Ho saputo recentemente che c’è un piano ad accesso limitato. È stato uno shock. Avevo dato per scontato che una volta appreso il metodo di Sita Dulip si potesse andare da ciascun aeroporto a ciascun altro piano e che le possibilità fossero essenzialmente infinite.
I frequenti aggiornamenti dell’Enciclopedia planaria sono la prova che il numero dei piani conosciuti continua ad aumentare. E avevo ritenuto che tutti fossero accessibili (nelle condizioni giuste) da tutti gli altri, finché mia cugina Sulie non mi ha parlato del Piano dei Giorni di Festa (Marchio Registrato).
Quel piano si può raggiungere solo da determinati aeroporti, tutti situati negli Stati Uniti e in maggioranza nel Texas. A Dallas e Houston ci sono salette del Club Piano dei Giorni di Festa, riservate ai gruppi di turisti con quella particolare destinazione. Come si ottenga in quelle salette lo stato di tensione e indigestione occorrente per il viaggio, preferisco ignorarlo.
E non ho alcun desiderio di visitare quel piano; ma mia cugina Sulie si reca laggiù da vari anni.
Vi si stava recando quando è passata da me e, per rispondere a una mia domanda, al suo ritorno mi ha gentilmente portato un’intera borsa di carta piena di volantini, dépliant e altro materiale pubblicitario, che ho utilizzato per questa descrizione. C’è anche un sito sulla rete, ma pare che il suo indirizzo cambi senza preavviso.
La storia del luogo può essere soltanto frutto di illazioni. A giudicare dalle date del materiale pubblicitario, non ha più di una decina di anni.
Posso immaginare la scena della sua origine: un gruppo di uomini d’affari costretto ad aspettare in un aeroporto del Texas, comincia a chiacchierare nel bar dove hanno accesso i viaggiatori delle classi prima e business, ma non gli altri. Uno degli uomini d’affari suggerisce di provare il metodo di Sita Dulip.
Per inesperienza o per sfida finiscono per trovarsi non su uno dei pianeti abitualmente frequentati dai turisti, ma su uno che non è neppure elencato nel manuale di Rornan. E lo trovano, a loro giudizio, vergine: inesplorato, sottosviluppato, un piano del Terzo Mondo che aspetta solo la magia dell’imprenditore, il tocco magico dello sfruttamento.
Immagino che la popolazione indigena fosse sparsa su molte piccole isole e che fosse molto povera, o fatalmente ospitale, o tutt’e due le cose. Evidentemente erano pronti e disponibili, per un’innocente speranza di guadagno o per amore della novità, ad adottare un nuovo stile di vita. In ogni caso, pronti o non pronti, impararono a fare quello che gli veniva detto e a comportarsi nel modo che gli veniva insegnato dalla Compagnia Grande Gioia.
«Grande Gioia» sembra un’espressione cinese, ma tutto il materiale pubblicitario che la cugina Sulie mi ha portato è stampato negli Stati Uniti.
La Compagnia Grande Gioia è proprietaria del nome del piano, che è un marchio registrato, e pubblica il materiale informativo. Di più non so, su Grande Gioia. Non ho cercato di svolgere indagini. Sarebbe stato inutile. Non esistono informazioni sulle compagnie, ma solo disinformazioni.
Anche dopo il loro collasso, quando crollano su se stesse e lasciano solo una butterata distesa di rovine che puzzano di azionisti scottati e che sono circondate da un’impenetrabile barriera di membri del parlamento e altri funzionari dello stato, i quali si tengono per mano e si circondano di strisce di plastica con la scritta PROPRIETÀ PRIVATA, TENERSI ALLA LARGA, DIVIETO DI ACCESSO, DIVIETO DI CACCIA, DIVIETO DI PESCA… neanche allora vi si può trovare una verità, quale che sia.
Nella misura in cui ci si può fidare del materiale pubblicitario, il mondo di Grande Gioia è soprattutto un oceano tiepido e poco profondo, punteggiato di piccole isole. Hanno un aspetto più piatto delle nostre isole vulcaniche del Pacifico, sembrano grossi affioramenti di sabbia. Il clima è descritto come temperato e gradevole. Ci devono essere — o devono esserci state — piante e animali indigeni, ma nelle pubblicità non se ne parla. Gli unici alberi visibili nelle fotografie sono abeti e palme da cocco in enormi vasi. Non si parla neanche della popolazione locale, a meno che non si considerino gli accenni agli «amichevoli, pittoreschi indigeni».
L’isola più grande, o in ogni caso quella che ha il materiale pubblicitario più sofisticato, è l’Isola del Natale. È laggiù che si reca la cugina Sulie ogni volta che le è possibile. Dato che abita nella rurale South Carolina e ha una figlia a San Diego e un figlio a Minneapolis, ne ha spesso la possibilità, a patto che si assicuri di cambiare aeroplano — e piano — nei posti giusti, ovvero i principali aeroporti del Texas, quello di Denver o quello di Salt Lake City.
Il figlio e la figlia si aspettano sempre una sua prima visita in agosto, perché è il mese in cui le piace fare gli acquisti natalizi, e una seconda visita, di solito, all’inizio di dicembre, quando viene presa dal panico al pensiero delle cose che in agosto s’è scordata di comprare.
«Per entrare nel giusto spirito mi basta pensare all’Isola del Natale!» mi ha detto. «Oh, è un posto così felice! E i prezzi sono bassi come al discount, ma c’è molta più scelta.»
Anche se il clima è descritto come temperato e soleggiato, tutte le vetrine dei negozi di Noël City, Yuleville e O Little Town hanno il ghiaccio sul cristallo della vetrina, uno strato di neve eterna sul davanzale e ghirlande di aghi di pino e rametti di agrifoglio sulla porta. Da decine di campanili e pinnacoli rintoccano le campane.
La cugina Sulie mi ha spiegato che non ci sono chiese sotto quei campanili, solo spazi commerciali, ma i campanili sono pittoreschi. Tutte le aree commerciali e le strade affollate sono piene del suono di canti natalizi che aleggia all’infinito sulla testa degli acquirenti e degli indigeni. Questi ultimi, nelle fotografie, indossano costumi approssimativamente vittoriani, gli uomini il frac e il cappello a cilindro, le donne la crinolina. I bambini giocano col cerchio, le bambine con le bambole di pezza. Gli indigeni riempiono tutte le strade e si aggirano allegramente da una zona all’altra, assicurandosi che non ci siano isolati vuoti o piazze non affollate. Portano in giro i turisti su carrozze a cavalli e piccole corriere, vendono mazzetti di vischio e spazzano gli incroci.
La cugina Sulie ha aggiunto che si rivolgono a lei in modo molto carino. Le ho chiesto cosa dicono; le augurano: «Buon Natale!», «Buona sera a lei!», oppure: «Gahbressa sebberzvun!» Non era certa del significato di quest’ultima frase, ma quando l’ha ripetuta come l’aveva sentita, penso di averla riconosciuta.
Sull’isola è vigilia di Natale per tutto l’anno e tutti i negozi e i grandi magazzini di Noël City e di Yuleville, in numero di 220, secondo la pubblicità, sono aperti 24 ore al giorno, sette giorni la settimana, 365 giorni l’anno.
«Quei negozietti pidocchiosi del tipo ‘è sempre Natale’ che abbiamo noi non sono nulla, al confronto», mi ha spiegato Sulie. «Devo proprio dirtelo. Pensa, c’è un negozio a Noël City che è tutto sacchetti! Sai, borse di carta colorate, o di alluminio e di cellophane per i regali. Quando non hai avuto il tempo di fare il pacchetto, o per quelli che non hanno una forma regolare, li infili in un bel sacchetto, avvolti nella carta velina colorata, quella con le increspature; più bello non sapresti farlo, e il prossimo anno si può recuperare la busta, se la pieghi bene.»
Quando ha fatto la sua spesa ed è passata dal Cantuccio degli Angeli, una sorta di piccola cappella dove servono il tè, posta all’interno della Locanda del Piccolo Tamburino dove lei si ferma di solito — c’è l’Adeste Fideles, mi ha detto, che è ancora più bella, ma costerebbe troppo — Sulie si è però concessa il regalo di un viaggio a O Little Town. È «il posto che più le piace al mondo», mi ha spiegato.
Se ha tempo ci va su uno slittino a un solo cavallo, lungo la Via degli Alberi di Natale, una strada che corre in mezzo a due file di abeti con decorazioni natalizie, coperta di neve artificiale perché quella naturale non è disponibile.
La cugina Sulie è stata piuttosto vaga sul paesaggio al di là di quegli abeti.
«Be’, c’è sabbia, un po’ come dove crescono i pini», mi ha riferito. «Solo che non ci sono i pini. Ma dovresti sentire come tintinnano i campanellini della slitta! E sai che il cavallo ha sempre la coda corta? Proprio come nella canzone Jingle Bells!»
Se invece ha poco tempo, va da Noël City a O Little Town con il Xmas Xpress, un tramjet. A O Little Town ci si muove a piedi e tutt’al più, se non si può camminare o non se ne ha voglia, si può prendere uno dei Trenini di Santa Claus, dove il manovratore è un elfo; i trenini sono costituiti da una piattaforma aperta e circolano costantemente tra i vari punti di interesse.
«Impossibile perdersi», ha affermato la cugina Sulie. «E, sai, sono così sicuri. Pensa alla differenza rispetto a tutte quelle brutte cose che succedono in Terrasanta. Sentirsi al sicuro fa proprio una grande differenza.»
Ci sono anche le chiese, oltre ai campanili, a O Little Town; sono le copie di edifici famosi di Gerusalemme, Roma, Guadalupe, Atlanta e Salt Lake City.
Abitanti vestiti in quelli che mia cugina ha chiamato «una sorta di vestiti da Bibbia», gestiscono bancarelle in un animato mercato all’aperto; vendono bastoncini di torrone alla menta, rotoli di liquirizia gommosa, giocattoli, oggetti d’artigianato e souvenir; i bambini giocano sulla soglia di piccole case di campagna e di tanto in tanto arriva un pastore che attraversa la strada con il suo piccolo gregge di pecore.
A breve distanza dal villaggio c’è quello che i depliant descrivono, in tono vibrante e reverenziale, come il punto culminante di ogni visita, il Presepe.
Alla cugina Sulie sono venute le lacrime agli occhi quando me ne ha parlato. «Si ha l’impressione di essere all’aperto, perché tutto è contenuto sotto un grande tendone. Come il circo, ricordi? Però assomiglia più a un… come si chiama, un planetarium. Con il cielo nero della notte e sopra di te le stelle. Anche quando fuori è giorno e c’è il sole, là dentro è notte e ci sono le stelle. E la Stella, la Stella di Natale! Brilla proprio sopra quella piccola, umile, povera mangiatoia. Ah, da mettere vergogna alla nostra recita sul prato, quella della Prima Chiesa Battista. Sono venuta a dirtelo. È così bello. E gli animali! Non solo una pecora o due, ma greggi intere, e mucche, e asini, e cammelli, e sono veri. Anche la gente è vera! Viva!
«E quel bambino, adorabile! Oh, lo so che devono essere soltanto attori e che lo fanno per lavoro, ma sento che sono benedetti da quello che fanno, anche se non ne sanno nulla. Una volta ho parlato con uno dei personaggi, l’ho riconosciuto nel cortile di una di quelle piccole e graziose casette del villaggio. Gli avevo visto fare Giuseppe più di una volta, un uomo distinto, sui cinquanta, una bella faccia, e ti dico che Giuseppe, chissà perché, non è brutto come tutti gli altri. I tre Re Magi, per esempio… con quelli, neanche da morta! E la piccola Maria Vergine è persino troppo angelica per questo mondo. Ma Giuseppe sembra più alla mano. Così l’ho salutato, e lui ha sorriso e ha agitato le mani come fanno quegli stranieri e ha detto: Merra-Krissma! come dicono loro. Sono così carini, tutti. Ti fanno davvero capire lo spirito natalizio.»
Sulie ha aggiunto di provare un grande dolore per il fatto che i bambini malati non possano raggiungere l’Isola del Natale.
«Quei poveri piccoli che non riescono ad aspettare tutti quei mesi fino all’arrivo di Babbo Natale… potessero vedere l’arrivo di Santa Claus a Yuleville! C’è tutte le sere alle nove e lo ripetono alle undici. Senti il rumore degli zoccoli e sono le renne che arrivano, sul tetto della Casa Modello. Puoi assistere dalla piazza o anche dalla tv a circuito chiuso. Babbo Natale scende dalla slitta e salta giù nel camino, come uno di quei pupazzi a molla che balzano fuori quando apri la scatola, ma al contrario… non ti piacerebbe vederlo? E il muso della renna che brilla come una luce di posizione! Ma pare che non ci sia modo di portarci i bambini senza dargli troppo disturbo. Anche se la compagnia ha perfezionato scientificamente il passaggio per gli adulti.
«Sai, io non me la sentirei di andare in uno di tutti quegli altri piani. Dio solo sa dove potrei finire! L’Isola del Natale è una destinazione garantita. Ma è un vero peccato, non puoi prendere un povero bambino malato e portarlo a soffrire e a preoccuparsi in un aeroporto affollato, anche se sarebbe un bel divertimento per lui.» Qui Sulie, che ha il cuore tenero, ha sospirato. «Io non me lo merito», ha continuato. «A volte, sai, mi dico che non tornerò laggiù. Non dovrei farlo. Sono troppo avida. Dovrei aspettare che sia il Natale ad arrivare a me. Ma è così lungo, il periodo tra un dicembre e il successivo…»
Ci sono altre isole dei Giorni di Festa, nel piano della Compagnia Grande Gioia. La cugina Sulie ha visitato solo l’Isola di Pasqua. Non le è piaciuta granché, forse perché quando c’è andata aveva il raffreddore ed era preoccupata per il suo viaggio da Denver a Seattle.
Aveva, un po’ rischiosamente, cambiato piano mentre era già a bordo del suo aereo, fermo sulla pista mentre gli toglievano il ghiaccio dalle ali per la terza volta, durante una tempesta di neve. «Non era il momento adatto per viaggiare», ha confessato.
Il dépliant mostra una duna sabbiosa, con in cima una fila dei familiari monoliti della nostra Isola di Pasqua, quella dei Mari del Sud. Mia cugina pare essersele perse, o non averle guardate.
«Probabilmente cercavo qualcosa di un po’ più sacro», mi ha detto. «Mi è piaciuta l’esposizione delle uova dell’imperatore russo. I rubini, l’oro e il resto. Erano graziose. Ma c’è da chiedersi perché gli imperatori avessero bisogno di tante uova. E le tenevano tutte in piedi, ho letto da qualche parte. Mi pare strano. Si vede che erano comunisti. Ma quei conigli! Santo Cielo! Conigli dappertutto. Anche sotto i piedi. Non mi sono mai piaciuti i conigli, da quando James ha cercato di allevarli per venderli al mercato delle carni, giù ad Augusta.
«L’aveva convinto Fred Inglesy, ma non c’era mercato per quella carne, e poi James ha avuto il tumore, i conigli si sono presi la malattia dei conigli e in una settimana sono morti tutti, morti come mosche, dal primo all’ultimo, e io non avevo il modo di liberarmi di quella massa disgustosa, allora ho dato fuoco a quelle gabbie e le ho bruciate tutte. Oh, mio Dio. Allora non mi piace pensarci. Ci sono un mucchio di pulcini che pigolano da tutte le parti, sono così carini. E i cestini che vendono al Mercato della Lepre Marzolina sono splendidi, ma non potevo spendere molto. E poi faceva caldo! Io continuavo a pensare alla tormenta di Denver. Non ero dell’umore giusto, suppongo. Troppi conigli e troppe uova.»
A giudicare dalle brochure promozionali, Natale, Pasqua e Quattro di Luglio sono le isole più grandi, maggiormente attrezzate e più popolari.
Il dépliant per Hollo-Een!, piuttosto modesto, parla sempre di divertimento per l’intera famiglia ed è chiaramente indirizzato ai genitori bloccati nell’aeroporto con i figli.
A giudicare dalle fotografie, l’Isola di Hollo-Een! è piena di cocomeri, non so se si tratti di oneste cucurbitacee oppure di plastica. C’è un luna park con l’ottovolante, il castello stregato, il tunnel degli orrori ecc. Gli indigeni che vendono i biglietti, servono ai tavoli, puliscono le stanze e così via, sono travestiti da streghe, spettri, mostri spaziali e Ronald Reagan.
C’è il Dolcetto o Scherzetto Tutte le Sere! Sicuro! Controllato! (Tutti i dolci sono garantiti, sicuri e privi di additivi nocivi.) Mentre i bambini vengono accompagnati da una casa all’altra di Spettroville, i genitori possono guardare uno dei «Cento film dell’orrore» sulla tv a schermo gigante della loro camera, presso gli alberghi Casa degli Addams o Castello di Frankenstein.
Mi è parso di cogliere un tono leggermente rigido nella voce della cugina Sulie, quando lei mi ha passato il dépliant. Il testo contiene un eccessivo numero di affermazioni blande, ma volutamente — e insistentemente — rassicuranti, di pastori delle varie chiese cristiane. Ciascuno descrive Hollo-Een! come un divertimento pulito, sicuro e salutare per l’intera famiglia. Assolutamente nulla di dannoso o che possa turbare. Ma sono certa che il naso sensibile dei veri credenti sente odor di zolfo in quel depliant e che i loro occhi acuti discernono, su quelle sabbie aliene, l’impronta dello zoccolo caprino.
Il materiale pubblicitario dell’Isola Quattro di Luglio è assai più abbondante e non ha alcun tono difensivo. Dalla Ricostruzione Permanente Vivente dell’Alzabandiera di Iwo Jima, alle Quattro Ore di Spettacolo Pirotecnico Ogni Notte, dalla Tavola Calda Uniti Resisteremo, passando per la Avenue dei Presidenti, con le sue due file di statue, fino alla Cappella di Preghiera Indivisibili in Nome di Dio, tutto è su scala grandiosa, e ogni cosa è rossa, bianca, azzurra, a strisce e a stelle.
La Compagnia Grande Gioia si aspetta evidentemente di accogliere un gran numero di turisti patriottici. Alle esposizioni interattive del Museo dei Nostri Eroi, alla Mostra dei Cannoni, ai Giardini della Vittoria Americana (salvia, lobelia, iberide) è dedicato grande spazio nel sito della rete, dove si può recitare in qualsiasi momento il Giuramento di Fedeltà, interattivamente, con un coro di cinquemila scolari virtuali.
Sull’Isola del Quattro di Luglio le sistemazioni vanno dalla Locanda Campagnola di George Washington (due stelle) al Grand Hotel di Lusso e Appartamenti George W. Bush (sei stelle). (Inutilmente speravo di trovare un motel da poco prezzo con tariffa oraria chiamato L’Ultima Risorsa della Canaglia, naturalmente «in armi».)
Al confronto dei grattacieli che dominano sulla sabbia bianca e le spiagge, il mare azzurro, gli ombrelloni rossi, i viali imponenti e i panorami marmorei dell’Isola del Quattro di Luglio, l’Isola di San Valentino sembra molto domestica e all’antica. L’isola è a forma di cuore, naturalmente, e anche la Città del Vero Amore ha quella forma. Gran quantità di rosa e di bianco, gran quantità di pizzetti, gran quantità di appartamenti per la luna di miele, per la seconda luna di miele e per l’eterna luna di miele, all’hotel Scatola di Cioccolatini.
Si possono noleggiare biciclette per due. Ci si può far fotografare con bambini indigeni sorridenti, vestiti (o svestiti) da Cupido, che puntano frecce di carta contro coppie sorridenti, dentro una cornice di rose artificiali.
«Be’, suppongo che se si è nella giusta disposizione di spirito, con la giusta compagnia, possa anche piacere», ha commentato la cugina Sulie, voltando con aria un po’ sdegnosa i fogli.
Il dépliant dell’Isola del Nuovo Anno dice: «Tutte le installazioni sono nuove». In realtà le installazioni paiono limitarsi a una: un enorme hotel. Ha quattordici sale per i banchetti, sei grandi sale da ballo e un campo da golf sul tetto. La sola immagine scattata all’esterno è quella di un grande cortile aperto, illuminato da lanterne cinesi.
L’Isola del Nuovo Anno è evidentemente intesa per visite brevi — poche ore o una sola notte — di viaggiatori che non hanno molto tempo da perdere e vogliono sfruttarlo per un party, perché, tolto il campo da golf l’unico divertimento offerto è «Il Party della Vostra Vita!».
In realtà c’è un’ampia scelta di party uno in una sala da ballo dorata, con palloncini e valzer e l’orchestra; uno in una «Mansarda del Greenwich Village, all’epoca del Charleston», con jazz e gin di contrabbando; un altro al «Bar dei Cin-Cin», uno al «Love-In degli Hippie Anni ’60». E così via.
Il costume adatto, dall’abito da sera allo smoking, al parruccone rosso e fino al naso finto dei clown, si può noleggiare. Studiando le facce nelle fotografie, scattate durante i ricevimenti, mi parve che si potesse anche noleggiare un’opportuna compagnia per la sera. Tra i danzatori, ai tavoli del buffet, a far tintinnare i bicchieri di champagne, ci sono un mucchio di donne giovani e graziose e di uomini eleganti sui quarant’anni. Sono tutti snelli, bruni e sorridenti. Non hanno l’aria dei turisti. I turisti invece sì.
Dal materiale pubblicitario si ricava l’impressione che una visita al piano della Compagnia Grande Gioia possa essere assai costosa, anche se non si fa menzione di prezzi. Se telefonate al numero che inizia per 800 o cercate di scoprirlo sulla rete, si limitano ad assicurarvi che il trasporto fino al piano è «assolutamente gratuito» e vi suggeriscono allegramente che senza dubbio vorrete portare con voi una «carta di credito valida». La cugina Sulie mi ha detto che: «È molto meglio di quel posto in Florida, quello col nome ridicolo, quello su cui Sally Ann ha tanto insistito per portarci in visita. Cara, quelli sì che ti spellano!»
Sull’Isola dell’Anno Nuovo, poco prima della mezzanotte (che penso cada ogni dodici ore, se non ogni sei), chiunque sia ancora in grado di tenersi in piedi si reca nel grande cortile, dove un maxischermo tv alto tre piani mostra la palla che allo scoccare della mezzanotte cade in Times Square. Tutti si tengono per mano e brindano a base di champagne, con prevedibile difficoltà, e cantano Auld Long Syne. Ci sono fuochi d’artificio e champagne e la festa va avanti. E avanti. E avanti. Mi chiedo quando puliscano le sale dei party. Forse hanno sale doppie, una che viene usata e l’altra che viene pulita. O forse nessuno se ne accorge. Mi chiedo come facciano a riportare in tempo gli ubriachi ai loro aeroporti d’origine; se non ci riescono, si possono denunciare? Non che serva a qualcosa sporgere denuncia contro una compagnia. Mi chiedo che cosa forniscano da fumare alla gente del party e del love-in degli hippie e cosa facciano bere al party del punk underground, e come facciano a riportare quelli al luogo di partenza.
In ogni caso, se è sempre la vigilia del Primo dell’Anno non è mai Capodanno: non occorre fare buoni propositi per l’anno a venire. Non c’è neppure bisogno di rimandare a casa i festaioli, se sono disposti a continuare la festa finché non riprende di nuovo il conto alla rovescia. E la palla di Times Square cade di nuovo e ricomincia lo spettacolo pirotecnico e tutti cantano di nuovo Auld Lang Syne e brindano con altro champagne. Al di là di questo, la mia immaginazione si rifiuta di andare. Non mi fornisce ulteriori possibilità riguardanti la vita sull’Isola dell’Anno Nuovo. Mi dice che non ce ne sono altre.
Io e la cugina Sulie non vediamo tutto alla stessa maniera, ma in questo caso ci siamo trovate d’accordo.
«Non andrei mai in quell’isola dei ricevimenti», mi ha detto. «Ho sempre odiato la vigilia di Capodanno.»
Una componente dell’intrattenimento del grande cortile è una parata del drago, come quella del capodanno cinese di San Francisco. Gli indigeni della fotografia sembrano molto più convincenti come americani di origine cinese che come cupidi, elfi o soldati di Washington che attraversavano il Delaware. Mi sono chiesta se non ci fosse qualche isola, per così dire, non americana nel piano della Compagnia Grande Gioia. Sulie è stata piuttosto vaga sull’argomento. «C’è un mucchio di isole. Alcune potrebbero essere straniere.»
Con questa e altre domande nella mente, telefonai alla mia amica Sita Dulip. Con sorpresa, scoprii che non aveva mai sentito parlare di quel piano. Le dissi quanto sapevo e le mandai la documentazione in mio possesso.
Dopo una settimana o due, fu lei a chiamarmi. Aveva cercato di mettersi in contatto con la Compagnia Grande Gioia e aveva incontrato le note difficoltà a trovar qualcosa di più che la segreteria automatica del numero telefonico che inizia per 800. Ma Sita è capace e insistente e alla fine, con le buone maniere, riuscì ad arrivare a qualcuno delle Relazioni col Pubblico e a farsi mandare dépliant e volantini, più o meno come quelli che Sulie aveva raccolto per me, oltre a un promemoria relativo ai nuovi progetti. Quest’ultimo veniva dal settore Ricerca e Sviluppo e a quanto pareva era sotto esame da parte degli alti papaveri della compagnia.
Nella lista comparivano:
ISLA CINCO DE MAYO (un progetto già pienamente sviluppato che evidentemente stava per passare alla fase attuativa).
OGNI SERA LA FESTA DELLE ERBE AMARE! (l’assenza di particolari sul progetto indica che è stato archiviato).
KWANZAA! ISOLA AFRICANA (con una traccia di possibili installazioni e di «intrattenimenti con partecipazione», e alcuni commenti dei livelli superiori, come: «Procedere
ÊT ININTERROTTO (nessun particolare).
HOLI HOLI HOLI (un lungo, entusiastico appunto, che descrive tutte le possibilità dell’acqua colorata e delle polveri colorate e della danza indiana classica, firmato R. Chandranathan, che però non sembrava avere ottenuto l’appoggio dei livelli superiori).
Nel frattempo, Sita ha continuato a fare indagini sulla Compagnia Grande Gioia e il suo piano.
Arrivata a questo punto, decisi di mettere questi appunti nel cassetto, finché non avessi ricevuto altre notizie da Sita. Passò quasi un anno prima che mi telefonasse per aggiornarmi.
Poco dopo aver parlato con me, Sita aveva deciso di informare l’Agenzia Interplanaria dell’attività della Compagnia Grande Gioia sul «Piano dei Giorni di Festa (Marchio Registrato)», che risultò essere già noto da secoli all’Agenzia. Il piano era descritto ed elencato, nel suo stato originario, come Musu Sum sull’Enciclopedia planaria.
L’Agenzia, come si può immaginare, è più che impegnata nel suo compito di registrare e studiare i piani di recente scoperta, installare e ispezionare i punti di trasferimento, gli alberghi e i servizi per i turisti, nel regolare i rapporti tra i piani e mille altre responsabilità. Ma quando aveva saputo che un piano era stato chiuso al libero ingresso e uscita, e veniva gestito come una sorta di campo di prigionia dei suoi abitanti per il profitto di coloro che lo gestivano, passò subito all’azione, e in modo risolutivo.
Non so come l’Agenzia eserciti la propria autorità, e neppure quale ne sia la base, o quali strumenti di convinzione possegga, ma la Compagnia Grande Gioia non esiste più. La sua esistenza è terminata misteriosamente come è iniziata, senza una storia, senza una faccia, senza un foglio di bilancio.
Sita mi ha mandato i nuovi depliant di Musu Sum. Gli stabilimenti dell’isola sono adesso gestiti dagli abitanti stessi, in cooperativa, sotto la supervisione — ma solo per il primo anno — di personale esperto proveniente dall’Agenzia.
La soluzione è ragionevole, in quanto la modesta economia di sopravvivenza della regione è stata completamente distrutta dalla Compagnia Grande Gioia e non può essere ripristinata dal giorno alla notte, mentre invece gli hotel, i ristoranti e le montagne russe sono ancora tutti lì e la gente a cui è stato insegnato a servire e intrattenere i turisti può mettere a frutto ciò che ha imparato. Però, la cosa desta qualche perplessità, specialmente per ciò che riguarda l’isola del Quattro di Luglio. Un monumento orgiastico al nazionalismo americano sentimentale, completamente gestito da persone che non sanno nulla degli Stati Uniti, a parte il fatto di essere stati spietatamente sfruttati per anni da alcuni americani? Be’, suppongo che non sia del tutto improbabile neppure su quel piano. Lo sfruttamento è una lama a doppio taglio.
Ho conosciuto un indigeno di Musu Sum, uno dei primi ad approfittare della libertà di viaggiare, recentemente riconquistata dal suo popolo; Sita gli ha chiesto di venire a trovarmi. Mi ha ringraziato con grande cortesia per la parte da me svolta nella liberazione del suo popolo. Che fosse una parte del tutto casuale e marginale non faceva differenza per Esmo So Mu. Mi ha regalato, come «dono della gratitudine del suo popolo» una piccola palla di vimini, un gioco per bambini, costruito alquanto rozzamente.
«Non facciamo oggetti tanto belli come quelli di voi americani», mi disse, in tono di scusa, ma penso si sia accorto della mia commozione nel riceverlo.
Il suo inglese era abbastanza buono. Da bambino era stato uno degli elfi di Santa Claus e in seguito era stato trasferito all’Isola dell’Anno Nuovo come cameriere e gigolò part-time.
«Non era poi così male», mi disse, per poi aggiungere: «Be’, si stava male», e subito dopo, mentre la sua faccia dagli zigomi alti, espressiva, si increspava in un sorriso: «Ma non male-male. Solo il mangiare era male-male».
Esmo So Mu mi parlò del suo mondo. Centinaia di isole, molte con una popolazione di una sola famiglia o due, sparse per tutto l’oceano. La gente viaggiava da un’isola all’altra con barche simili ai catamarani.
«Tutti sono sempre in visita da qualcuno», mi raccontò.
La Compagnia Grande Gioia aveva concentrato l’intera popolazione in un solo arcipelago e aveva proibito di entrare e di uscire per mare dalla zona. «Bruciato le barche», spiegò Esmo So Mu, conciso.
Era nato su un’isola a sud dell’Arcipelago dei Giorni di Festa e adesso era tornato a vivere laggiù. «Molti più soldi se rimanevo a lavorare in hotel», confessò, «ma non avevo voglia.»
Gli chiesi di parlarmi del suo paese. «Oh», disse, tornando a ridere. «Sa una cosa? Al mio paese non ci sono giorni di festa! Perché siamo tanto pigri! Lavoriamo una, due ore nell’orto, poi smettiamo. Giochiamo con i bambini. Usciamo in barca. Nuotiamo. Andiamo a dormire. Cuciniamo. Riposiamo. Che bisogno abbiamo di fare festa?»
Ma la cugina Sulie accolse con delusione la notizia che la gestione era cambiata. «Non penso di tornarci questo agosto», mi confessò, un po’ triste, quando le telefonai per farle gli auguri di compleanno. «Non mi sembrerebbe neppure Natale, visto che adesso la nazionalità è diversa. Non ti pare?»