Non ci sono molti turisti che si rechino a visitare il piano dei veksi. Hanno paura che gli abitanti li aggrediscano. In realtà, i veksi ignorano decisamente i rari viaggiatori provenienti da altri piani: li considerano spettri — impotenti e maleodoranti — di nemici uccisi e pensano che si allontaneranno da soli se nessuno gli presterà attenzione. La convinzione si è dimostrata quasi sempre attendibile.
Alcuni studiosi della variabilità del comportamento si sono però fermati su quel piano e sono venuti a conoscenza di molti particolari degli involontari e indifferenti padroni di casa.
La descrizione che segue mi è stata fornita da un amico che chiede di rimanere anonimo.
I veksi sono una razza iraconda. La loro vita sociale è costituita in gran parte di battibecchi, proteste, dispute, scambi di percosse, esplosioni di furia, periodi di recriminazione in solitudine, risse, faide e desiderio di vendetta.
Non c’è differenza di forza o di dimensione tra gli uomini e le donne dei veksi. Entrambi i sessi accrescono la loro forza naturale con l’uso di armi, che portano con sé in ogni momento. I loro accoppiamenti sono spesso così violenti da causare ferite e talvolta anche la morte di uno o di tutt’e due i partner.
Si muovono generalmente sulle quattro zampe, anche se sanno camminare — e camminano — con grazia e vigore sulle gambe posteriori, corte e robuste, che terminano con uno zoccolo. Gli arti anteriori dei veksi sono articolati in modo da poter essere usati altrettanto efficacemente come zampe o come braccia. Lo zoccolo anteriore, lungo e sottile, nasconde e protegge una mano, che è tenuta chiusa a pugno all’interno dello zoccolo stesso quando camminano a quattro zampe. Una volta estese all’esterno dello zoccolo, le quattro dita opponibili sono eleganti e agili come la mano umana.
Il pelame dei veksi cresce lungo e ricciuto sulla testa e sulla schiena; assume la forma di peluria fine e folta su ogni parte del corpo, a eccezione dei genitali e del palmo della mano.
Il colore della pelle va dal fulvo al bronzo, il pelo è nero, castano, biondo scuro, rossiccio o una mescolanza di tutti questi, con varie pezzature e sfumature. A mano a mano che i veksi invecchiano, compaiono i peli chiari e gli anziani possono essere completamente bianchi, ma non ci sono molti veksi che raggiungano quell’età.
L’abbigliamento, non essendo necessario per la protezione dal freddo o dal calore, è composto da cinture, bandoliere e strisce di cuoio, portate come ornamento e per fornire tasche e fondine per utensili da lavoro e armi.
L’irritabilità di temperamento dei veksi comporta molte difficoltà per la loro vita in comune, ma il bisogno di stimoli sociali e di conflitti rende loro impossibile vivere isolati.
La soluzione è un villaggio chiuso entro una palizzata, composto di cinque o sei grosse case di fango, grandi e con il tetto a cupola, a cui si aggiungono da quindici a venti capanne più piccole, costruite in parte sotto il livello del suolo. Queste case sono chiamate omedra.
Le omedra più grandi, costituite di molte stanze, ospitano una famiglia estesa, composta da un gruppo di donne apparentate tra loro e dai loro figli, o da donne sessualmente accoppiate e dai figli. Gli uomini — parenti, partner sessuali e amici in genere — possono abitare in una casa solo dietro invito, possono andarsene quando vogliono, ma devono allontanarsi immediatamente se le donne glielo ordinano. Se non se ne vanno, tutte le donne e molti degli altri uomini li attaccano ferocemente, li cacciano via, coperti di sangue, e se cercano di ritornare li accolgono con lanci di pietre.
Le piccole omedra da una sola stanza sono occupate da adulti singoli, chiamati solitari. Questi sono uomini cacciati via dalle omedra più grandi, oppure uomini e donne che decidono di vivere da soli. A volte i solitari possono frequentare qualcuna delle famiglie, lavorano nei campi con gli altri, ma dormono da soli e consumano in isolamento la maggior parte dei pasti.
Uno dei primi visitatori ha descritto un villaggio veksi come: «cinque grandi case, piene di donne che imprecano tra loro e quattordici casette piene di uomini incolleriti e offési».
Lo stesso schema si ritrova nelle città, che sono essenzialmente villaggi riuniti tra loro per opporsi ad altri gruppi o villaggi, costruiti su isolotti al centro dei fiumi, su altipiani facili a difendersi da un attacco, o circondati da fossati e terrapieni. Le città sono divise in quartieri separati tra loro, che dal punto di vista sociale sono simili ai villaggi rurali. I sentimenti che prevalgono tra tutti i vicini, nei paesi, villaggi e nei quartieri delle città, sono rancori, rivalità e odio.
Faide e scorrerie sono continue.
La maggior parte degli abitanti muore per ferite di arma bianca. Nonostante tutto questo, la guerra su larga scala — che interessi più di qualche villaggio o di due città — sembra ignota; la coesistenza pacifica dei villaggi o dei quartieri si basa su prese di distanza provvisorie o sprezzanti ed è sempre di breve durata.
I veksi non attribuiscono importanza al potere o al dominio sugli altri e non lottano per avere il comando. Lottano spinti dall’ira o per vendicarsi.
Questo può farci capire perché, anche se l’intelligenza e l’abilità manuale avrebbero permesso loro di costruire armi che uccidono a distanza, i veksi combattono con il coltello, il pugnale e la mazza, oppure a mani nude… anzi, a zoccoli nudi. In effetti la loro lotta è confinata entro numerose regole non scritte, ma provenienti da tradizioni assai autorevoli. Per esempio, qualunque sia la provocazione, nelle loro incursioni e vendette non distruggono mai le piantagioni o i frutteti.
Ho visitato un villaggio rurale, Akagrak, dove tutti i maschi adulti erano morti in combattimenti e faide contro i tre villaggi vicini. I fertili terreni di Akagrak, situati in fondo alla valle fluviale, non erano stati danneggiati dai vincitori di quelle battaglie, né questi se ne erano impadroniti.
Io assistetti al funerale dell’ultimo uomo del villaggio, un Bianco — ossia un vecchio — che si era allontanato da solo, per vendicare l’uccisione del nipote, ed era stato lapidato a morte da un gruppo di giovani di uno dei villaggi adiacenti, Tkat.
Uccidere scagliando pietre è un’infrazione del codice di guerra. La gente di Akagrak era infuriata, e la loro offesa non diminuiva, anche se gli abitanti di Tkat avevano punito i loro giovani trasgressori con tanta severità che uno era morto e un altro sarebbe rimasto invalido per tutta la vita. Ad Akagrak i maschi superstiti, sei bambini, non avevano il permesso di dare battaglia finché non avessero compiuto il quindicesimo anno, l’età in cui tutti i maschi e parte delle femmine diventano Guerrieri. Insieme alle ragazze inferiori ai quindici anni, i ragazzi lavoravano duramente nei campi per sostituire gli uomini uccisi. I Guerrieri di Akagrak erano adesso costituiti da donne prive di figli o con i figli ormai maggiorenni. Quelle donne passavano la maggior parte del tempo a tendere imboscate agli abitanti di Tkat e degli altri villaggi.
Le donne ancora impegnate nell’allevamento dei figli piccoli non sono Guerrieri; combattono solo per difesa, salvo il caso che sia stato ucciso un bambino: allora è la madre a guidare le altre donne in un’incursione a scopo di vendetta.
Normalmente, i veksi non invadono gli altri villaggi e non uccidono o aggrediscono intenzionalmente i bambini. Ma, com’è prevedibile, nelle loro furiose battaglie finisce per essere ucciso anche qualche bambino. Le donne non Guerrieri, le madri vendicatrici, entrano allora apertamente nel villaggio degli assassini. Non colpiscono alcun bambino, ma uccidono qualunque uomo o donna che faccia resistenza. I colpevoli si limitano a sedere nella polvere e ad attendere la punizione. I vendicatori li pigliano a calci e pugni, li insultano e sputano su di loro. Di solito esigono un dono di sangue, un bambino che sostituisca quello ucciso. Non rapiscono i bambini e non li costringono ad accompagnarli. Il bambino deve offrirsi volontario o almeno accettare di allontanarsi con loro. Curiosamente, di solito accettano.
Inoltre, i bambini al di sotto dei quindici anni si rifugiano spesso in qualche villaggio vicino, che è come dire nemico. Laggiù sono sicuri di essere accertati in qualche casa. I fuggiaschi possono rimanere finché l’odio nei riguardi dei loro parenti si è spento, o anche in modo permanente.
Una volta chiesi a una bambina «rifugiata», dell’età di circa nove anni, perché avesse lasciato il suo villaggio e si fosse rifugiata ad Akagrak, lei mi rispose: «Ero in collera con mia madre».
Nelle città i bambini cadono spesso vittime, casualmente, delle risse che scoppiano in modo quasi ininterrotto nelle strade. Ci si può vendicare della loro morte, ma i vendicatori non godono dell’immunità, diversamente da quanto accade nei villaggi, perché nelle città il codice morale è decaduto o è scomparso del tutto. Le tre grandi città dei veksi sono così pericolose che è raro vedere in strada persone di più di trent’anni. Eppure sono continuamente ripopolate da gente che lascia i villaggi.
I figli dei veksi sono trattati piuttosto brutalmente dall’infanzia alla maggiore età. Non c’è dubbio sul fatto che i veksi amino appassionatamente i figli e che sentano forti responsabilità verso tutti i bambini: lo testimonia il fatto che i fuggiaschi sono sempre accolti nelle famiglie e sono trattati altrettanto bene (o male) quanto i bambini del villaggio.
I neonati ricevono attenzioni e cure ininterrotte da parte dei genitori e dei parenti. È un affetto feroce e impaziente, privo di tenerezze. Schiaffi, scrolloni, urla e minacce sono il pane quotidiano di questi piccoli. In ogni caso, con i bambini fino a quindici anni, gli adulti cercano di frenare il loro temperamento collerico.
Un genitore che percuota il bambino sarà percosso a sua volta da tutti gli altri adulti e un solitario che faccia male ai bambini sarà sbattuto fuori a calci dal villaggio.
I bambini si comportano in modo guardingo nei confronti di tutti gli adulti. Stare con i coetanei non costituisce un problema: gran parte del loro comportamento litigioso sembra essere imitativo. I neonati veksi sono silenziosi, attenti e stoici. Quando non sono presenti gli adulti, i bambini veksi lavorano e giocano tra loro in modo del tutto pacifico.
Questo comportamento cambia quando si avvicinano all’età del Guerriero, quindici anni. Allora, spinti dai cambiamenti fisiologici o dalle aspettative culturali, cominciano a litigare, a rispondere con ferocia a ogni offesa, si abbandonano a lunghi periodi di mutismo e isolamento che danno poi origine a esplosioni di collera e aggressività.
Quando si va a fare visita a una grossa omedra piena di gente incollerita, si ricava l’impressione che i veksi adulti non facciano altro che urlare, rimproverarsi tra loro, imprecare e litigare, ma la vera regola della loro vita consiste nell’evitarsi.
Gran parte degli adulti — anche in una famiglia, e ben di più i solitari — trascorre molto del proprio tempo a mantenere bellicosamente le distanze e l’indipendenza; è una delle ragioni per cui trovano tanto facile ignorare noi «fantasmi»: si ignorano tra loro in tutte le occasioni.
È poco consigliabile, per un veksi, portarsi a meno di qualche palmo di distanza da un altro veksi senza un espresso invito. E avvicinarsi alla casa di un solitario è pericoloso per tutti, parenti ed estranei. Se hanno bisogno di comunicare, si fermano a una distanza di sicurezza e lanciano alcune grida rituali di avvertimenti e di pacificazione. Anche in tal caso, però, il solitario può ignorare i nuovi venuti o uscire con espressione truce e con in mano una spada per cacciarli via.
Le donne solitarie sono famose per avere ancor meno pazienza degli uomini e per essere ancor più pericolose.
Nonostante la collera che nutrono l’uno verso l’altro, i veksi sono perfettamente in grado di lavorare insieme. Gran parte della loro agricoltura è in comune ed è condotta in modo assai efficiente; è praticata in base a costumi invariabili e altamente produttivi. Su qualche particolare della tradizione sorgono sempre feroci discussioni e litigi, ma il lavoro va avanti.
I tuberi e i cereali da loro coltivati sono ricchi di proteine e carboidrati; non mangiano carne, a parte vari generi di bruchi e le larve di insetti allevati sulle piante da loro coltivate, usate per insaporire e come condimento. Con uno dei loro cereali fanno una birra dalla gradazione molto alta.
A parte i genitori, quando fermano i figli e danno loro ordini (incontrando quasi sempre una forte resistenza, silenziosa o alquanto vocifera), nessuno rivendica la propria autorità su un altro. Non ci sono capi nei villaggi né padroni nei campi e nelle fabbriche delle città. Non ci sono gerarchie sociali.
Nessuno accumula ricchezze, dato che i veksi sono contrari al predominio economico come lo sono a quello sociale. Chi giunge a ottenere proprietà molto superiori a quelle del resto della comunità si affretta a dare via tutto o lo impiega per i bisogni della comunità: effettuare riparazioni, procurarsi attrezzi e armi.
Gli uomini spesso regalano armi alle persone che odiano, o per farle vergognare o per una sorta di sfida. Le donne, che hanno il comando della casa, dei giovani e gli infermi, hanno il diritto di costituire riserve di cibo per i brutti tempi; ma se una casa ha un raccolto eccezionale, lo condivide il più in fretta possibile, regalando i cereali e organizzando una grande festa per l’intero villaggio. In quel genere di feste si beve molta birra.
Mi aspettavo che l’alcol portasse i veksi a fare una carneficina, e la prima volta che mi capitò di osservare una festa di villaggio ero molto allarmata; ma la birra sembra alleggerire la collera dei veksi, che invece di litigare tra loro finiscono per tendere al sentimentale e passare la notte a parlare dei vecchi morti e dei vecchi litigi, a piangere insieme e a mostrarsi le cicatrici.
I veksi sono rigidamente monoteisti. Immaginano il loro Dio come una forza della distruzione, e contro di essa nessuna creatura resiste a lungo. Per loro, l’esistenza è una ribellione contro la legge. La vita è una breve sfida contro la morte inevitabile. Le stelle medesime sono mere faville |della fiamma che tutto annulla. Nei vari canti e nei vari riti dei veksi, i nomi di Dio sono: il Terminatore, il Grande Devastatore, lo Zoccolo Ineluttabile, il Vuoto che Attende, la Pietra che Spacca il Cervello.
Le immagini della divinità sono costituite da pietre nere, alcune naturali, altre lavorate e lucidate fino a diventare globi o dischi. Le funzioni del culto — privato o comunitario — consistono principalmente nell’accendere un fuoco davanti a una di quelle pietre e nel cantare o gridare parole e versi di qualche rito. Nello stesso tempo prendono furiosamente a calci, con gli zoccoli, tamburi di legno, con un rumore terribile. Non esiste un sacerdozio, ma gli adulti si assicurano che i giovani imparino le cerimonie.
Ho assistito al funerale dell’Uomo Bianco di Akagrak. Il corpo fu steso su una tavola di legno, dopo averlo spogliato; sul petto gli venne posta la pietra sacra della sua omedra e in ciascuna mano, stretta a pugno all’interno dello zoccolo, gli fu collocato un ciottolo nero. Quattro parenti portarono le spoglie fino al luogo dove si bruciano i corpi, camminando eretti. Tutti gli abitanti del villaggio li seguivano Camminando sulle quattro zampe. Era già pronta una grossa pira di tronchi e di sterpaglie e il corpo venne adagiato sulla sua cima.
Nelle vicinanze, ardeva già da almeno un’ora un fuoco più piccolo, di legna nodosa. Le persone prendevano con le mani nude i tizzoni e i pezzi di legno infuocati e li gettavano sulla pira, gridando e urlando in quella che sembrava collera pura, incontrollabile.
La nipote del morto continuava a ripetere: «Come hai potuto farmi una cosa simile? Come hai potuto andare a morire lontano? Non avevi alcun affetto per me! Non potrò mai perdonarti!»
Altri parenti e discendenti rimproveravano il morto perché non aveva pensato che loro gli volevano bene, perché li aveva abbandonati, perché era corso via quando avevano bisogno di lui, che era vissuto così a lungo e poi era morto lo stesso.
Molte di queste accuse e di questi rimproveri facevano chiaramente parte di un rituale ed erano tradizionali, ma erano gridati con una collera inconfondibile. La gente piangeva, si strappava via le cinture e gli ornamenti e, imprecando, li gettava nel fuoco, si strappava i capelli e il pelo delle braccia, si strofinava terra e cenere sulla faccia e sul corpo. Quando il fuoco si abbassava e minacciava di spegnersi, correvano a prendere altro combustibile e lo gettavano furiosamente sulle braci.
I bambini che piangevano ricevevano dagli adulti, con fastidio, una manciata di frutta secca e l’ingiunzione: «Fate silenzio! Mordetevi le labbra! Il nonno non vi ascolta! Il nonno vi ha abbandonato! Ormai siete degli orfani privi di valore!»
Al sopraggiungere della notte, finalmente alla pira fu concesso di spegnersi. Il corpo era stato consumato completamente. Non ci fu sepoltura per i pochi frammenti di osso rimasti nella cenere, ma la sacra pietra nera verme recuperata e collocata nuovamente nel suo tempio.
La gente, esausta, si trascinò fino al villaggio, sbarrò le porte per la notte e andò a dormire senza mangiare e senza lavarsi, con le mani ustionate e il cuore pieno di amarezza.
Non poteva esserci alcun dubbio: gli abitanti del villaggio erano orgogliosi del vecchio, perché è davvero una grande conquista, per un veksi, sopravvivere fino a diventare un Bianco, e alcuni di loro lo amavano sinceramente, ma i loro lamenti erano accuse, il loro dolore era collera.