LE STAGIONI DEGLI ANSAR

Dedicato agli Osprey di McKenzie Bridge che col loro modo di vivere mi hanno ispirato questo racconto.


Una volta ho avuto occasione di parlare a lungo con un vecchio ansar. L’ho incontrato all’Ostello Interplanario, costruito su una grossa isola, al largo del Grande Oceano Occidentale, lontano dalle rotte di migrazione degli ansar. È il solo luogo dove sia permesso l’accesso ai turisti di altri piani, oggigiorno.

Kergemmeg lavora laggiù come guida indigena e albergatore, per dare ai turisti un po’ di colore locale, perché il luogo è in tutto e per tutto un’isola tropicale, uguale a cento altre, di altri cento piani: piena di sole, ben ventilata, indolente, bellissima, con alberi dalle foglie simili a piume, sabbia d’oro e grandi onde verdeazzurro dalla chioma bianca, che s’infrangono sulla barriera corallina al margine della laguna.

I turisti vi vengono soprattutto per andare in barca a vela, pescare, raccogliere conchiglie e bere il fermentato, e non hanno ulteriori interessi per quel piano e per l’unico indigeno che incontrano laggiù. All’inizio lo guardano e gli scattano qualche foto, perché è una figura che colpisce: alto più di due metri, sottile, robusto, ossuto, un po’ curvo per l’età, con la testa stretta, occhi grandi e tondi, color nero e oro, e il becco.

La presenza di quest’ultimo rende la sua faccia completamente diversa dalle altre, impedendogli qualsiasi sfumatura espressiva, ma gli occhi e le sopracciglia di Kergemmeg rivelano assai chiaramente le sue emozioni. Anche se è vecchio, è un uomo dalle forti passioni.

Era un po’ stanco e privo d’interesse in mezzo ai soliti turisti privi di curiosità e quando ha scoperto in me un orecchio disposto ad ascoltarlo (certo non il primo e neppure l’ultimo, ma attualmente l’unico), si compiacque di parlarmi della sua gente, mentre sedevamo davanti a un alto bicchiere di ghiacciato, durante le serate lunghe e tiepide, nell’oscurità violacea tutta accesa dalla luce delle stelle, dal riflesso delle onde marine piene di creature luminose e dal luccichio pulsante dì nubi di lucciole, nell’alto dei rami degli alberi-piuma.

«Da tempo immemorabile», mi disse, «gli ansar hanno seguito una Via.» Madan la chiamava. La via della sua gente, la via di tutte le cose, la via nascosta nella parola sempre. Al pari del nostro termine, anche il suo conteneva tutti quei significati. «Poi ci siamo allontanati dalla nostra Via», continuò. «Per un breve periodo. Adesso torniamo a fare come abbiamo sempre fatto.»

La gente dice ogni volta: «abbiamo sempre fatto così», poi si scopre che il loro sempre significa una generazione o due, un secolo o due, al massimo un millennio o due. Le abitudini culturali e i costumi sono moneta spicciola, al confronto delle abitudini e del modo di comportarsi del corpo, della razza.

C’è davvero poco che gli esseri umani del nostro piano abbiano sempre fatto, a parte cercare il cibo e l’acqua, dormire, parlare, procreare, crescere i figli e probabilmente raggrupparsi insieme entro certi limiti.

In realtà si può vedere come nostra essenza umana il numero limitato di imperativi comportamentali da noi seguiti. Quanto siamo flessibili nel trovare nuove cose da fare, nuove vie da seguire. Come cerchiamo in modo ingegnoso, inventivo, disperato, la retta via, la giusta via, la Via (con la maiuscola) che riteniamo di avere perso molto tempo fa in mezzo al bosco delle novità, delle occasioni e delle scelte.

Gli ansar hanno dovuto effettuare una scelta un po’ diversa dalle nostre, forse un po’ più limitata. Ma ha il suo interesse.

Il loro mondo ha un sole più grande del nostro, ma è più lontano dall’astro, cosicché, anche se la sua inclinazione e il suo periodo di rotazione sono pressappoco quelli della Terra, il suo anno dura circa 24 dei nostri. E le stagioni sono analogamente lunghe e senza fretta, ciascuna dura sei dei nostri anni.

Su ogni piano che abbia una stagione corrispondente alla primavera, questa è il tempo della riproduzione, il periodo in cui nascono le nuove vite, e per creature la cui vita dura solo poche stagioni o pochi anni, l’inizio della primavera è anche il periodo dell’accoppiamento, in cui la nuova vita ha inizio. Così è per gli ansar, la cui vita dura, nei loro termini, tre anni.

Abitano su due continenti, uno situato sull’Equatore e un po’ più a nord del Tropico, e il secondo che si stende in direzione del Polo Nord. I due continenti sono uniti da un tratto di terreno stretto, lungo e montuoso, un po’ alla maniera delle due Americhe, anche se il tutto su una scala più piccola. Il resto del mondo è oceano, con alcuni arcipelaghi e qualche grande isola, nessuna abitata tranne quella occupata dall’Agenzia Interplanaria.

L’anno inizia, mi raccontò Kergemmeg, quando nelle città del sud, in mezzo a quelle pianure desertiche, i Sacerdoti dell’Anno danno l’annuncio e grandi folle si radunano per vedere il sole fermarsi sulla cima di una certa torre o colpire con un dardo di luce, all’alba, un certo punto-bersaglio: il momento del solstizio. Da quell’istante in poi l’aumento della temperatura inaridirà i pascoli del sud, le praterie di cereali selvatici; nella lunga stagione asciutta i fiumi si abbasseranno e i pozzi delle città si prosciugheranno. La primavera segue il sole verso il nord, sciogliendo la neve di quei lontani monti, rallegrando di verde le valli. E gli ansar seguono il sole.

«Bene, io me ne vado», si annunciano l’un l’altro i vecchi amici, nelle strade delle città. «Ci si vede!» E i giovani, coloro che si avvicinano a compiere il primo anno — per noi ne avrebbero ventuno o ventidue — lasciano l’abitazione e gli amici, gli ostelli universitari e i club sportivi e vanno alla ricerca dell’uno o dell’altro genitore, dal quale si erano separati l’estate precedente, in mezzo al labirinto di complessi di appartamenti, di refettori comuni e di alberghi cittadini.

Arrivano come per caso e dicono con indifferenza: «Ciao, babbo», oppure: «Ciao, mamma. Pare che tutti facciano ritorno al nord».

E il genitore, attento a non insultarlo, offrendosi di guidarlo lungo la strada percorsa quando il giovane aveva la metà dei suoi anni, dice: «Sì, l’avevo pensato anch’io. Sarebbe bello averti con noi, tua sorella è nell’altra stanza, prepara la roba che dobbiamo portar via».

E così, a uno a uno, a coppie, a tre la volta, la gente lascia la città. L’esodo è un procedimento lungo, privo di qualsiasi ordine. Alcune persone partono poco dopo il solstizio; altre commentano su di loro: «Oh, quanta fretta», oppure: «Shennenne deve andare via presto per poter riprendere la vecchia casa».

Alcune persone si fermano in città finché non è quasi vuota, ma anche allora non si decidono a lasciare le strade roventi e silenziose, le piazze tristi, prive di ombra, che per un’intera metà del lungo anno erano state piene di gente e di musica. Ma prima o dopo, tutti si avviano lungo le strade che portano a nord. E, una volta partiti, viaggiano in fretta.

Quasi tutti hanno con sé soltanto quanto possono portare in uno zaino o caricare su un ruba (dalla descrizione di Kergemmeg, i ruba sono una sorta di asinelli coperti di piume). Alcuni dei commercianti che si sono arricchiti durante la stagione invernale partono con intere carovane di ruba, carichi di beni e di oggetti preziosi.

Anche se la maggior parte della gente viaggia da sola o in piccoli gruppi familiari, sulle strade i gruppi si susseguono a brevissima distanza tra loro. Gruppi più grandi si formano provvisoriamente nei luoghi dove il cammino è difficoltoso e le persone più vecchie e deboli hanno bisogno d’aiuto per raccogliere il cibo.

Nel tragitto che porta al nord non ci sono bambini.

Kergemmeg non sapeva dire il numero di ansar esistenti, ma pensava che ammontasse a parecchie centinaia di migliaia, forse un milione. E tutti prendono parte alla migrazione.

Quando giungono nelle montuose Terre di Mezzo, non si riuniscono, ma si separano per seguire centinaia di sentieri diversi, alcuni percorsi da molte persone, altri da poche, alcuni segnati chiaramente, altri così enigmatici che solo le persone che vi sono già passate sono in grado di riconoscerne il percorso.

«In quei casi è bene avere con sé una persona di tre anni», commentò Kergemmeg a questo punto della narrazione. «Qualcuno che abbia già compiuto due volte il tragitto.»

Viaggiano molto leggeri e molto in fretta. Consumano ciò che cresce spontaneamente dal terreno, tranne nelle regioni più alte e asciutte della zona montuosa, dove, come mi disse: «Alleggeriscono lo zaino». E lassù, nei passi tra gli alti canyon, i ruba delle carovane dei mercanti, spinti allo stremo delle forze, cominciano a incespicare e a tremare, e alcuni muoiono per la stanchezza e il freddo. E se il mercante, nonostante tutto, cerca ancora di spingerli avanti, la gente, che percorre la strada accanto a lui, li libera del carico e li spinge via, e si libera anche delle proprie bestie.

I piccoli ammali si allontanano zoppicando e tornano a sud, in direzione del deserto. Le merci portate dagli animali finiscono sparse ai lati della strada, a disposizione di chi le vuole. Ma nessuno prende niente, tranne un po’ di cibo, se ne ha bisogno. Non vogliono pesi che li rallentino. La primavera — la dolce primavera — si avvicina alle vallate coperte di erba e alle foreste, ai laghi, ai fiumi cristallini del nord: tutti vogliono essere laggiù al suo arrivo.

Ascoltando Kergemmeg, pensai che se si fosse potuta osservare la migrazione dall’alto, vedere tutte quelle persone percorrere a piedi mille sentieri e mille piste, sarebbe stato come osservare la primavera di cento o duecento anni fa, sulla costa occidentale dell’America, quando ogni fiume, dal Columbia largo più di un chilometro al più piccolo ruscello, diventava rosso per la migrazione dei salmoni.

I salmoni si riproducono e muoiono quando raggiungono la loro meta, e anche una parte degli ansar torna a casa per morire: coloro che compiono la loro terza migrazione, i vecchi di tre anni, che per noi sarebbero ultrasettantenni. Alcuni di loro non riescono ad arrivare alla fine del percorso. Consumati dalle privazioni e dalla fatica del viaggio, rimangono indietro. Quando la gente incontra un vecchio, uomo o donna, seduto al margine della strada, scambia con lui qualche parola, lo aiuta a costruirsi un riparo, gli lascia in dono un po’ di cibo, ma non lo spinge a riprendere il viaggio. Se il vecchio è molto debole o è malato, possono aspettare una notte o due, finché un altro migrante non prende il loro posto. Se trovano un vecchio morto a fianco della strada, seppelliscono il corpo. Lo seppelliscono supino, con i piedi in direzione del nord, rivolto verso la sua casa.

«Ci sono moltissime tombe lungo le strade», mi disse Kergemmeg. «Nessuno è mai riuscito a compiere una quarta migrazione.»

I giovani, coloro che sono alla prima o alla seconda migrazione, camminano in fretta, si affollano sui passi più alti dei monti, poi si allontanano ancor più di prima sulle praterie, quando le Terre di Mezzo si allargano, a nord delle montagne. Quando arrivano alle Terre del Nord propriamente dette, le grandi fiumane di persone si sono ramificate in migliaia di rivoletti, deviando a est e ovest, sull’intero nord.

E quando arrivano in un ricco territorio di colline dove l’erba è già verde e gli alberi mettono le foglie, uno dei piccoli gruppi si ferma.

«Bene, siamo arrivati», dice la madre. «E. posto è questo.» Ha le lacrime agli occhi e ride con la risata bassa, crepitante della sua razza. «Shuku, ti ricordi di questo posto?»

E la figlia, che non aveva ancora mezzo anno quando ha lasciato quel luogo — circa undici anni, per noi — si guarda attorno, stupita e incredula, ride ed esclama: «Ma era molto più grande!»

A quel punto, forse Shuku osserva i prati, quasi familiari, del suo luogo di nascita fino alla casa del loro vicino, a malapena visibile, e si chiede se Kimimmid e suo padre, che le avevano raggiunte e si erano accampati con loro per alcune notti e poi erano proseguiti ad andatura più veloce della loro, fossero già arrivati, se fossero tornati a vivere laggiù e, se così era, chissà se Kimimmid sarebbe passato a salutare?

Infatti, le persone che erano vissute così ammassate, in una promiscuità ininterrotta che portava a socializzare facilmente, quando erano nelle Città Sotto il Sole, e avevano condiviso le stanze, i letti, il lavoro e il gioco, e avevano fatto tutto in gruppi, più o meno numerosi, adesso si sono separate, una famiglia si è staccata dall’altra, gli amici si sono allontanati, ciascuno ha raggiunto una piccola abitazione staccata dalle altre, laggiù nella pianura dei pascoli, o un po’ più a nord nella terra ondulata delle colline, o ancora più a nord nella terra dei laghi.

Ma anche se si sono sparsi come i grani di sabbia di una clessidra rotta, i legami che li univano non si sono spezzati, sono soltanto cambiati. Adesso non si uniscono più a gruppi e a folle, non a decine e centinaia e migliaia, ma a coppie.

«Bene, sei arrivato!» esclama la madre di Shuku, quando il padre di Shuku apre la porta della piccola casa ai margini del prato. «Devi averci preceduto di alcuni giorni.»

«Benvenuta a casa», le risponde lui, in tono grave. Gli brillano gli occhi. I due adulti si prendono per mano e sollevano leggermente la testa stretta, munita di becco, in un saluto particolare, intimo e insieme molto ufficiale. Shuku ricorda all’improvviso di averglielo già visto fare quando era piccola e abitavano laggiù, molto tempo prima. Laggiù, nel suo luogo di nascita.

«Kimimmid mi chiedeva di te giusto ieri», il padre dice a Shuku, e schiocca piano una risata.

La primavera è in arrivo, la primavera è imminente. Ora celebreranno le cerimonie di quella stagione.

Dal prato arriva Kimimmid per salutare, e lui e Shuku chiacchierano insieme, passeggiano insieme lungo il pascolo e fino al ruscello. E infine, dopo un giorno o una settimana o due, lui le chiede se vuol venire a danzare.

«Oh, non saprei», risponde lei, ma nel vederlo così alto, con la schiena dritta, la testa un poco sollevata, nella posizione che precede la danza, anche lei si alza; all’inizio ha la testa bassa, anche se tiene la schiena ritta e le braccia lungo i fianchi; poi sente il desiderio di sollevare la testa sempre di più, di allargare le braccia… di danzare, danzare con lui…

E che cosa fanno i genitori di Shuku e quelli di Kimimmid, nell’orto dietro la cucina o nel vecchio frutteto, se non la stessa cosa? L’uno di fronte all’altra, sollevano la testa orgogliosa e stretta, e poi l’uomo fa un salto, con le braccia innalzate al di sopra della testa, un grande salto e un inchino, abbassandosi fin quasi a terra, e la donna lo imita… e così procede, la danza del corteggiamento. Su tutto il continente settentrionale, ora, la gente danza.

Nessuno interferisce con le coppie anziane, che rinnovano il loro corteggiamento, che rinverdiscono il loro matrimonio. Ma Kimimmid farebbe meglio a prestare attenzione.

Una sera, attraverso il prato, giunge un giovanotto che Shuku non ha mai conosciuto; è nato a qualche miglio di distanza. Ha sentito magnificare la bellezza di Shuku. Si accomoda e parla con lei. Le dice che sta costruendo una nuova casa, in un boschetto, un bel posto, più vicino alla casa di Shuku che alla sua. Sarebbe lieto di sentire la sua opinione sul modo di costruirla. E sarebbe altrettanto lieto di danzare con lei, una volta. Magari quella sera stessa, solo qualche momento, un passo o due, prima che lui se ne vada.

È un danzatore meraviglioso. Mentre danza con lui sull’erba, la sera inoltrata di una giornata di inizio primavera, Shuku ha l’impressione di essere trasportata da un grande vento, e chiude gli occhi, le sue mani volano via dai fianchi come trascinate da quel vento, e incontrano le mani di lui…

I genitori di Shuku continueranno a vivere insieme nella casa accanto al prato; non avranno altri figli, perché quel tempo è finito, per loro, ma faranno spesso l’amore, come all’inizio del loro matrimonio.

Shuku sceglie uno dei suoi corteggiatori, il nuovo venuto, a dire il vero. Va a vivere con lui e fa l’amore con lui nella casa che terminano di costruire insieme. Costruire, danzare, coltivare l’orto, mangiare, dormire, ogni atto da loro compiuto diventa un atto d’amore. E a tempo debito Shuku è incinta e a tempo debito dà alla luce due bambini. Ciascuno, alla nascita, è avvolto in una membrana resistente e bianca: in un guscio. Tutt’e due i genitori aprono con le mani e col becco la membrana, liberando il piccolo neonato, raggomitolato su se stesso, che solleva il beccuccio infinitesimale e pigola alla cieca, e già spalanca la bocca, avido di cibo e avido di vita.

Il secondo bambino è più piccolo, non ha fame. Anche se Shuku e il marito la nutrono con grande tenerezza e attenzione, e anche se la madre di Shuku viene ad abitare con loro e nutre la piccolina dal suo stesso becco e la culla senza sosta quando piange, la neonata soffre e si indebolisce.

Una mattina, mentre è in braccio alla nonna, la piccola si agita e boccheggia e infine non si muove più. La nonna piange amaramente, ricorda il fratellino di Shuku, che è sopravvissuto ancor meno, e cerca di consolare Shuku. Il padre della bambina scava una piccola fossa sul retro della nuova casa, in mezzo agli alberi coperti di gemme della lunga primavera, e mentre scava ha le lacrime agli occhi. Ma l’altra bambina, quella grande, Kikirri, cinguetta e schiocca e mangia e cresce.

Quando Kikirri comincia a rizzarsi in piedi e a gridare: «Pa!» al padre e: «Ma!» alla madre e alla nonna e: «No!» quando le dicono di interrompere quello che fa, Shuku ha un altro bambino. Come molti secondogeniti, è singolo. Un bel maschietto, minuto ma vorace. Cresce in fretta.

Sarà l’ultimo figlio di Shuku. Lei e il marito continueranno a fare l’amore, ogni volta che ne avranno il desiderio, con tutta la gioia e la tranquillità della stagione dei fiori e di quella dei frutti, nelle giornate calde e nelle notti tiepide, al fresco sotto gli alberi e all’aperto, nel calore del pascolo sotto il sole del mezzogiorno, pieno del brusio degli insetti, ma sarà, come si dice, «amore per lusso»; non ne verrà altro che amore.

I figli degli ansar vengono al mondo solo all’inizio della primavera, poco dopo il loro ritorno al luogo di nascita. Alcune coppie hanno quattro figli, molte ne hanno tre, ma spesso, se i primi due crescono regolarmente, non c’è un secondo concepimento.

«Be’, vi risparmiate la nostra maledizione delle nascite eccessive», dissi a Kergemmeg quando mi raccontò questi particolari. E lui mi diede ragione, quando gli ebbi parlato un po’ del nostro piano.

Ma non voleva darmi l’impressione che un ansar non avesse alcuna scelta nella riproduzione e nel sesso. La vita di coppia è la regola, le disposizioni e le avversioni umane cambiano, piegano e spezzano la regola, e mi riferì di queste eccezioni. Molte coppie sono costituite di due donne o di due uomini. Spesso, queste coppie, e le altre che sono prive di figli, ricevono un bambino da una coppia che ne ha tre o quattro, o adottano un orfano e lo allevano.

Ci sono persone che non prendono un compagno e persone che ne prendono parecchi, nello stesso tempo o in sequenza. C’è naturalmente l’adulterio. E c’è la violenza. È brutto essere una ragazza in mezzo agli ultimi ritardatari che giungono da sud, perché il desiderio sessuale è già molto forte in loro. Le giovani donne vengono spesso violentate dal gruppo e arrivano al luogo di nascita brutalizzate, senza compagno e incinte.

Un uomo che non trova una compagna, o è in rotta con la moglie, può lasciare la casa e allontanarsi come venditore di aghi e di filo, o come stagnaro e arrotino; questi viandanti sono apprezzati per le loro merci, ma suscitano molta diffidenza quanto ai motivi che li spingono a quella professione.

Dopo avere parlato con lui per parecchie delle sue sere, alla luce violacea del cielo e tra i riflessi sull’acqua, rinfrescati dalla debole brezza di mare, chiesi a Kergemmeg della sua vita. Aveva seguito il Madan, la regola, la Via, sotto ogni aspetto meno uno, mi spiegò.

Si era sposato dopo la sua migrazione al nord. La moglie gli aveva dato due figli, tutt’e due nati nel primo concepimento, un maschio e una femmina, che naturalmente li avevano seguiti a suda tempo debito. L’intera famiglia si era di nuovo riunita per la sua seconda migrazione a nord e tutt’e due i figli si erano stabiliti a poca distanza da loro; di conseguenza conosceva bene i suoi cinque nipoti. Lui e la moglie avevano trascorso in città diverse la maggior parte della loro terza stagione: lei, insegnante di astronomia, si era recata ancora più a sud, all’Osservatorio, mentre Kergemmeg era rimasto a Terke Keter per studiare con un gruppo di filosofi. Poi lei era morta improvvisamente per un arresto cardiaco. Il marito aveva preso parte al suo funerale.

Poco più tardi aveva rifatto il viaggio verso nord con il figlio e i nipoti. «Non ho sentito la mancanza di mia moglie, finché non sono ritornato a casa», mi disse, prosaicamente. «Ma fare ritorno nella nostra casa, vivere laggiù senza di lei, non era una cosa che riuscissi a fare. Poi ho sentito per caso che c’era bisogno di qualcuno per accogliere gli stranieri su quest’isola. Continuavo a pensare al modo migliore di morire e questo mi sembrava una sorta di compromesso. Un’isola in mezzo all’oceano, e non uno della mia razza presente… non era proprio vita e non era morte. L’idea mi divertiva. Così, sono qui.»

Aveva ben più di tre anni di Ansar; noi avremmo detto che andava per gli ottanta, anche se la sua età era rivelata soltanto dalle spalle leggermente curve e dal puro argento della sua cresta di penne.

La sera successiva mi raccontò della migrazione a sud, mi descrisse ciò che prova un uomo degli ansar quando i giorni tiepidi dell’estate settentrionale cominciano a indebolirsi e ad accorciarsi.

Il lavoro di mietitura è finito, il grano è stato chiuso in contenitori stagni per l’anno successivo, le radici commestibili, che aumentano lentamente di dimensione, sono state piantate perché crescano durante l’inverno e siano pronte per la primavera; i bambini sono diventati grandi, attivi, sempre più irrequieti e stanchi della vita domestica, sempre più desiderosi di allontanarsi e di fare amicizia con i figli dei vicini.

La vita è dolce, lassù, ma è sempre uguale, e l’amore per il lusso ha perso la sua urgenza.

Una notte, una notte senza stelle e con il gelo nell’aria, tua moglie, nel letto accanto a te, sospira e mormora: «Lo sai? Sento la mancanza della città». E ritorna a te in una grande ondata di luce e di calore: le folle, le strade lunghe e gli alti edifici, gremiti di gente, la Torre dell’Anno che le supera tutte in altezza, i campi sportivi illuminati dal sole, le piazze di notte, piene di luci, di lanterne e di musica, dove ti siedi ai tavolini dei caffè e bevi e continui a parlare fin quasi al mattino. I vecchi amici, gli amici a cui non hai pensato per tutto quel tempo. Anche gli estranei: da quanto tempo non vedi una faccia nuova? Da quanto tempo non senti una nuova idea, non hai un pensiero nuovo? È ora di tornare in città, è ora di seguire il sole!

«Cara», dice la madre, «non possiamo portare a sud tutta la tua collezione di pietre, limitati a scegliere quelle speciali», e la bambina protesta: «Ma le porterò io! Lo prometto!»

Costretta alla fine ad arrendersi, la bambina trova un posto particolare per le pietre, segreto fino al suo ritorno, senza immaginare che l’anno successivo, giunta nel luogo di nascita, non s’interesserà più della sua infantile collezione di pietre e senza accorgersi che ha già cominciato a pensare al grande viaggio e alle terre sconosciute che la attendono.

«La città: che cosa si fa nelle città? E ci sono collezioni di pietre?»

«Sì», le risponde il padre. «Nel museo. Collezioni molto belle. Ti porteranno a vedere tutti i musei, quando andrai a scuola.»

«Scuola?»

«Vedrai che ti piacerà», interviene la madre, con una certezza assoluta.

«La scuola è il periodo più divertente che esista al mondo», spiega la zia Kekki. «La scuola mi piaceva così tanto, che penso andrò a insegnare, quest’anno.»

La migrazione a sud è assai diversa da quella a nord. Non è una dispersione, ma un raggruppamento, una riunione. Non si svolge a caso, ma con ordine, ed è pianificata da tutte le famiglie di una regione con molti giorni d’anticipo. Si parte tutti insieme, in cinque, dieci, quindici famiglie e la notte si allestisce un accampamento comune. I viaggiatori portano con sé grandi quantità di cibo, in carretti a mano e carriole, utensili per cucinare, combustibile per accendere il fuoco nelle pianure dove non sorgono alberi, abiti pesanti per i passi montani, medicine per eventuali malattie lungo la strada.

Non ci sono vecchi nella migrazione a sud: calcolando con i nostri anni, nessuno che superi i settanta. Coloro che hanno già compiuto tre migrazioni rimangono indietro. Si riuniscono nelle fattorie o nelle piccole cittadine che sono cresciute attorno alle fattorie stesse, oppure attendono la fine della vita insieme al partner, o soli, nella casa dove hanno vissuto le primavere e le estati della loro vita. (Penso che Kergemmeg, nel dire che aveva seguito tutte le volte, meno una, la Via del suo popolo, intendesse dire che non era rimasto a casa ma era venuto all’isola.)

La «separazione invernale», come la chiamano, tra i giovani che vanno a sud e i vecchi che restano a casa è dolorosa. È stoica. È come deve essere.

Solo coloro che rimangono nel nord vedranno la bellezza dell’autunno nell’emisfero settentrionale, la lunga durata del crepuscolo azzurro, i primi sottili disegni del ghiaccio sui laghi. Alcuni di loro hanno lasciato quadri o lettere che descrivono queste visioni, a beneficio dei figli e nipoti che non rivedranno più. Molti muoiono ancor prima del lungo, lunghissimo periodo di oscurità e di gelo dell’inverno. Nessuno gli sopravvive.

Ogni gruppo di migranti, a mano a mano che scende verso le Terre di Mezzo, è raggiunto da altri che arrivano dall’est e dall’ovest. E la notte il bagliore dei fuochi da campo copre la grande prateria da un orizzonte all’altro. La gente canta attorno ai fuochi dei bivacchi, e i loro placidi cori restano come sospesi nell’oscurità, tra i fuochi dei falò e quelli delle stelle.

Nessuno corre, durante il viaggio verso sud. Camminano tranquillamente, senza percorrere molta strada ogni giorno, ma non si fermano a lungo. Quando arrivano ai piedi delle montagne, le grandi masse tornano a suddividersi sui numerosi sentieri diversi e si assottigliano, perché è preferibile essere in pochi, sui sentieri montani, anziché camminare in mezzo alla polvere e alla spazzatura lasciata dagli altri.

Sui monti e in occasione dei passi dove la strada è una sola, sono però costretti a riunirsi. Ne approfittano, si salutano allegramente e si offrono reciprocamente cibo, fuoco, riparo. Tutti sono gentili con i ragazzi piccoli, che faticano a salire sui ripidi sentieri montani e si spaventano per i precipizi; per aiutarli rallentano il passo.

E una sera, quando hanno ormai l’impressione di lottare con le montagne da un tempo infinito, attraversano un passo d’alta quota, in mezzo a pareti di roccia, e arrivano al belvedere. La Faccia del Sud, o il Monte Becco di Dio, o il Tor.

Lassù si fermano e guardano lontano, in basso, sulle pianure dorate del sud, illuminate dal sole, sui campi infiniti di grano selvatico, e su alcune pallide strisce rosse, le pareti e le torri delle Città Sotto il Sole.

Lungo la discesa procedono più in fretta. E consumano meno cibo, e la polvere che sollevano sul loro cammino è una grande nube dietro di loro.

Arrivano infine alle città — ce ne sono nove e Keter è la più grande — che sono piene di sabbia e di silenzio sotto la luce del sole. Vi entrano dalle vie e dalle porte, ne riempiono le strade, accendono le lanterne, prelevano l’acqua dai pozzi pieni fino all’orlo, sistemano i loro giacigli nelle stanze vuote, gridano da una finestra all’altra e da un tetto all’altro.

La vita nelle città è così diversa da quella nelle campagne che i bambini non riescono a crederlo. Sono turbati e dubbiosi; la disapprovano. È troppo rumorosa, si lamentano. Fa caldo. Non si riesce mai a stare soli, dicono; piangono, le prime notti, per la nostalgia di casa. Ma vanno a scuola non appena si organizzano i corsi scolastici e laggiù trovano tutti i ragazzi della loro età, anch’essi turbati, dubbiosi e pieni di disapprovazione, ma anche timidi, ansiosi ed emozionati.

Quando erano ancora a casa hanno imparato a scrivere, a leggere e a far di conto, nello stesso tempo in cui imparavano falegnameria e agricoltura, grazie all’insegnamento dei genitori; ma nelle città ci sono corsi specializzati, biblioteche, musei, gallerie d’arte, concerti, insegnanti d’arte, di letteratura, di matematica, di astronomia, di architettura, di filosofia, ci sono sport di ogni genere, partite, atletica, e in un posto o nell’altro della città c’è ogni notte un ballo in cerchio, e soprattutto ci sono tutte le altre persone del mondo, affollate entro quelle pareti gialle, tutte che s’incontrano e parlano e lavorano e pensano insieme, in un interminabile fermento di menti e occupazioni.

I genitori raramente rimangono insieme nelle città. Laggiù la vita non si vive a coppie, ma a gruppi. Si separano, seguendo amici, interessi, professioni, e si vedono occasionalmente.

All’inizio i figli abitano con uno dei genitori, ma presto anch’essi preferiscono vivere per conto proprio e vanno ad abitare in una delle «conigliere» dei giovani, nelle comuni, nei dormitori dei college. I giovani di entrambi i sessi abitano insieme, esattamente come uomini e donne adulti.

Il sesso non ha importanza quando non c’è sessualità. Infatti, si fa tutto quel che esiste al mondo, nelle Città Sotto il Sole, tranne fare l’amore.

Amano, odiano, imparano, costruiscono, pensano molto, lavorano duro, giocano, gioiscono con passione e soffrono disperatamente; vivono una vita umana e non pensano mai al sesso, a meno che — come mi disse Kergemmeg con l’espressione del giocatore di poker -non siano filosofi.

I loro successi, i loro monumenti collettivi, sono tutti nelle Città Sotto il Sole, le cui torri e i cui edifici pubblici, come ho potuto vedere in un album di disegni mostratomi da Kergemmeg, variano dalla purezza dell’austerità alla più fervida magnificenza.

Laggiù si scrivono i loro libri, laggiù il loro pensiero e la loro religione hanno preso forma nel corso dei secoli. La loro storia e la loro continuità culturale sono laggiù.

Quel che vedono nel nord, invece, è la loro continuità come esseri viventi.

Kergemmeg mi disse che mentre erano nel sud non sentivano affatto la mancanza della sessualità. Su questo dovetti accettare la sua parola, che mi venne data, anche se a noi sembra difficile immaginarlo, come un semplice dato di fatto.

E mentre cerco di riferire qui le sue parole, mi pare sbagliato descrivere quella vita come asessuata o casta, parole che indicano una resistenza al desiderio, forzata o volontaria che sia. Ma se non c’è desiderio non c’è resistenza, non c’è astinenza, bensì quella che si potrebbe chiamare, nel senso estremo del termine, innocenza.

Per loro, la vita coniugale è un ricordo vuoto, privo di significato. Se una coppia rimane insieme, o si incontra spesso durante! la permanenza nel sud, significa che sono straordinariamente buoni amici, perché si vogliono bene. Ma vogliono bene anche agli altri amici. Non si isolano mai dagli altri. Non c’è molta privacy nelle grandi case delle città, e nessuno la desidera. Laggiù la vita è in comune, attiva, sociale, gregaria, e piena di piaceri.

Ma lentamente i giorni si fanno più caldi, l’aria più asciutta; nell’atmosfera si diffonde un’irrequietezza. Le ombre cominciano a cadere in modo diverso. E la folla si raduna nelle strade per ascoltare l’annuncio del solstizio, proclamato dai Sacerdoti dell’Anno, e per vedere il sole fermarsi, rimanere immobile e poi tornare indietro.

La gente lascia le città, singolarmente, a coppie, a famiglie intere. Ha ripreso di nuovo a muoversi quel dolce brusio degli ormoni nel sangue, quel primo vago ricordo, annuncio o richiamo, la conoscenza, da parte del corpo, dell’avvento del suo regno.

I giovani seguono ciecamente quella conoscenza senza rendersi conto di saperla già. Le coppie sposate sono spinte a riunirsi da tutti i ricordi che riaffiorano, intensamente dolci. Tornare a casa, tornare a casa e rimanere laggiù insieme!

Tutto ciò che hanno imparato e ciò che hanno fatto per tutte quelle migliaia di giorni e di notti nelle città, se lo lasciano alle spalle, impacchettato e riposto in qualche armadio. Fino a quando non ritorneranno nuovamente a sud.

«Per questo fu così facile farci deviare», mi spiegò Kergemmeg. «Perché la nostra vita nel nord e quella nel sud sono così diverse da sembrare, a voialtri, incoerenti, incomplete, e non possiamo collegarle tra loro razionalmente, non siamo in grado di spiegare o giustificare il nostro Madan a coloro che hanno un solo tipo di vita. Quando i Bayder sono giunti sul nostro piano, ci hanno detto che la nostra Via era puro istinto e che vivevamo come animali. Ci siamo vergognati di noi.»

(Più tardi ho cercato il termine usato da Kergemmeg, «Bayder», nell’Enciclopedia Planaria, dove ho trovato una voce sui Beidra del piano di Unon, un popolo aggressivo e intraprendente, con tecnologie fisiche assai progredite e che più di una volta sono incorsi nelle ire dell’Agenzia Interplanaria per avere interferito con gli altri piani. La guida turistica assegna loro il simbolo che significa «di particolare interesse per ingegneri, programmatori di computer e analisti di sistemi».)

Kergemmeg me ne parlò con una sorta di pena. Cambiò voce, parlò in tono più acuto.

Era ancora un bambino, al loro arrivo; in effetti erano i primi visitatori venuti da un altro piano. In seguito, per tutta la vita, non era mai riuscito a scordarli.

«Ci hanno detto che avremmo dovuto prendere il controllo della nostra vita. Non dovevamo vivere due mezze esistenze separate, ma vivere pienamente per tutto il tempo, per tutto l’anno, come fanno tutti gli esseri intelligenti. Erano una grande razza, piena di grandi scienze e con una vita piena di lussi e di comodità. Per loro eravamo davvero poco più che animali.

«Ci parlarono di come le altre razze vivevano nei loro pianeti e ci mostrarono le immagini. Noi capimmo che era una sciocchezza rinunciare al sesso per metà della vita. Capimmo che eravamo stupidi a consumare tanto tempo ed energia per viaggiare a piedi dal nord al sud, quando potevamo costruire navi, strade e automobili, o aeroplani, e andare avanti e indietro cento volte l’anno, se ne avevamo voglia.

«Capimmo che potevamo costruire città nel Nord e fattorie nel Sud! Perché no? Il nostro Madan era dispendioso e irrazionale, un semplice impulso animalesco che ci comandava. Per liberarcene era sufficiente prendere le medicine che i Bayder ci avrebbero dato. Quanto ai nostri figli, non c’era bisogno che prendessero medicine, perché potevano farsi alterare l’organismo dalla scienza genetica di Bayder.

«A quel punto, il nostro desiderio sessuale non ci avrebbe più lasciato, fino a tarda età, come accadeva ai Bayder. E una donna sarebbe stata in grado di concepire in qualsiasi momento prima della menopausa, persino nel Sud. E il numero dei suoi figli non avrebbe avuto limite… Erano ansiosi di darci quelle medicine. E noi conoscevamo la saggezza dei loro dottori.

«Non appena venuti da noi, ci avevano dato cure per alcune delle nostre malattie che guarivano la gente come per miracolo. Conoscevano così tante cose. Li vedevamo volare nei loro aeroplani e li invidiavamo, e ci vergognavamo di noi.

«Portarono macchine, destinate a noi. E noi cercammo di guidare sulle nostre strade strette, sassose, le loro auto. Ci mandarono ingegneri per darci ordini e noi cominciammo a costruire una grande autostrada che attraversava le Terre di Mezzo. Facemmo saltare le montagne con gli esplosivi che i Bayder ci avevano dato perché l’autostrada potesse correre in piano, e larga, da sud a nord e da nord a sud. Mio padre era uno di coloro che lavorarono sull’autostrada. Ci furono migliaia di uomini che lavorarono su quella strada, per un certo periodo. Uomini delle fattorie del Sud… solo uomini.

«Le donne dei Bayder non facevano quel tipo di lavoro. ‘Le donne devono stare a casa con i bambini’, ci dissero, ‘mentre gli uomini sono al lavoro.’»

Kergemmeg sorseggiò pensieroso il suo e fece correre lo sguardo sul mare luccicante e sul cielo punteggiato di stelle.

«Ma le donne uscirono dalle fattorie e parlarono agli uomini», continuò. «Dissero di ascoltare anche loro, e non solo i Bayder. Forse le donne non provano vergogna come gli uomini. Forse la loro vergogna è diversa, più una cosa del corpo che della mente. Non davano molta importanza alle automobili e ai bulldozer, ma ne attribuivano molta alle medicine che avrebbero cambiato la nostra natura e alle leggi che imponevano agli uni un certo tipo di lavoro e alle altre un altro. Dopotutto, nella nostra specie, la donna dà alla luce il figlio, ma tutt’e due i genitori lo nutrono e lo crescono. Perché lasciare i bambini alla sola madre?

«Le donne lo domandarono a noi. Com’era possibile che una donna allevasse quattro figli? O più di quattro? Era inumano. E poi, nelle città, perché le famiglie dovevano rimanere unite? Il figlio non ha bisogno dei genitori, laggiù, e i genitori non hanno voglia di badare ai figli, hanno altro da fare… Le donne ne parlarono a noi uomini, e tutti insieme cercammo di farci capire dai Bayder.

«Ma essi ci risposero: ‘Tutto cambierà. Vedrete. Adesso non ragionate in modo corretto. È solo una conseguenza dei vostri ormoni, della vostra programmazione genetica, che noi correggeremo. A quel punto sarete liberi dei vostri modelli di comportamento irrazionali e inutili’.

«Noi rispondemmo: ‘Ma saremo liberi dai vostri modelli di comportamento irrazionali e inutili?’

«Gli uomini che lavoravano nel cantiere dell’autostrada cominciarono a buttare a terra gli attrezzi e ad abbandonare le grandi macchine che i Bayder ci avevano fornito. Dicevano: ‘A che ci serve questa strada quando ne abbiamo già mille, nostre?’ E tornarono nel Sud, lungo i vecchi sentieri e le antiche piste.

«Vedi, tutto questo successe — per nostra fortuna, penso — verso la fine di una stagione del Nord. Lassù, dove viviamo isolati, e gran parte della nostra vita trascorre nel corteggiamento, nel fare l’amore e nell’allevare i figli, noi siamo, non so come dirlo, più impressionabili, più vulnerabili, e abbiamo la vista più corta. Avevamo appena iniziato a riunirci, all’epoca. Ma quando giungemmo a Sud, quando fummo tutti insieme nelle Città Sotto il Sole, potemmo raggrupparci, discuterne tra noi, consigliarci reciprocamente e ascoltare le altrui obiezioni per decidere che cosa fosse meglio per noi, intesi come un’unica razza.

«Dopo avere fatto questo e avere nuovamente parlato con i Bayder e avere lasciato che dicessero la loro, convocammo un Gran Consiglio, come quelli di cui si parla nelle leggende e nelle antiche cronache conservate nelle Torri dell’Anno, dove teniamo i nostri documenti storici. Ciascun ansar si recò alla Torre dell’Anno della sua città e diede il proprio voto: ‘Dobbiamo seguire la Via dei Bayder o la nostra Manad?’ Se avessimo scelto di seguire la loro Via, sarebbero rimasti tra noi; se avessimo scelto la nostra, se ne sarebbero andati. Noi scegliemmo la nostra Via.» Il suo becco batté piano, mentre rideva soddisfatto. «Io avevo già mezzo anno, all’epoca, e votai con gli altri.»

Non c’era bisogno di chiedergli come avesse votato. Gli domandai invece se i Bayder avessero accettato di andarsene.

«Alcuni di loro protestarono, altri ci minacciarono», mi spiegò. «Ci parlarono delle loro guerre e delle loro armi. Sono certo che avrebbero potuto distruggerci dal primo all’ultimo, ma non lo fecero. Forse ci disprezzavano così profondamente da non fare neppure quello sforzo. Oppure fu una delle loro guerre a richiamarli indietro.

«A quell’epoca avevamo ormai ricevuto anche la visita di alcuni funzionari dell’Agenzia Interplanaria e probabilmente fu grazie al loro intervento che i Bayder ci lasciarono in pace. E tanti di noi erano allarmati: con un’altra votazione decidemmo di non accogliere ulteriori visitatori. Perciò adesso l’Agenzia li fa venire solo su questa isola. Non so se la nostra scelta sia stata quella giusta: a volte mi pare di sì, a volte ho dubbi. Perché avere paura delle altre razze, delle altre Vie? Non possono essere tutte come i Bayder.»

«Penso che abbiate fatto la scelta giusta», gli assicurai. «Ma lo dico, anche se la mia volontà sarebbe un’altra. Sarei desiderosa di vedere una donna ansar, di vedere i vostri bambini, di vedere le Città Sotto il Sole! Desidererei moltissimo vedere le vostre danze!»

«Oh, be’, quelle le puoi vedere», mi rispose. Forse avevamo bevuto più del solito, quella sera.

In piedi sulla veranda che dava sul mare, nell’oscurità interrotta dal riflesso delle stelle sull’acqua, mi parve altissimo. Raddrizzò le spalle, piegò all’indietro il collo. La cresta che aveva sul capo si sollevò lentamente, fino a formare una penna rigida, argentea alla luce delle stelle. Sollevò le braccia al di sopra della testa. La posa degli antichi ballerini spagnoli, fiera ed elegante, tesa e intensamente maschile. Non fece salti — dopotutto era un ottantenne — ma in qualche modo mi diede l’impressione di (saltare, poi mi rivolse un profondo, elegante inchino. Col beccò batté un ritmo a due tempi, rapido, pestò due volte i piedi, e li mosse velocemente, eseguendo una serie complicata di passi, mentre la parte alta del suo corpo rimaneva tesa e ritta. Infine abbassò le mani in un ampio gesto d’abbraccio, verso di me, che sedevo immobile, quasi terrorizzata dalla bellezza e dalla concentrazione della sua danza.

Infine si fermò e rise. Era senza fiato. Tornò a sedere e si passò la mano sulla fronte e la testa; ansimava un poco.

«Dopotutto», si scusò, «non è la stagione del corteggiamento.»

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