali di arresto texani di pubblico dominio degli ultimi cinque anni. Il risultato gli sembrò decisamente intrigante.

«Devi prendere un animale esotico per la signora Bambakias?»

«Dopo il fine settimana. Pelicanos è tornato a Boston, Fontenot è fuori, a caccia con Bob e Audrey… E in questo momento, sto cercando di mettere ordine in alcuni registri locali.» Oscar scrollò le spalle.

«Mi piaceva quella donna, sai? La signora Bambakias. Mi piaceva vestirla per la campagna. Era davvero elegante e con me è sempre stata gentile. Pensavo che magari mi avrebbe portato a Washington con sé. Ma quello non è proprio il mio ambiente.»

«Perché no?» Oscar piegò abilmente la punta di un dito e attivò un motore di ricerca, che entrò in un centro di coordinamento federale a Baton Rouge per recuperare anche i dati sui recenti provvedimenti di grazia concessi dal governatore della Louisiana.

«Be’… Io sono troppo vecchia, sai? Ho lavorato in banca per vent’anni. Ho cominciato a fare la sarta solo dopo l’iperinflazione.»

Oscar evidenziò quattro dei risultati per svolgere un’indagine più approfondita in seguito. «Penso che ti stia sottovalutando. Non ho mai sentito la signora Bambakias fare il minimo accenno alla tua età.»

Donna scosse tristemente la testa grigia. «Al giorno d’oggi le donne giovani se la cavano molto meglio di me con il nuovo tipo di economia. Sono estremamente preparate per lavorare come consulenti per l’immagine. Amano far parte di una krew, vestire il loro datore di lavoro, acconciargli ì capelli e lucidargli le scarpe. Riescono a fare una vera e propria carriera in questo genere di lavoro. Lorena Bambakias dovrà ricevere spesso. Avrà bisogno di persone che sappiano come vestirla per Washington, per la gente di Georgetown.»

«Ma tu vesti noi. Guarda come è diverso il nostro modo di vestire rispetto a quello della gente del luogo.»

«Tu non capisci» ribatté Donna in tono paziente. «Questi scienziati vestono come pezzenti perché possono permetterselo.»

Oscar osservò un abitante del luogo che, proprio in quel momento, stava passando in bicicletta con la camicia fuori dai pantaloni. Non aveva calze e portava scarpe decisamente scalcagnate. Niente cappello, un taglio di capelli orribile. Nessuno avrebbe potuto vestire così male per caso.

«Capisco il tuo punto di vista» commentò Oscar.

Donna era in vena di confessioni; Oscar se ne era accorto. Di solito, gli capitava sempre di trovarsi nei paraggi quando uno dei suoi collaboratori era in vena di rivelazioni personali. «La vita è così buffa» sospirò Donna in tono ironico. «L’ho odiata, finché mia madre non mi ha insegnato a cucire. Quando sono uscita dall’università, non avrei mai immaginato che sarei finita a cucire a mano degli abiti come consulente per l’immagine. Quando ero giovane, nessuno voleva abiti cuciti a mano. Il mio ex marito sarebbe morto dalle risate se gli avessi fatto un vestito.»

«Che tipo è il tuo ex marito, Donna?»

«Pensa ancora che le persone serie debbano lavorare dalle nove alle cinque. È un idiota.» Fece una pausa. «Inoltre, è stato licenziato e non ha più un soldo.»

Uomini e donne che indossavano tute bianche per la decontaminazione fecero la loro comparsa tra i raccolti manipolati geneticamente. Reggevano scintillanti spruzzatori in alluminio a forma di bacchetta, cesoie cromate altrettanto luccicanti e zappe di titanio ad alta tecnologia.

«Mi piace qui dentro» proseguì Donna. «Il senatore è stato molto gentile a mandarci tutti qui. È molto più bello di quanto credevo. L’aria ha un profumo davvero insolito, lo hai notato? In un posto così potrei anche viverci, se non ci fossero tanti pezzenti in pantaloncini.»

Oscar tornò alle minute della Commissione per la scienza e la tecnologia nominata dal Senato nel 2029. Quelle raccolte di minute, vecchie di sedici anni, contenevano la verità sulla fondazione di Buna. Oscar era assolutamente certo che nessuno aveva esaminato attentamente quegli archivi per anni. Erano pieni zeppi di magagne nascoste. «È stata una campagna dura. È giusto rilassarsi un po’. Tu senza dubbio te lo meriti.»

«Già, la campagna mi ha logorato, ma ne è valsa la pena. Abbiamo lavorato proprio bene insieme. Eravamo ben organizzati. Capisci, io amo il lavoro politico. Sono una donna americana nella fascia demografica compresa tra i cinquanta e i settanta e ho sempre avuto la sensazione che la mia vita fosse assurda. Nulla è andato per il verso giusto, da quando l’economia è crollata e le reti hanno inghiottito tutto… Ma, almeno in politica, tutto sembra così diverso! Non sono come una canna al vento. Una volta tanto ho provato davvero la sensazione di stare cambiando il mondo invece del contrario.»

Oscar le rivolse uno sguardo colmo di affetto. «Hai fatto un buon lavoro, Donna. Sei una persona preziosa. Quando si è a stretto contatto come lo siamo stati noi, costretti a subire un livello di stress e di pressione tanto elevato, è una vera fortuna avere in squadra una persona equilibrata e razionale e che, per giunta, sa fare anche della filosofia.» Oscar le rivolse un sorriso disarmante.

«Come mai sei così buono con me, Oscar? Per caso stai per licenziarmi?»

«Assolutamente no! Io voglio che tu rimanga con noi, almeno per un altro mese. Mi rendo conto che non è granché come offerta, considerando che una donna del tuo talento potrebbe facilmente trovare una sistemazione più stabile. Ma anche Fontenot rimarrà con noi.»

«Davvero?» Donna batté le palpebre. «Perché?»

«E naturalmente Pelicanos, Lana Ramachandran e io saremo molto impegnati… per cui qui ci sarà del lavoro per te. Non come durante la campagna, ovviamente, niente di così intenso o frenetico, ma per noi avere l’immagine giusta è ancora molto importante. Anche qui. Forse, specialmente qui.»

«Potrei rimanere con voi per un altro po’,» rispose Donna in tono tranquillo «ma non sono nata ieri. Dunque farai meglio a dirmi qualcosa di più.»

Oscar chiuse di scatto il portatile e si alzò. «Donna, hai perfettamente ragione. Dovremmo parlare seriamente di questa faccenda. Andiamo, facciamo una passeggiata.»

Donna richiuse subito il cestino da lavoro e si alzò anche lei. Ormai conosceva bene le abitudini di Oscar ed era lusingata dalla prospettiva di accompagnarlo in una delle sue conferenze itineranti confidenziali. Oscar rimase colpito nel notare quanta attenzione e prudenza Donna dimostrò nel guardarsi intorno lungo la strada: sempre sul chi vive, continuava a lanciare occhiate da sopra la spalla, come se si aspettasse che, all’improvviso, loro due potessero essere trascinati via da una squadra di agenti segreti in impermeabile nero.

«Vedi, la situazione è questa» esordì Oscar in tono serio. «Abbiamo vinto queste elezioni, ed è stata una vera passeggiata. Ma Alcott Bambakias è ancora un nuovo arrivato, un outsider politico. Anche dopo aver prestato giuramento, non godrà di grande influenza o credibilità. È solo il senatore neoeletto del Massachusetts. Dunque, deve sapere scegliere le questioni politiche in cui dimostrare le sue capacità.»

«Certo, questo lo capisco benissimo.»

«È un architetto, un costruttore su larga scala estremamente innovativo. Dunque per lui è naturale occuparsi di questioni scientifiche e tecnologiche.» Oscar fece una pausa. «E, naturalmente, di urbanistica. Ma al momento quello degli alloggi non è il nostro problema più importante.»

«Il nostro problema è questo posto.»

Oscar annuì. «Esatto. Donna, mi rendo conto che lavorare in un gigantesco laboratorio di genetica a tenuta stagna può sembrare un incarico alquanto banale. Ovviamente, non si tratta di un incarico invidiabile assegnato dal Senato, se paragonato alla guerra fredda con gli olandesi o alle catastrofi nelle Montagne Rocciose. Ma questa è ancora una delle principali strutture federali. Quando questo posto iniziò a funzionare, le cose andarono molto bene: un sacco di progressi nella biotecnologia, qualche buona occasione per le industrie americane, specialmente per quelle ubicate a due passi da qui, in Louisiana. Ma quei giorni di gloria risalgono a parecchi anni fa, ora questo posto è un vero verminaio. Tangenti, appalti truccati… Non so neppure da dove iniziare.»

Donna parve compiaciuta. «Questo vuol dire che hai già iniziato.»

«Be’… in via ufficiale, io sono qui per conto della commissione scientifica del Senato. Da un punto di vista formale, non ho più alcun legame con Bambakias. Ma è stato il senatore a organizzare tutto questo, deliberatamente. Sa perfettamente che questo posto ha bisogno di una bella scossa. Perciò, il nostro compito qui è di fornirgli tutto ciò di cui necessita per avviare riforme concrete. Stiamo preparando il terreno per il suo primo successo legislativo.»

«Capisco.»

Oscar le strinse delicatamente il gomito mentre si facevano da parte per evitare un okapi che passava in quel momento. «Non dico che sarà un lavoro facile. Potrebbe essere pericoloso. Qui ci sono parecchi interessi occulti in gioco. Ci troviamo di fronte a progetti nascosti, invisibili a occhio nudo. Ma se fosse un lavoro facile, lo potrebbe svolgere chiunque, sarebbe inutile mandare persone dotate del nostro talento.»

«Resterò.»

«Bene! Ne sono lieto.»

«E io sono lieta che tu mi abbia detto la verità, Oscar. E sai una cosa? Penso proprio di dovertelo dire qui e adesso. Il tuo problema personale… be’, voglio soltanto che tu sappia che l’intera faccenda non mi ha mai dato fastidio. Nemmeno per un minuto. Voglio dire, ho riflettuto sulla questione e poi l’ho messa completamente da parte, l’ho totalmente rimossa dai miei pensieri.»


Sembrava decisamente improbabile che qualcuno avesse messo sotto sorveglianza i telefoni del parco giochi riservato ai bambini e così Fontenot aveva fatto in modo che Oscar ricevesse le chiamate del senatore proprio lì. Oscar vide un branco di figli di scienziati che urlavano come scimmie mentre giocavano allegramente.

Fontenot agganciò alla cornetta del telefono a parete, di un colore vivace come quello di una caramella, un dispositivo per il criptaggio usato anche dai servizi segreti.

«Noterai un lieve ritardo» Fontenot avvertì Oscar. «A Boston stanno prendendo delle contromisure per evitare l’analisi del traffico.»

«E quelli del luogo? Sono in grado di monitorare la conversazione?»

«Sei stato negli uffici della polizia di questo posto?»

«No, non ancora.»

«Io sì. Forse dieci anni fa si occupavano sul serio della sicurezza. Ora questo posto potresti buttarlo giù con un manico di scopa.» Fontenot riappese la cornetta dai colori vivaci alla forcella del telefono, poi si girò e cominciò a esaminare i bambini saltellanti. Come i loro genitori, erano a testa nuda, i loro capelli erano arruffati e indossavano abiti bizzarri, che calzavano loro molto male. «Sono dei bei bambini.»

«Mmmmh.»

«Non ho mai avuto il tempo per dei piccoli…» Gli occhi di Fontenot, celati dal cappello, si colmarono di un dolore represso a fatica.

Il telefono squillò. Oscar rispose immediatamente. «Sì?»

«Oscar.»

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