I VOLATORI DI GY

Gli abitanti di Gy hanno un aspetto non molto diverso da quello degli uomini del nostro piano, a parte il fatto che hanno le piume e non il pelo. Il fine velo di piumino sulla testa dei neonati diviene una corta, soffice «capigliatura» di piuma dalle macchie caratteristiche nei piccoli in grado di provvedere a se stessi; nell’adolescenza diventa una completa testa di piume. Molti uomini hanno un colletto di penne dietro il collo, corte piume su tutta la testa e una cresta alta, erettile, nel centro. Il piumaggio della testa dei maschi è castano o nero, a volte con strisce o macchie color bronzo, rosso, verde e azzurro. Le penne delle donne in genere diventano molto lunghe, a volte scendono lungo la schiena fin quasi al pavimento e hanno margini soffici, ondulati e penduli, un po’ come la coda dello struzzo; quanto ai colori delle penne femminili, sono molto vivaci: viola, scarlatto, turchese, oro. Gli uomini e le donne di Gy hanno un corto piumino nella regione del pube e nell’incavo dell’ascella e spesso un finissimo piumaggio copre loro l’intero corpo. Individui come loro, con le piume del corpo vivacemente colorate, sono belli a vedersi quando sono nudi, ma soffrono molto i pidocchi e le zecche.

La muta è un processo continuo e non stagionale. Quando le persone invecchiano, non tutte le penne che sono cadute ricrescono e le macchie di calvizie sono comuni sia tra gli uomini sia tra le donne di più di quarant’anni. Molte persone, perciò, mettono da parte le migliori penne della testa quando le cambiano per farsi all’occorrenza parrucche o false creste; coloro che hanno poche penne o le hanno di colore poco elegante, possono comprare parrucche di piuma in botteghe speciali. A volte si diffonde la moda di schiarire le penne, di arricciarle o di spruzzarle di polvere dorata. In città, nel salone del parrucchiere si schiariscono, tingono, indorano o arricciano le penne dei clienti e si vendono acconciature alla moda del giorno. Le donne povere, con penne della testa particolarmente splendide, molte volte le vendono ai negozi di parrucche e ne traggono un buon guadagno.

Gli abitanti di Gy per scrivere usano le penne. La tradizione vuole che il padre doni le proprie rigide penne del colletto al figlio, quando inizia a imparare a scrivere. Gli innamorati si scambiano penne per scriversi lettere d’amore, una usanza molto tenera, a cui si fa riferimento in una famosa scena del dramma Il malinteso di Inuinui:

Oh, traditrice mia penna,

con cui ha scritto

il suo amore per l’altra!

Suo l’amore…

mia la penna, mio il sangue!

I gy sono un popolo non molto brillante, posato, tradizionale, disinteressato alle innovazioni, riservato davanti agli stranieri. Si oppongono alle invenzioni tecnologiche e alle novità; i tentativi di vendere loro penne a sfera o aeroplani, o di indurli a tuffarsi nel meraviglioso mondo dell’elettronica, sono falliti.

Continuano a scriversi lettere con le loro penne, a calcolare con la loro testa, a camminare a piedi o a viaggiare su carri tirati da grossi animali simili a cani chiamati ugnunu, a imparare qualche parola di un linguaggio straniero quando è assolutamente necessario e ad assistere a classici drammi teatrali scritti nelle metriche tradizionali. E per quante utili e moderne tecnologie, gadget meravigliosi, progredite conoscenze scientifiche degli altri piani — perché Gy è una località turistica molto frequentata — si mostrino loro, nessuna è capace di destare invidia, avidità o senso di inferiorità nel petto dei gy.

Continuano a fare rigorosamente come hanno sempre fatto, non esattamente perché manchi loro l’intelligenza, bensì per una sorta di cortese resistenza, indifferenza e impenetrabilità dietro cui si cela un supremo orgoglio, sempre che non sia qualcosa di completamente diverso.

I turisti più grossolani provenienti dagli altri piani si riferiscono ai gy, naturalmente, chiamandoli uccelli, cervelli d’uccello, teste imbottite di piume e così via. Molti visitatori provenienti dai piani più animati visitano le città piccole e placide, fanno escursioni nella campagna a bordo di calessi a ugnunu, partecipano a balli molto tranquilli ma affascinanti (perché i gy amano danzare) e si godono una serata di teatro vecchio stampo, senza perdere un solo grammo del loro disprezzo verso gli indigeni. «Tutte penne e niente ali» è l’abituale commento per riassumere la situazione.

Questi visitatori pieni di condiscendenza riescono a passare una settimana a Gy senza mai vedere un indigeno alato e senza sapere che quello che hanno scambiato per un uccello o un aeroplano era in realtà una donna che attraversava il cielo in volo.

I gy non parlano dei loro individui alati se non viene chiesto espressamente. Non li nascondono e non mentono su di loro, ma non forniscono informazioni. Sono stata costretta a chiedere spiegazioni con molta insistenza per poter scrivere la seguente descrizione.

Le ali non si sviluppano mai prima della fine dell’adolescenza. Non c’è alcuna indicazione della tendenza a svilupparle fino a quando, improvvisamente, una ragazza di diciotto anni o un ragazzo di diciannove si sveglia con una leggera febbre e un dolore acuto in corrispondenza delle scapole.

Segue un anno o più di grande stress fisico e di dolore, durante il quale il soggetto deve essere tenuto tranquillo, al caldo, e deve essere ben nutrito. Non c’è nulla che possa dargli sollievo, tranne il cibo — i volatori nascenti sono spaventosamente affamati per tutto il tempo — ed essere avvolti o fasciati in coperte, mentre il corpo si ristruttura, si ricostruisce, si riforma. Le ossa si alleggeriscono e diventano porose, l’intera muscolatura della parte superiore cambia; due protuberanze ossee si sviluppano rapidamente dalle scapole e crescono verso l’esterno fino a diventare immensi processi alari. Lo stadio finale è costituito dalla crescita delle penne delle ali e non è doloroso. Le remiganti sono molto grosse rispetto alle altre penne e possono giungere alla lunghezza di un metro. L’apertura alare di un gy maschio è di circa quattro metri, quella di una donna, mezzo metro di meno. Dai polpacci e dalle caviglie spuntano penne molto rigide, che in volo si allargano a ventaglio.

Ogni tentativo di impedire o fermare lo sviluppo delle ali e interferire in qualsiasi modo con esso è inutile e dannoso, se non fatale. Se si impedisce alle ali di svilupparsi, le ossa e i muscoli iniziano a storcersi e a contrarsi, con dolori insopportabili e continui. L’amputazione delle ali o delle penne remiganti, in qualsiasi stadio di sviluppo, porta a una morte lenta, tra sofferenze indicibili.

Tra alcuni popoli più tradizionalisti e arcaici di Gy -le società tribali che vivono lungo le gelide coste delle regioni polari settentrionali e i mandriani delle steppe gelide e spoglie dell’estremo Sud — la vulnerabilità degli individui alati fa parte della religione e del comportamento rituale. Nel Nord, non appena un giovane mostra i segni fatali, maschio o femmina che sia, è imprigionato e consegnato agli anziani della tribù. Con un rito simile a quello del funerale, gli anziani legano grosse pietre alle mani e ai piedi della vittima, poi si recano in processione su un precipizio alto sul mare e spingono la vittima oltre il ciglio, gridando: «Vola! Vola per noi!»

Invece, fra le tribù delle steppe, si permette alle ali di svilupparsi completamente e il giovane viene accudito con attenzione e quasi con venerazione per tutto l’anno della trasformazione. Per esempio, supponiamo che a mostrare i sintomi fatali sia una ragazza. Durante le sue trance febbrili, serve da sciamano e veggente. I sacerdoti ascoltano e interpretano a tutti le sue parole. Quando le ali sono pienamente cresciute, le vengono legate sulla schiena, in modo che non si possano muovere. Poi l’intera tribù si reca con lei sull’altura più vicina, una rupe o un burrone. Il viaggio, talvolta, in quel territorio piatto e desolato, richiede settimane.

Giunti sulle alture, dopo giorni in cui hanno continuato a danzare e a inalare il fumo dei falò di legna di byubyu, i sacerdoti accompagnano la giovane donna, tutti sotto l’effetto della droga, danzando e cantando, fino all’orlo del salto. Laggiù le sciolgono le ali. Lei le solleva per la prima volta e poi, come un giovane falco che lascia il nido, balza incerta dall’orlo del precipizio e si trova in aria, a battere selvaggiamente le ali enormi, fino ad allora mai messe alla prova. Che voli o che cada non fa differenza; tutti gli uomini della tribù, gridando per l’eccitazione, la colpiscono con le frecce o scagliano contro di lei le lance da caccia, appuntite e taglienti come rasoi.

Lei allora cade, trafitta da decine di frecce e lance. Le donne corrono lungo il pendio e, se resta ancora un po’ di vita in lei, gliela spengono a colpi di pietra. Poi buttano sassi sul corpo fino a coprirlo e a formare un tumulo funebre. Ci sono molti di quei tumuli ai piedi di ogni altura a strapiombo, in tutto il paese delle steppe. I tumuli più antichi forniscono pietre per i più recenti.

Questi giovani a volte cercano di sfuggire al loro destino correndo via dalla loro gente, ma la debolezza e la febbre che accompagnano lo sviluppo delle ali li rallentano. Non riescono mai ad arrivare molto lontano.

C’è una storia, nelle Marche Meridionali di Merm, che parla di un uomo alato il quale, balzato dal burrone sacrificale, volò con tale forza da sfuggire alle frecce e alle lance per infine sparire nel cielo. La leggenda termina qui. Il drammaturgo Norwer l’ha usata per una tragedia romantica. Nel suo dramma La trasgressione, il giovane ha fissato un incontro con la sua amata e vola a raggiungerla; ma lei ha involontariamente rivelato l’appuntamento a un altro corteggiatore, il quale si nasconde in attesa dell’arrivo. Quando i due innamorati si abbracciano, il corteggiatore scaglia la lancia e uccide l’uomo alato.

La ragazza impugna il proprio coltello e uccide l’assassino, e infine — dopo un lungo e doloroso scambio di addii con l’uomo alato, il quale non è ancora morto -colpisce se stessa. È melodrammatico, ma assai commovente se è ben recitato. A tutti gli spettatori vengono le lacrime agli occhi quando l’eroe scende dal cielo come un’aquila e quando, morente, avvolge l’amata nelle grandi ali bronzee.

Una messa in scena della Trasgressione è stata presentata qualche anno fa sul mio piano, a Chicago, dall’Actual Reality Theater. Purtroppo — ma temo che la cosa fosse inevitabile — è stata intitolata Il sacrificio degli angeli. Tra i gy non c’è assolutamente alcuna leggenda o mito che parli di qualcosa sia pur lontanamente simile ai nostri angeli. Le immagini sentimentali di piccoli e dolci cherubini con le alucce ancora infantili, di spiriti custodi sempre presenti, o le immagini più grandiose di messaggeri divini, li colpirebbero come un’odiosa caricatura di un destino temuto da ogni genitore e da ogni adolescente: una rara, ma spaventosa deformità, una maledizione, una condanna a morte.

Tra i gy urbani quella paura è leggermente mitigata, in quanto gli alati non sono trattati come capri espiatori sacrificali, ma con tolleranza e anche compassione, come tutte le persone con un grave handicap.

A noi può parere strano. Volare al di sopra di tutti coloro che sono confinati al terreno, competere in velocità con le aquile e veleggiare come i condor, danzare nell’aria, cavalcare il vento, non in una rumorosa scatola di metallo o su qualche trabiccolo di plastica, tela e cinghie, ma servendosi delle proprie grandi, forti, splendide ali tese… come può essere giudicato qualcosa di diverso, e non una gioia, una libertà? Come devono esser insensibili, duri di cuore e sordi alle emozioni, i gy, per credere che i volatori siano degli invalidi!

Ma hanno le loro ragioni. Il fatto è che i gy alati non possono fidarsi delle loro ali.

Nelle ali in sé, nella loro meccanica, non si può trovare alcun difetto. Sono mirabilmente efficienti, una volta che si sia fatta un po’ di pratica, per brevi voli, per lasciarsi portare senza sforzo dalle correnti o per scivolare nell’aria come alianti; inoltre, con l’esercizio, permettono di eseguire picchiate, giri della morte e altre acrobazie aeree.

Quando gli alati sono giunti alla piena maturità — se volano regolarmente — possono arrivare a una grande resistenza. Possono rimanere in volo pressoché indefinitamente. Molti imparano a dormire senza scendere a terra. Ci sono testimonianze di voli lunghi più di tremila chilometri, con solo brevi soste per mangiare. Gran parte di questi voli a lunghissimo raggio sono effettuati da donne, il cui corpo e la cui ossatura più leggeri sono un vantaggio sulle grandi distanze. Gli uomini, con la loro muscolatura più robusta, vincerebbero il primo premio per la velocità, se ce ne fosse uno. Ma i gy, o almeno la loro maggioranza non alata, non sono interessati ai record e ai premi, e tanto meno alle competizioni che comporterebbero un elevato rischio di morte.

Il problema è che le ali dei volatori si bloccano in modo improvviso, totale e disastroso. Gli ingegneri del volo e i ricercatori medici, di Gy e altrove, non sono stati capaci di spiegare perché ciò avvenga. La meccanica delle ali non ha difetti visibili; il blocco deve essere causato da un fattore fisico o psicologico ancor oggi non identificato, un’incompatibilità tra il processo alare e il resto del corpo. Purtroppo, il difetto non si mostra in anticipo, non c’è modo di prevedere il blocco delle ali. Si verifica senza preavviso.

Un volatore che ha continuato a volare per tutta la sua vita adulta senza mai il minimo fastidio, un giorno si leva in volo e, una volta portatosi alla quota richiesta, all’improvviso, con grande sgomento, scopre che le ali non gli obbediscono più. Sussultano, si chiudono, cadono sbattendogli lungo i fianchi, paralizzate.

E il volatore piomba giù dal cielo, come un sasso.

Nella letteratura medica si dice che circa un volo su venti termina con la paralisi alare. I volatori con cui ho parlato sono convinti che la percentuale di incidenti non sia così alta, e citano casi di persone che hanno volato quotidianamente per decenni. Ma non era una questione di cui amassero parlare con me e magari non ne parlano neppure tra di loro. Comunque non sembrano adottare precauzioni o rituali preventivi, lo accettano come un fatto del tutto casuale. L’incidente può capitare nel primo volo come nel millesimo. Non si è scoperta alcuna causa legata all’ereditarietà, all’età, all’inesperienza, all’affaticamento, alla dieta, all’emozione, alla condizione fisica. Ogni volta che un volatore si innalza, il rischio di paralisi alare è lo stesso.

Alcuni sopravvivono alla caduta. Ma non riprendono a volare, perché non ne sono più in grado. Una volta che le ali si sono paralizzate, divengono inutili. Restano immobilizzate e si trascinano dietro il proprietario, un po’ di lato, come un grosso e pesante mantello di penne.

I forestieri chiedono perché i volatori non portino con sé un paracadute in caso di paralisi alare. Certo, potrebbero portarli. È una questione di temperamento. Gli alati che scelgono di volare sono coloro che sono disposti a correre il rischio di un blocco delle ali. Coloro che non vogliono assumersene il rischio, non volano. O, viceversa, forse coloro che lo giudicano un rischio non volano, e coloro che volano non lo considerano un rischio.

L’amputazione delle ali è sempre fatale e la rimozione chirurgica di una qualsiasi loro parte causa dolori acuti, incurabili e invalidanti; perciò i volatori caduti e coloro che hanno scelto di non volare devono trascinare le loro ali per tutta la vita, lungo le strade e su e giù per le scale. La loro struttura ossea è cambiata e non è ben adatta alla vita sulla terra. Si stancano facilmente quando camminano, e vanno spesso soggetti a fratture e strappi muscolari. Pochi alati non-volatori sopravvivono fino a superare i sessant’anni.

Gli altri affrontano la morte ogni volta che prendono il volo. Alcuni di loro, comunque, sono ancora in vita e in grado di volare a ottant’anni.

Il decollo è uno spettacolo meraviglioso. Quegli esseri umani non sono goffi come pensavo, nel ricordare il movimento senza grazia di padroni dell’aria come i pellicani e i cigni quando prendono il volo. Naturalmente è più facile lanciarsi in volo dalla cima di un palo o da qualche altura, ma se non hanno a disposizione una simile comodità a loro basta una corsa di venti, venticinque metri, sufficienti per allargare e battere un paio di volte le grandi ali estese, e poi già al passo successivo i loro piedi non toccano il terreno e sono in aria, in volo, e planano senza più bisogno di agitare le ali e magari fanno un giro sulla testa degli spettatori per sorridere e salutare le facce sollevate verso di loro, prima di volare via come una freccia, al di sopra dei tetti e delle colline.

Quando volano tengono le gambe rigidamente unite, il corpo leggermente inarcato all’indietro e, se occorre, le penne delle gambe aperte a ventaglio come la coda di un falco. Dato che le braccia non hanno un collegamento muscolare integrato con le ali — i gy alati sono creature a sei arti — le mani restano premute contro i fianchi per ridurre la resistenza dell’aria e aumentare la velocità. Durante un volo senza fretta, possono fare tutto quello che si fa con le mani: grattarsi la testa, pelare un frutto, disegnare una vista aerea del panorama, tenere in braccio un neonato. A dire il vero, quest’ultima azione l’ho vista una volta sola e l’ho trovata un po’ preoccupante.

Ho parlato varie volte con un gy alato, chiamato Ardiadia; quelle che seguono sono le sue parole, registrate con il suo permesso durante le nostre conversazioni.


«Oh, certo, quando l’ho scoperto, quando è cominciato a succedere proprio la me, ero a terra. Agghiacciato. Non riuscivo a crederlo! Ero certissimo che non sarebbe mai accaduto a me. Quando eravamo bambini, devi sapere, scherzavamo su qualche conoscente che era un po’ volatile e dicevamo: ‘Un giorno o l’altro prenderà il volo’. Ma io? Che mi spuntassero le ali? Non poteva succedere a me. Così quando mi è venuto mal di testa, mal di denti, e la schiena si è messa a darmi il tormento, ho continuato a dirmi che era una nevralgia, un’infezione, un ascesso… ma quando è cominciato davvero, non mi sono più potuto illudere. È stato terribile. Ma in realtà non ricordo molto. Faceva male. Prima come dei coltelli che mi passavano avanti e indietro sulle spalle, o degli artigli che mi afferravano su e giù per la spina dorsale. Poi li ho sentiti dappertutto, sulle braccia, sulle gambe, sulle dita, sulla faccia… e io ero così debole che non riuscivo a tenermi in piedi. Ho provato a scendere dal letto, ma sono caduto sul pavimento e non riuscivo ad alzarmi. Sono rimasto in terra, e ho chiamato mia madre: ‘Mamma! mamma! Ti supplico, vieni ad aiutarmi!’ Ma lei dormiva. Lavorava fino a tardi, serviva in un ristorante, e non arrivava a casa prima della mezzanotte, in genere molto più tardi, e quando andava a letto dormiva profondamente. Sentivo il pavimento che scottava sotto di me, tanto avevo la febbre alta, e cercavo di spostare la faccia su un punto più fresco…

«Be’, non saprei dire se il dolore sia diminuito col tempo o se io mi ci sono abituato, ma dopo un paio di mesi la cosa era un po’ migliorata. Comunque è stato un periodaccio. E non finiva mai; ed era un’esperienza strana.

«Stare a letto, ma non sulla schiena. Da allora in poi, non puoi più sdraiarti supino, lo sai. Difficile dormire la notte. Quando fa male, fa male soprattutto quando è buio. Sempre un po’ di febbre, sempre con strani pensieri in testa, idee ridicole. E mai capace di seguire fino alla fine un filo di ragionamento, mai capace di soffermarti su un’idea.

«Avevo l’impressione di non essere più in grado di pensare. I pensieri entravano dentro di me e mi attraversavano, e io ero un semplice spettatore. E non potevo fare alcun piano per il futuro, perché qual era adesso il mio futuro?

«Avevo intenzione di diventare un maestro. Mia madre ne era così contenta, mi aveva incoraggiato a rimanere a scuola per un anno in più, in modo da poter fare la domanda per il college degli insegnanti. Per farla breve, ho trascorso il diciannovesimo compleanno a letto, nel mio stanzino del piccolo alloggio di tre stanze, nella strada dei Fabbricanti di Pizzi, sopra la drogheria. Mia madre aveva portato del cibo speciale dal ristorante e una bottiglia di vino di mele, e abbiamo cercato di festeggiare, ma io non potevo bere il vino e lei non riusciva a ingerire il cibo, perché piangeva. Comunque, io potevo mangiare, anzi ero sempre famelico e questo l’aveva fatta un po’ sorridere… povera mamma!

«Alla fine ne sono uscito, un po’ alla volta, e le ali sono cresciute, grosse, brutte e nude, penzolanti, disgustose, tanto per iniziare, e ancora più brutte quando hanno cominciato a mettere le penne, e i pori della pelle sembravano grosse pustole. Ma quando sono spuntate le remiganti e le maestre, e ho iniziato a sentire i muscoli, e sono riuscito a muovere le ali, a scuoterle, sollevarle un poco — non avevo più la febbre, o mi ero abituato ad avere sempre la febbre, non so neppure io — e potevo alzarmi e camminare, e sentivo come adesso era leggero il mio corpo, come se la gravità non riuscisse più a toccarmi, neppure con il peso di quelle grandi ali che mi trascinavo dietro… ma potevo sollevarle, staccarle dal pavimento… Non in quel momento, però. Io ero ancora incollato! a terra. Il mio corpo si sentiva leggero, ma io mi stancavo non appena provavo a camminare, mi sentivo debole e tremavo. Una volta ero molto bravo nel salto, ma ora non riuscivo a staccare tutt’e due i piedi da terra nello stesso momento.

«Stavo meglio, ma la debolezza mi preoccupava, mi sentivo chiuso, in trappola. Poi è venuto a trovarmi un volatore, un uomo che abitava lontano dal centro, il quale aveva udito parlare di me. I volatori adulti si prendono cura dei giovani che sono nel periodo del cambiamento. Era già venuto un paio di volte per rassicurare mia madre e accertarsi che tutto andasse nel migliore dei modi… io gliene ero riconoscente. Quel giorno che venne, mi parlò a lungo e mi mostrò gli esercizi che potevo fare. E io li eseguii, giorno dopo giorno, ininterrottamente. Per ore e ore. Che altro potevo fare?

«Un tempo mi piaceva leggere, ma adesso non riuscivo a concentrare la mia attenzione su quello che leggevo. Mi piaceva andare a teatro, ma ora non potevo farlo, non ero ancora sufficientemente forte. E nei luoghi come i teatri non c’è posto per le persone con le ali sciolte. Occupate troppo posto, siete un disturbo. A scuola ero bravo in matematica, ma adesso non riuscivo più a concentrarmi sui problemi. Mi sembravano privi di importanza. Perciò non avevo altro da fare che ripetere gli esercizi che il volatore mi aveva insegnato. E così facevo.

«Gli esercizi mi aiutarono. In realtà, in casa lo spazio non era sufficiente; non potevo distendere le ali in verticale, ma facevo quello che potevo. Con il tempo mi sentii meglio, mi sentii più forte, e alla fine cominciai ad avvertire le ali come mie. Una parte di me. O io ero una loro parte.

«Poi, un giorno, non riuscii più a sopportare quella sorta di esilio. Da tredici mesi ero chiuso lì dentro, in quelle tre stanzette, quasi sempre nella mia camera. Tredici mesi! Mia madre era al lavoro.

«Scesi al piano terreno. Feci a piedi i primi dieci scalini, poi sollevai le ali. Anche se la scala era troppo stretta, ero in grado di sollevarle un poco. Mi staccai da terra e volai per gli ultimi sei scalini. Be’, più o meno. Colpii con forza il pavimento e mi si piegarono le ginocchia, ma non caddi realmente. Non volavo, tuttavia non fu proprio una caduta.

«Uscii sulla strada. L’aria era meravigliosa. Mi pareva di non respirare a pieni polmoni da un anno. In realtà mi sentivo come se non avessi mai saputo che cosa fosse l’aria in tutta la mia vita. Anche in quella strada piccola e stretta, con le case che la stringevano sui due lati, c’era la brezza, c’era il sole, non un soffitto. Il cielo sopra la mia testa. L’aria.

«Cominciai a camminare. Non avevo nessun progetto. Volevo togliermi dai vicoli, raggiungere uno spazio libero, una grossa piazza o un parco, qualunque cosa che fosse aperta al cielo. Notai che la gente mi fissava, ma la cosa non mi dava fastidio; anch’io avevo fissato le persone con le ali, quando non le avevo. Quel mio sguardo non aveva un significato particolare, solo curiosità: le ali non sono poi così comuni. Mi chiedevo cosa si provasse ad averle, sai. Semplice ignoranza. Perciò non m’importava che la gente mi guardasse, adesso. Ero troppo ansioso di allontanarmi dalle case.

«Avevo le gambe deboli, le ginocchia che si piegavano, ma andavo avanti e a volte, quando la strada non era affollata, allargavo un po’ le ali, le battevo, sentivo l’aria sotto le penne e per qualche momento mi sentivo più leggero sui piedi.

«Infine arrivai al Mercato delle Erbe. IL mercato era chiuso, era sera, i banchi erano stati spinti ai margini: al centro c’era uno spazio vasto, coperto di ciottoli. Mi fermai laggiù sotto il palazzo dell’Annona, e per qualche tempo eseguii i, miei esercizi di alzare e allungare le ali: per la prima volta potevo estenderle completamente in verticale, ed era una sensazione bellissima. Poi cominciai a trotterellare un poco mentre muovevo le ali e i miei piedi si staccarono dal terreno per un momento e a quel punto non potei resistere, non potei evitarlo, iniziai a correre con le ali aperte e le battei, e con un paio di colpi mi trovai in aria! Ma davanti a me s’innalzava il Palazzo dei Pesi e delle Misure. Avevo la sua facciata grigia davanti alla faccia, e dovetti sollevare le braccia per non batterci la testa lasciandomi cadere sul marciapiedi.

«Mi voltai e ora, davanti a me, si stendeva l’intera lunghezza della piazza del mercato, sgombra fino all’altro palazzo. Presi la rincorsa e mi levai in volo.

«Per qualche tempo mi limitai a volare basso nella piazza del mercato, per imparare come virare e come scivolare d’ala, come usare le penne della coda. Viene naturale, senti quello che devi fare, l’aria stessa te lo dice… le persone sotto di me guardavano in alto e correvano via quando m’inclinavo troppo rapidamente, o mi fermavo a mezz’aria… ma per me non aveva importanza.

«Volai per più di un’ora, fino a dopo il tramonto, dopo che la gente se n’era andata. Allora ero in alto, al di sopra dei tetti. Ma i muscoli delle ali cominciavano a stancarsi e avrei fatto meglio a scendere. La discesa fu dura. Voglio dire, fu dura perché non sapevo come scendere. Caddi come un sacco di pietre, barn! Per poco non mi ruppi una caviglia e la pianta dei piedi mi bruciava come il fuoco. Se qualcuno mi avesse visto sarebbe scoppiato a ridere. Ma non m’importava neanche di questo. Era difficile stare sul terreno, odiavo essere confinato a terra. Tornai a casa zoppicando, trascinando dietro di me le ali, che laggiù non mi erano di alcuna utilità. Mi sentivo debole, mi sentivo pesante.

«Mi occorse molto tempo per arrivare a casa e mia madre arrivò poco più tardi. Mi guardò e disse. ‘Sei uscito?’

«E io: ‘Ho volato, mamma’, e lei scoppiò a piangere.

«Mi dispiaceva per lei, ma non potevo dire molto.

«Non mi chiese se volessi continuare a volare. Sapeva che l’avrei fatto. Non capisco le persone che hanno le ali ma non vogliono usarle. Suppongo che siano troppo interessati a fare carriera. O che siano innamorati di qualcuno a terra. Ma sembra… non so. Non riesco a capirlo. Voler rimanere a terra. Scegliere di non volare.

«Le persone senza ali non possono farne a meno, non è colpa loro se sono vincolate a terra. Ma se hai le ali…

«Naturalmente, possono avere paura della paralisi alare. Le ali non ti si paralizzano se non voli. E come potrebbero? Come può fermarsi una cosa che non ha mai lavorato?

«Suppongo che la sicurezza sia importante per certe persone. Hanno una famiglia, o dei doveri, o un lavoro, o qualcosa d’altro. Non saprei dire. Dovresti parlare con uno di loro. Io sono un volatore.»


Ho chiesto ad Ardiadia come si guadagnasse da vivere. Come la maggior parte dei volatori, lavorava part-time per il servizio postale. Soprattutto portava dispacci e lettere dei ministeri, con voli a lunga distanza, anche Oltreoceano. Evidentemente era considerato un dipendente dotato e attendibile. Nel caso di dispacci particolarmente importanti, mi disse, venivano sempre mandati due volatori, nel caso uno fosse colpito da paralisi alare.

Aveva trentadue anni. Gli ho chiesto se era sposato e mi disse che i volatori non si sposano mai; si consideravano, mi disse, superiori. «Relazioni sull’ala», mi spiegò, con un leggero sorriso.

Gli chiesi se quelle relazioni fossero sempre con altri volatori e mi rispose: «Ah, sì, certo», rivelando così involontariamente la sua sorpresa e il suo disgusto all’idea di fare l’amore con un non-volatore. Il suo comportamento era garbato e simpatico, era molto ben disposto, ma non riusciva a nascondere la sua certezza di essere diverso dai senza-ali, staccato da loro, e in realtà non aveva nulla a che fare con loro. Come poteva evitare di guardarci dall’alto in basso?

Io lo interrogai su quei sentimenti di superiorità ed egli cercò di spiegare.

«Quando ho detto che mi pareva di essere le mie ali, sai, intendevo proprio quello. Poter volare fa sembrare poco interessanti tutte le altre cose. Quel che la gente fa ci appare banale. Volare è completo. Ed è sufficiente. Non so se mi puoi capire. È tutto il proprio corpo, tutta la propria personalità che sale su, nell’intero cielo. In una giornata serena, alla luce del sole, con tutto il mondo che si stende sotto di te, lontano lontano… o con un forte vento, in una tempesta… sul mare, è laggiù che preferisco volare. Sul mare, in tempo di tempesta.

«Quando le barche da pesca corrono al riparo, tu l’hai tutto per te, il cielo, pieno di pioggia e di lampi, con le nubi sotto le tue ali. Una volta, al largo di Capo Emer, ho danzato con la tromba marina. Per poter volare, c’è bisogno di tutto quello che hai. Così, se cadi, vai giù tutt’intero. E sul mare, se precipiti, chi lo viene a sapere, chi assiste? Non voglio finire seppellito nella terra.»

L’idea lo fece rabbrividire un poco. Vidi il fremito nelle lunghe, pesanti penne delle ali color nero e bronzo.

Gli chiesi se le «relazioni sull’ala» portassero a volte alla nascita di figli, e lui mi rispose con indifferenza che ne nascevano, naturalmente.

Io insistetti sull’argomento, lui mi spiegò che un figlio era una grande seccatura per una madre volatrice e che di conseguenza, non appena svezzato, lo lasciavano «atterrato» — per usare le sue parole — per essere allevato da parenti. A volte la madre alata si affezionava a tal punto al bambino da rimanere atterrata anche lei per prendersene cura, ma lo disse con un leggero disprezzo.

La probabilità che i figli dei volatori sviluppino le ali è esattamente uguale a quella di ogni altro giovane; il fenomeno non ha una base genetica, ma è una patologia dello sviluppo condivisa da tutti i gy, che compare in meno di un individuo su mille.

Penso che Ardiadia non accetterebbe il termine patologia.

Ho anche parlato con un gy alato non-volatore, che mi ha lasciato prendere nota della conversazione, ma mi ha chiesto di non usare il suo nome. Appartiene a una rispettabile ditta di avvocati di una piccola città del Gy centrale.

Mi disse: «Non ho, mai volato, no. Avevo vent’anni quando mi sono sentito male. Pensavo di avere ormai superato l’età e di essere al sicuro. È stato un colpo terribile. I miei genitori avevano già fatto un mucchio di sacrifici e speso un mucchio di soldi per mandarmi all’università. E laggiù mi trovavo bene. Mi piaceva lo studio. Ero intelligente. Perdere un anno era già abbastanza brutto. Non intendevo lasciare che quella faccenda mi portasse via l’intera vita. Per me le ali sono semplici escrescenze. Impacci. Ingombri. Un impaccio che ti impedisce di camminare, di ballare, di sedere in modo civile su una sedia normale, di metterti un vestito decente.

«Mi sono rifiutato di permettere che una simile assurdità si intromettesse nella mia istruzione, nella mia vita. I volatori sono stupidi, il loro cervello se ne va tutto in penne. Non intendevo rinunciare alla mia intelligenza per il piacere di svolazzare sopra i tetti. Mi interessa maggiormente quello che succede sotto i tetti. Dello scenario non mi curo. Preferisco la gente. E volevo condurre una vita normale.

«Volevo sposarmi, avere dei figli. Mio padre era un uomo buono; è morto quando avevo sedici anni e io ho sempre pensato che se fossi potuto essere buono con i miei figli come lui lo è stato con me, sarebbe stato un modo per ringraziarlo, per rendere onore alla sua memoria.

«Ho avuto la fortuna di incontrare una donna meravigliosa che si è rifiutata di lasciarsi impressionare dal mio handicap. Anzi, non vuole che lo definisca così. Dice che questa faccenda» — e indicò le ali, con un cenno della testa — «è la prima cosa che ha notato di me. Dice che quando ci siamo conosciuti si era fatta l’idea che fossi solo un noioso e pedante giovanotto in carriera, finché non le ho mostrato la schiena».

Aveva le penne della testa nere con la cresta azzurra. Le sue ali, anche se appiattite, legate e infilate dentro la cintura, come si fa sempre con le ali dei non-volatori, in modo che non siano d’impaccio e che si notino il meno possibile, avevano uno splendido piumaggio con disegni blu scuro e azzurro pavone, e strisce verticali e bordi neri.

«Comunque ero deciso a tenere i piedi a terra, in ogni senso. Se mai mi fosse venuta qualche idea infantile di volare per un breve tempo — idea che in realtà non mi è mai venuta, una volta terminata la febbre e il delirio e fatta pace con l’intero doloroso, dispendioso processo… — se mai avevo pensato di volare, una volta sposato, una volta che abbiamo avuto un figlio, niente, ma proprio niente può indurmi a desiderare anche solo un assaggio di quella vita. Non ci penso neanche per un momento. L’assoluta mancanza di responsabilità, l’arroganza dei volatori, mi disgustano.»

Parlammo per qualche tempo della sua attività di avvocato, che era ammirevole, dedicata alla tutela dei poveri contro gli imbroglioni e i profittatori. Mi mostrò un incantevole ritratto dei suoi due figli, di undici e di nove anni, da lui disegnato con una delle sue penne. Il rischio che uno dei figli mettesse le ali era, come per qualsiasi altro gy, uno su mille.

Poco prima di andarmene, gli chiesi: «Non sogni mai di volare?»

Da buon avvocato, fu lento a rispondermi. Distolse lo sguardo, guardò fuori dalla finestra. «Non lo sognano tutti?» mi rispose infine.

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