Dall’inedito Viaggio a Qoq, Rehik e Djg di Thomas Atall, per gentile concessione dell’autore.
Il piano di Qoq è inconsueto per il fatto di avere due specie razionali (o più o meno razionali).
I daqo sono umanoidi robusti dalla pelle verde-marrone. Gli aq sono più alti e un po’ più verde-bronzo dei daqo. Le due specie, anche se discendono da un comune antenato scimmiesco, non danno ibridi fertili.
Un po’ più di quattromila anni fa, i daqo hanno conosciuto quello che l’Enciclopedia planaria chiama un EEPT, periodo di espansione esplosiva di popolazione e tecnologia.
Prima di allora, le due specie erano raramente venute in contatto. Gli aq abitavano nel continente meridionale, i daqo in quello settentrionale. La popolazione dei daqo era aumentata esponenzialmente e si era diffusa sulle tre masse continentali dell’emisfero settentrionale e poi su quello meridionale. E mentre conquistavano il loro mondo, accidentalmente conquistarono anche gli aq.
I daqo cercarono di servirsi degli aq come schiavi nei lavori domestici e nelle fabbriche, ma non ne furono in grado. Pare che gli aq, anche se non erano aggressivi, non prendessero ordini.
Nel periodo culminante dell’EEPT e nel nome del progresso, le nazioni daqo più espansionistiche seguirono una politica di sterminio degli aq «primitivi» e «incapaci di apprendere». Coloro che si insediarono nella zona equatoriale spinsero la rimanente popolazione aq ancora più a sud, nei deserti e nei canneti della costa, a malapena abitabili.
Tutte le specie di Qoq, a parte qualche parassita e gli insuperabili e indifferenti batteri, soffrirono gravemente gli effetti della EEPT dei daqo. Nell’ecocatastrofe finale, la popolazione daqo si ridusse di quattro miliardi in soli quarant’anni. La specie è sopravvissuta; oggi vive in tono modesto, è assai ridotta come popolazione e bada più alla sopravvivenza che al dominio.
Quanto agli aq, probabilmente ben pochi, forse solo qualche centinaio, sono sopravvissuti alla rapida e definitiva distruzione della rete ecologica planetaria.
La derivazione da quel ridotto ceppo genetico potrebbe spiegare la prevalenza di certe caratteristiche presso gli aq, ma resta inesplicabile l’uniformità dell’espressione culturale di quelle tendenze. Non sappiamo bene come fossero prima del crollo dei daqo, ma il loro presunto rifiuto di eseguire gli ordini dell’altra specie suggerisce che stessero già lavorando, per così dire, in base a ordini propri.
Ci sono oggi circa due milioni di daqo, soprattutto sulle coste dei continenti del Sud e del Nord-ovest. Abitano in piccole città o in fattorie e praticano lavori agricoli e commercio; la loro tecnologia è efficiente ma modesta, limitata sia dall’esaurimento delle risorse del loro mondo, sia da rigorosi divieti religiosi.
Ci sono probabilmente quindicimila o ventimila aq, tutti sul continente meridionale. Vivono come pescatori e raccoglitori, con qualche attività agricola, limitata e senza precisi programmi. L’unico loro animale domestico sopravvissuto alle decimazioni è il boos, una creatura intelligente che deriva da carnivori i quali cacciavano in branco. Gli aq li usavano per la caccia quando c’erano ancora animali da cacciare. Dal crollo dei daqo usano i boos per portare — o trainare — piccoli pesi, come compagnia e come cibo nei momenti peggiori.
I villaggi aq sono mobili. Fin da tempi immemorabili le loro case sono cupole di tela tese su un’armatura di pali leggeri o di canne, facili da montare, smontare e trasportare. Le alte canne, che crescono nelle oasi del deserto e lungo l’intera costa della zona equatoriale del continente Sud, sono la loro principale risorsa; gli aq raccolgono i germogli come cibo, filano e tessono la fibra per farsi gli abiti, usano i fusti per fare corde, cestini e attrezzi. Quando hanno esaurito tutte le canne di una regione, smontano il villaggio e si trasferiscono. In pochi anni le canne si rigenerano dalla radice.
Gli aq sono rimasti in prevalenza nella regione dei deserti e dei canneti in cui li hanno relegati i daqo nei precedenti millenni. Alcuni però si accampano all’esterno delle cittadine daqo e intrattengono con loro rapporti: un po’ di baratto e di piccole ruberie. I daqo prendono da loro i bei tessuti e i cestini, e sopportano con sorprendente pazienza i furtarelli.
In effetti l’atteggiamento dei daqo nei confronti degli aq è difficile da definire. Una sua parte è costituita dalla cautela: una sorta di inquietudine che non è sospetto o sfiducia; un’attenzione che, sorprendentemente, non arriva mai all’animosità o al disprezzo e che può anche risultare conciliante.
È ancor più difficile dire quel che gli aq pensano dei daqo. Le due comunità si parlano con un pidgin o lingua franca contenente elementi di tutt’e due le lingue, ma pare che nessun individuo impari mai la lingua dell’altra specie. Le due comunità sembrano essere giunte a una coesistenza senza rapporti. Non hanno legami, a parte quei contatti sporadici e leggermente abrasivi ai margini dei villaggi daqo del Sud e una limitata, strana collaborazione che riguarda quella che posso solo chiamare l’ossessione specifica degli aq.
Il termine «ossessione specifica» mi piace poco, ma «istinto culturale» è peggio.
Quando hanno circa due anni e mezzo o tre, i bambini degli aq iniziano a costruire. Qualunque cosa giunga nelle loro manine verde-bronzo e possa servire come blocco o mattone viene messo in pila e utilizzato per costruire una «casa». Gli aq usano la stessa parola per quelle strutture in miniatura e per le fragili cupole di canne e tela in cui abitano, ma non c’è alcuna somiglianza, a parte il fatto che tutt’e due sono volumi coperti da un tetto e chiusi da una porta.
Le «case» dei bambini sono rettangolari, hanno il tetto piatto e sono sempre fatte di materiali robusti e pesanti. Non sono imitazioni delle case dei daqo, o lo sono solo alla lontana, dato che la maggior parte di quei bambini non sono mai stati in una città daqo e non hanno mai visto un edificio dei daqo.
È difficile credere che si imitino l’un l’altro con una tale unanimità da non cambiare mai il progetto, ma è ancora più difficile credere che il loro stile di costruzione sia innato, come quello degli insetti. Diventando adulti e più abili, i bambini costruiscono case sempre più grandi, anche se non superano mai l’altezza del ginocchio, con passaggi, cortili e a volte anche torri.
Molti bambini trascorrono tutto il tempo libero raccogliendo pietre o facendo mattoni di fango per costruire «case». Non riempiono queste costruzioni di animali o persone-giocattolo e non raccontano storie su di esse. Si limitano a costruirle, con un piacere e una soddisfazione evidenti.
Verso i sei o sette anni alcuni bambini smettono di giocare alla costruzione, ma altri continuano a lavorarvi, insieme con altri bambini, spesso sotto la guida di adulti interessati, fino a costruire «case» di notevole complessità, anche se non grandi a sufficienza perché qualcuno vi abiti. I bambini non giocano al loro interno.
Quando il villaggio smonta le cupole e passa a un nuovo luogo di raccolta o a un nuovo canneto, questi bambini si lasciano alle spalle le costruzioni senza rimpianti. Non appena giunti nella nuova residenza ricominciano a costruire, spesso recuperando pietre o mattoni dalle case lasciate sul luogo da una precedente generazione. I luoghi di raccolta più frequentati sono contrassegnati da decine o centinaia di rovine in miniatura, di solida fattura, popolati solo da un anfibio, il pioto di palude, e dal piccolo hikiqi del deserto, simile a un topo.
Nessuna rovina del genere è stata trovata nelle aree dove gli aq vivevano prima della conquista daqo. Evidentemente, la loro propensione a costruire era meno forte, o non esisteva, prima della conquista o prima del crollo dei daqo.
Due o tre anni dopo le loro cerimonie dell’adolescenza, alcuni dei giovani, coloro che hanno continuato a costruire «case» fino alla pubertà, partono per il loro primo Pellegrinaggio delle Pietre.
La partenza per il Pellegrinaggio delle Pietre avviene una volta l’anno dai territori degli aq. Il viaggio completo occupa da due a tre anni, poi il viaggiatore ritorna al proprio villaggio natale per cinque o sei anni. Alcuni aq non partono mai per il pellegrinaggio, alcuni vi prendono parte più volte nel corso della loro vita.
Il tragitto del pellegrinaggio giunge fino alla costa di Riqim, sul continente nordoccidentale, e poi il ritorno è al Mediro, un altipiano roccioso assai all’interno rispetto ai canneti più a sud del grande continente meridionale.
Gli aq che fanno il pellegrinaggio si radunano in primavera: partono dai loro vari villaggi e arrivano per via terra o su zattere di canna a Gatbam, un piccolo porto nei pressi dell’equatore, sulla costa occidentale. Laggiù una flotta di barche di canna e tela cerata li attende. Marinai e piloti sono tutti daqo del continente meridionale, sono marinai di professione, soprattutto pescatori; alcuni di loro «fanno la rotta delle pietre» ogni anno, per decenni. I pellegrini aq non hanno nulla con cui pagarli; arrivano con le provviste per il viaggio ma niente altro.
Quando sono a Riqim, i marinai daqo pescano con la rete e salano i pesci di quelle acque particolarmente ricche; un’attività che rende il loro viaggio particolarmente vantaggioso. Ma non vanno mai a pescare laggiù, se non quando viene organizzata la flotta per il Pellegrinaggio delle Pietre.
Il pellegrinaggio stesso richiede parecchie settimane. La parte pericolosa è il viaggio verso il nord, che si svolge all’inizio dell’anno in modo che il ritorno, quando si riporta a casa il carico, si possa svolgere nel periodo migliore. Di tanto in tanto, qualche barca o un’intera flotta vanno perse nelle forti tempeste tropicali di quel grande oceano.
Non appena sbarcano sulle rive rocciose del Riqim, gli aq si mettono al lavoro. Sotto la direzione di viaggiatori delle pietre più esperti che hanno già compiuto altre volte il pellegrinaggio, i novizi rizzano le tende a cupola, vi immagazzinano le scarse provviste, raccolgono gli attrezzi lasciati dall’ultimo gruppo di pellegrini e risalgono i ripidi pendii verdi che portano alle cave.
La riqimite è una pietra di colore verde chiaro, liscia, a grana fine, con la tendenza a sfaldarsi lungo un piano. La si può segare sotto forma di blocchi o spaccare in lastre, piastrelle e persino fogli talmente sottili che la luce li attraversa. Anche se relativamente leggera, è pur sempre una pietra e una barca a vela di canne e tela catramata, lunga dieci metri, non ne può portare grandi moli; perciò i pellegrini valutano con attenzione la quantità estratta. Sbozzano la pietra a Riqim e cominciano laggiù a lavorarla, in modo che lo spazio sulle barche non sia sprecato. Lavorano, in fretta perché vogliono ripartire nella stagione calma, verso il solstizio. Quando hanno terminato il lavoro alzano una bandiera su un alto palo per segnalare la cosa alla flotta daqo, che nei giorni successivi viene a prelevarli, una barca alla volta. Portano a bordo la pietra, la collocano sotto i barili di pesce salato e fanno nuovamente vela verso il sud.
Le barche toccano terra in un porto o l’altro dei daqo, soprattutto quello da cui proviene l’equipaggio, per scaricare e vendere, il pesce, poi tutte risalgono la costa per parecchie centinaia di chilometri fino a Gazt, un porto molto lungo, dall’acqua bassa, nei torridi acquitrini a sud del paese dei canneti. Laggiù i marinai aiutano gli Aq a scaricare la pietra. Non ricevono pagamento per quella parte del viaggio e non ne traggono alcun profitto.
Chiesi a una donna capitano che aveva «fatto la rotta delle pietre» parecchie volte, perché lei e i suoi marinai accettassero di portare fino a Gazt i pellegrini e le loro pietre. Lei si strinse nelle spalle. «Fa parte dell’accordo», mi disse. Evidentemente non aveva pensato granché alla cosa. Dopo avere riflettuto, aggiunse: «Sarebbe un lavoraccio, trascinare quella pietra per tutta la distesa delle paludi».
Prima ancora che le barche dei daqo siano uscite dall’imboccatura del porto, gli aq cominciano a caricare la pietra su carretti lasciati sui moli dai pellegrini dell’anno precedente.
Poi si legano le cinghie attorno al petto e trainano quei carri per cinquecento chilometri nell’entroterra, superando un dislivello di tremila metri.
Non percorrono più di tre o quattro chilometri al giorno. Si accampano prima di sera e si allontanano a ventaglio dal sentiero per raccogliere vegetali commestibili e tendere trappole per gli hikiqi, dato che ormai le loro scorte si stanno esaurendo.
Tra tutti i sentieri che si snodano sulle montagne, il convoglio dei carri segue quello che è stato usato meno di recente, perché laggiù la caccia e la raccolta saranno migliori.
Durante il viaggio per mare e nel Riqim, la disposizione d’animo dei pellegrini tende a essere solenne e tesa. Non sono abituati a viaggiare per mare, il lavoro alla cava è duro ed esigente. Anche trainare i carri servendosi di cinghie legate attorno al petto non è un lavoro leggero, ma i pellegrini lo affrontano con allegria; parlano e scherzano tra loro mentre tirano i carretti, condividono il cibo e siedono tutti insieme intorno al fuoco da campo, per parlare fino a tardi, e si comportano come ogni gruppo di persone che affronta volontariamente un difficoltoso lavoro comune.
Discutono quale sentiero prendere, si insegnano il modo di riparare le ruote, e così via. Ma quando sono andato con loro non li ho mai sentiti parlare delle cose più importanti, come il compito che si erano assunti, la meta del loro viaggio.
Tutti i sentieri devono infine superare il pendio che porta all’altipiano. Quando i pellegrini arrivano in cima, dopo quell’ultima terribile salita, si fermano e guardano a sud-est. Uno dopo l’altro, i carretti lunghi e piatti, carichi di pietre impolverate, salgono fino in cima, sobbalzando e dondolando sulle asperità, e si fermano. Senza sciogliersi dalle cinghie, i pellegrini guardano in silenzio l’Edificio.
Dopo centinaia di anni di lento recupero dell’ecosistema distrutto, un numero sufficiente di Aq ebbe abbastanza cibo per trovare energia da dedicare ad altre attività, oltre a quella di raccogliere il cibo e conservarlo. Fu allora, quando la pura sopravvivenza era ancora aleatoria, che ebbe inizio il Pellegrinaggio delle Pietre.
Erano così pochi di numero, in un mondo così ostile, con un’atmosfera danneggiata, con i grandi cicli della vita non ancora ristabiliti negli oceani avvelenati e impoveriti. La terra era piena di ossa, di rovine, di foreste morte, di deserti di sale, di sabbia, di veleni chimici… come può essere venuto in mente, agli abitanti di un mondo del genere, di intraprendere un simile lavoro? Come sapevano che la pietra da loro cercata si trovava a Riqim? Come sapevano dove fosse Riqim? Che all’inizio arrivassero là in qualche modo, senza bisogno delle barche e dei navigatori Daqo?
Le origini del Pellegrinaggio delle Pietre sono assolutamente misteriose, ma non meno misteriose del loro oggetto. Sappiamo solo che ogni pietra dell’Edificio viene dalle cave di Riqim e che gli aq lo costruiscono da più di tremila, forse quattromila anni.
È immenso, naturalmente, copre molti ettari e contiene migliaia di stanze, passaggi e cortili. È certamente uno dei più grandi edifici, forse il più grande, su tutti i mondi conosciuti. Eppure le descrizioni della sua dimensione, i conteggi e le misure, i paragoni e i superlativi non hanno significato.
Il fatto è che con una tecnologia come quella della Terra contemporanea, o dell’antica Daqo, si potrebbe costruire in dieci anni un edificio dieci volte più grande.
È possibile che la vastità dell’Edificio in continua crescita sia la metafora o l’illustrazione di una simile enormità reale.
Oppure la dimensione dell’edificio può essere puramente un effetto della sua età. Le parti più vecchie, ormai molto lontane, delle sue pareti esterne, non mostrano alcuna indicazione che fossero viste — o che non lo fossero — come l’inizio di qualcosa di immenso. Sono fatte esattamente come le «case» dei bambini aq, ma su una scala più grande.
Tutto il resto dell’Edificio è stato aggiunto a quel modesto inizio, più o meno nello stesso stile, anno dopo anno. Dopo forse qualche secolo, i costruttori hanno cominciato ad aggiungere piani sul tetto piatto dell’Edificio originale, ma non hanno mai superato i quattro piani, a parte le torri e i pinnacoli e le grandi cupole a botte che raggiungono l’altezza di una sessantina di metri.
Inevitabilmente l’Edificio ha continuato a crescere ai lati, verso l’esterno, grazie a padiglioni, ali e portici e cortili tutti uniti tra loro, e ormai copre un’area così vasta che da lontano sembra un terreno fantastico, un basso paesaggio montano tutto di pietra verde-argento.
Anche se non è una costruzione nana come le strutture dei bambini, l’Edificio, curiosamente, non è in scala del tutto corretta, se si adotta come unità di misura l’altezza media degli aq. Il soffitto è appena alto a sufficienza per permettere loro di stare in piedi; per passare attraverso le porte devono piegare la schiena.
Nessuna parte dell’Edificio è in rovina, o ha bisogno di manutenzione, anche se l’altipiano del Mediro è scosso occasionalmente da qualche terremoto. Le aree danneggiate sono riparate l’anno successivo, oppure si recupera la loro pietra per effettuare una ricostruzione.
Il lavoro è bene eseguito, attento, sicuro e delicato. Il solo materiale usato è la riqimite, unita mediante incastri e tenoni come se fosse legno, o posata in blocchi e corsi squisitamente combacianti. In gran parte, le superfici interne sono lavorate fino a divenire lisce come seta, mentre quelle esterne sono levigate o scabre a seconda dell’effetto estetico che si vuole ottenere. Non ci sono sculture o decorazioni; solo qualche sottile modanatura o un filetto inciso che si ripetono e che sottolineano le forme architettoniche.
Le finestre sono reticoli di listelli di pietra incrociati, senza vetri, oppure fogli dì pietra intagliati, talmente sottili da risultare traslucidi. Il motivo rettangolare ripetuto del reticolo è elegantemente proporzionato; in molte stanze e aperture dell’Edificio, anche se non in tutte, si nota un rapporto di tre a due. Le porte sono sottili lastre di pietra così ben equilibrate e incernierate che si aprono e si chiudono con grande leggerezza e precisione. Non c’è arredamento.
Stanze vuote, passaggi vuoti, chilometri di corridoi: scale interminabili, rampe, cortili, terrazzi, torri delicate, viste illimitate di tetti dopo tetti, di torri dopo torri, di cupole dopo cupole fino all’orizzonte; sale illuminate da grandi finestre traforate o solo dalla verdastra, marmorizzata trasparenza dei sottili pannelli di pietra; corridoi che sboccano in altri corridoi, altre stanze, rampe, cortili e nuovi corridoi… È un dedalo, un labirinto? Certo, è inevitabile; ma è lo scopo per cui è stato costruito?
L’edificio è bello? Certo, a modo suo è bellissimo, meraviglioso; ma l’estetica è lo scopo per cui è stato costruito? Gli aq sono una specie razionale. Hanno un linguaggio, e la risposta a queste domande deve venire da loro.
Il lato preoccupante è che hanno molte risposte e che nessuna di esse sembra del tutto soddisfacente, né a loro né ad altri. In questo assomigliano a ogni essere razionale che compie un atto illogico e lo giustifica a posteriori con la ragione.
La guerra, per esempio. La mia specie ha molte ottime ragioni per fare la guerra, anche se nessuna di esse è altrettanto buona quanto le ragioni per non farla.
Le nostre giustificazioni maggiormente razionali e scientifiche — per esempio, quella che siamo una specie aggressiva — sono perfettamente circolari; facciamo la guerra perché facciamo la guerra. E quelle per fare una guerra in particolare (come che la nostra gente deve avere maggiore ricchezza e una maggiore quantità di territorio; o che la nostra gente deve avere più potere; o che la nostra gente deve obbedire a un Dio che ordina di schiacciare i sacrileghi infedeli) si riducono alla stessa cosa. Dobbiamo fare la guerra perché dobbiamo farla, non abbiamo scelta. In ciò non abbiamo libero arbitrio, anche se questa giustificazione non soddisfa la mente ragionevole, che desidera la libertà.
Allo stesso modo, tutti i tentativi degli aq di spiegare o giustificare il loro edificare e il loro Edificio, chiamano in causa necessità che non sembrano poi tanto necessarie e impiegano ragioni che quando fanno il giro completo ritornano allo stesso punto.
«Facciamo il Pellegrinaggio delle Pietre perché l’abbiamo sempre fatto. Andiamo nel Riqim perché la pietra migliore è laggiù. L’edificio è sull’altipiano del Mediro perché il terreno è buono e c’è abbastanza posto. L’Edificio è una grande impresa, su cui i nostri figli potranno contare e i nostri uomini e le nostre donne possono lavorarvi a fianco a fianco. Il Pellegrinaggio delle Pietre porta a unirsi persone di tutti i nostri villaggi. Eravamo solo un povero popolo disperso, nei vecchi tempi, ma adesso l’Edificio mostra quale grande visione ci sia dentro di noi…» Tutte spiegazioni sensate, ma che non convincono del tutto, non soddisfano.
Forse converrebbe rivolgere la domanda a quegli aq che non hanno mai preso parte al pellegrinaggio.
Non che abbiano qualche critica contro il viaggio. Parlano dei pellegrini come di persone che compiono qualcosa di coraggioso, difficile, meritevole e forse anche sacro.
Perciò potete chiedere: «Ma, allora, perché tu non ci sei andato?»
E vi sarà risposto: «Be’, non ne ho mai sentito la necessità; la gente ci va perché deve andarci, sente il richiamo».
E l’altra razza, i daqo? Che pensano di quella immensa struttura, che oggi è senza dubbio la più grande impresa del loro mondo, la sua più grande conquista?
I daqo non ci pensano molto, evidentemente. Anche i marinai delle barche per il trasporto della pietra non salgono mai sul Mediro e non sanno nulla dell’Edificio, a parte che sorge lassù e che è molto grande.
I daqo del continente nordoccidentale lo conoscono solo come una voce, una leggenda, o attraverso le storie dei viaggiatori sul «Palazzo del Mediro» nel Grande Continente Meridionale.
Alcune di queste leggende affermano che il re degli aq abita lassù in inconcepibile splendore; alcuni dicono che è una torre più alta delle montagne, dove vivono mostri senza occhi; altre storie/leggende, che è un labirinto dove l’incauto viaggiatore si perde per corridoi senza fine, pieni di scheletri e di spettri; altri che il vento che lo attraversa geme in lunghi accordi come una vasta arpa eolia, che si può udire a centinaia di chilometri e così via.
Per i daqo è una leggenda, come le narrazioni dei tempi andati in cui i loro possenti antenati volavano nell’aria, prosciugavano i fiumi e trasformavano le foreste in pietra e costruivano torri più alte del cielo e così via. Favole.
Di tanto in tanto, un aq che ha preso parte al Pellegrinaggio delle Pietre dirà qualcosa di diverso sull’Edificio. Se glielo chiedono, alcuni di loro rispondono: «È per i daqo».
In effetti l’edificio è meglio proporzionato per la bassa statura dei daqo che per gli alti aq. I daqo, se mai ci andassero, potrebbero attraversare i corridoi e le porte senza chinarsi. Una vecchia donna di Katas, che aveva preso parte a cinque viaggi, fu la prima a darmi quella risposta.
«L’Edificio è per i daqo?» le chiesi, sorpresa. «Ma perché?»
«Per i vecchi tempi.»
«Ma i daqo non vanno mai lassù.»
«Non è ancora finito», mi rispose lei.
«Un ringraziamento?» le chiesi, perplessa. «Una ricompensa?»
«Ne hanno bisogno», mi spiegò.
«I daqo ne hanno bisogno e voi no?»
«No», mi rispose la donna, con un sorriso. «Noi lo costruiamo. A noi non serve.»