Si sente parlare di piani dove non si dovrebbe andare, di piani che nessuno dovrebbe visitare, neppure per breve tempo.
A volte, nell’orribile cacofonia del bar dell’aeroporto, si sentono gli uomini del tavolino accanto parlare a bassa voce: «Gli ho detto quello che gli gnegn hanno fatto a MacDowell», oppure: «Credeva di potercela fare, su Vavizzua». A quel punto, in genere, si intromette una voce acuta, stridula, enormemente amplificata, che grida: «I passeggeri del volo delle quarundici e trenta per Hhuhh si presentino al cancello tentibei per l’imbarco» o: «Shimbleglood Rrggrrggrr è pregato di mettersi in comunicazione tramite la linea interna», e sommerge tutte le voci, oltre ad allontanare il sonno e la speranza dalle povere anime che ciondolano sulle sedie di plastica azzurra e tubi d’acciaio inossidabile imbullonati al pavimento e che si auguravano di poter riposare brevemente tra i piani e gli aeroplani; ma intanto i discorsi degli uomini seduti al tavolino sont disparu, sono finiti.
Naturalmente poteva trattarsi di semplici vanterie per far sembrare più avventurosa la loro vita. Se gli gnegn o i vavizzua fossero davvero pericolosi, l’Agenzia Interplanaria avvertirebbe la gente di tenersi lontano, un po’ come avverte di non recarsi su Zuehe.
È ben noto che il piano di Zuehe è straordinariamente tenue. I visitatori dotati di massa e solidità ordinarie corrono il rischio di spezzare le delicate trame della realtà di Zuehe, di conseguenza danneggiando interi quartieri e mettendo a repentaglio la serenità dei padroni di casa. Le relazioni interpersonali, intime e piene d’affetto, che per gli zuehe sono tanto importanti, possono subire gravi tensioni e persino giungere alla rottura a causa del peso distruttivo di un trasgressore ignorante e indifferente. Nel frattempo, la sola conseguenza subita dal trasgressore è il brusco ritorno al proprio piano, a volte in qualche posizione particolare o a gambe all’aria, una cosa che può essere imbarazzante, ma dopotutto si è in un aeroporto, dove nessuno ti conosce e dunque la vergogna non conta.
Tutti vorrebbero vedere le torri di pietra di luna che sorgono a Nezihoa e che sono ritratte nella guida di Rornan, le steppe di nebbia interminabile, le scure foreste del Sezu, i leggiadri abitanti di Zuehe, che hanno i capelli color argento brunito talmente fini che la mano non si accorge di toccarli.
È triste che un piano così incantevole non si possa visitare; per fortuna, alcuni di coloro che lo hanno visto sono stati in grado di descrivercelo. Comunque, qualcuno ci va ugualmente. Le persone normal-egoistiche giustificano la loro invasione di Zuehe con la nota scappatoia di ritenersi diversi da tutti quegli altri che vanno su quel piano e lo rovinano. Le persone estremamente egoiste ci vanno per vantarsene, proprio perché è fragile, danneggiabile e di conseguenza è un trofeo.
Quanto agli zuehe, sono troppo gentili, riservati e vaghi per proibire l’ingresso a chiunque. I verbi, nel loro nebuloso linguaggio, non hanno neppure un modo indicativo, tanto meno imperativo. Gli zuehe hanno solo il condizionale. Hanno mille modi per dire forse, chissà, a meno che, anche se, ma se… ma non un sì o un no deciso.
Così, al solito punto di ingresso nel piano, l’Agenzia Interplanaria ha collocato non un hotel, ma una rete: una grossa, forte rete di nailon. Chiunque arrivi su Zuehe, anche involontariamente, viene catturato, spruzzato di antiparassitario — di quello usato per le pecore — riceve un opuscolo contenente un avvertimento molto chiaro, in 442 lingue, ed è rinviato al suo piano, meno affascinante ma più durevole, dove l’Agenzia si assicura che arrivi a gambe all’aria.
Sono stata su un solo piano che davvero non raccomanderei a nessuno e dove certamente non farò mai ritorno. Non sono certa che sia esattamente pericoloso. Non sono la persona più adatta per giudicare i pericoli. Per farlo, occorre essere coraggiosi. Le emozioni e i brividi, che per alcune persone sono il sale della vita, a me tolgono tutto il gusto di vivere.
Quando sono spaventata, il cibo sa di segatura — il sesso, con la sua vulnerabilità del corpo e dello spirito, è l’ultima cosa che potrei desiderare — le parole sono prive di significato, il pensiero diviene incoerente, l’amore è paralizzato. Una codardia di questo livello, lo so, non è comune. Molte persone dovrebbero appendersi per i denti a una corda consumata, agganciata con un fermaglio per la carta a un pallone che perde aria calda, al di sopra del Grand Canyon, per provare quello che sento io quando salgo sul terzo scalino di una scala a pioli e cerco di mettere il becchime nella mangiatoia degli uccellini.
Ci sono persone che trovano esilarante il terrore e che riprendono a fare parapendio non appena si sono tolte il gesso delle fratture. Invece io scendo un passo la volta dalla scaletta, tengo ben saldo il corrimano e giuro di mai più salire ad altezze superiori al palmo.
Di conseguenza non volo più del minimo necessario e quando finisco intrappolata negli aeroporti non cerco i piani pericolosi, ma quelli pacifici, noiosi, ordinari, normalmente complicati, dove non corro il rischio di impazzire per lo spavento, ma mi allarmo soltanto un pochino, un po’ come capita ai codardi, per tutta la vita.
Mentre attendevo all’aeroporto di Denver dopo avere perso la coincidenza, attaccai bottone con una simpatica coppia che arrivava giusto allora da Uni. Mi dissero che era un bel posto.
Dato che erano due persone di mezza età, lui con un costoso videoregistratore e aggeggi elettronici assortiti, lei con i fuseaux e sandali infradito bianchi e tutt’altro che temerari, pensai che non avrebbero dato quel giudizio se fosse stato un luogo veramente pericoloso. Fu una supposizione molto stupida da parte mia.
Avrei dovuto rizzare le antenne nell’accorgermi che le loro descrizioni erano piuttosto vaghe.
«Laggiù succedono un mucchio di cose», mi disse l’uomo. «Ma tutte come da noi. Non è uno di quei posti stranieri stranieri.» E la moglie aggiunse: «Un paese come nel libro delle favole! Esattamente come quello che si vede in TV».
Ma neanche questo riuscì a mettermi in sospetto.
«Il clima è molto bello», disse la moglie. Il marito corresse: «Variabile».
Per me andava bene. Avevo con me un impermeabile leggero, e al mio volo per Memphis mancava un’ora e mezza.
Mi recai su Uni.
Mi registrai presso l’Ostello Interplanario.
UN BENVENUTO AI NOSTRI AMICI DEL PIANO ASTRALE! diceva l’insegna sul tavolo. La donna pallida e robusta, dai capelli rossi, che stava al banco mi diede un translatomat e una cartina autocentrante della città, ma mi indicò anche un cartellone:
«Le converrebbe provarlo», mi disse la donna.
In generale evito le esperienze di tipo «virtuale», che sono sempre registrate con un tempo migliore di quello che incontro nel luogo e che tolgono la novità a tutti gli spettacoli che vorresti vedere, senza dare alcuna vera informazione. Ma due pallidi, corpulenti impiegati mi spinsero — in modo amichevole quanto deciso — verso il cubicolo della realtà virtuale e io non ebbi il coraggio di ribellarmi.
Mi aiutarono a mettere l’elmetto sulla testa, mi avvolsero attorno al corpo la tuta e mi infilarono i guanti e le calze cablate. Poi rimasi a sedere del tutto sola, per quel che mi parve almeno un quarto d’ora, in attesa che cominciasse la proiezione, e passai tutto quel tempo cercando di vincere la claustrofobia, osservando i colori che mi ballavano negli occhi e chiedendomi a quanti minuti corrispondesse un iz!mit. O che il singolare fosse iz!m: un iz!m, due iz!mit? A meno che il plurale non fosse indicato da un prefisso, perché in tal caso il singolare sarebbe stato z!mit.
Però, dopo un poco, visto che non succedeva niente, che l’almanaccare sulla grammatica mi era venuto a noia, decisi di mandare al diavolo l’intera esperienza. Scivolai fuori dalla tuta della realtà virtuale, passai con indifferenza colpevole davanti agli impiegati e mi trovai fuori dall’ostello, in mezzo alle piantine in vaso. I vasi di piante grasse davanti agli hotel sono uguali in tutti i piani.
Guardai la mia cartina autocentrante e mi diressi alla Galleria d’Arte, che era contrassegnata con tre stelle.
La giornata era soleggiata, ma fredda. La città, edificata principalmente in pietra grigia e con tetti di tegole rosse, aveva un’aria vecchia, sedentaria e prospera. La gente se ne andava per i propri affari senza prestare attenzione a me. Gli uñiati mi parevano in prevalenza corpulenti, con la pelle chiara e i capelli rossi. Tutti portavano soprabiti, gonne lunghe fino alle caviglie e stivali dalla suola spessa.
Arrivai alla Galleria d’Arte, in fondo al suo piccolo parco, ed entrai. Quasi tutti i quadri raffiguravano donne dai capelli rossi, dalla pelle bianca, un po’ grasse e senza vestiti, anche se alcune di loro portavano gli stivali. La tecnica pittorica era buona, ma non mi dicevano molto.
Stavo per uscire quando venni coinvolta in una discussione. Due persone — maschi, mi parve, anche se era difficile dirlo, sotto tutti quei soprabiti, gonne e stivali — discutevano davanti al ritratto di una donna obesa, rossa di capelli, sdraiata su un divano a fiori e vestita dei soli stivali. Mentre passavo, uno di loro si voltò verso di me e disse, o così il translatomat rese le sue parole: «Se la figura è l’elemento centrale compositivo nella tensione dei blocchi e delle masse, il dipinto non si può ridurre a uno studio della luce indiretta sulle superfici, vero?»
Lui (o lei) mi rivolse la domanda in modo così semplice e diretto, e con una tale urgenza, che io non potevo dire semplicemente: «Ha detto, scusi?» o scuotere la testa e fingere di non avere capito.
Tornai a guardare il quadro e risposi, dopo un momento: «Be’, forse, ma non utilmente».
«Ascoltiamo i fiati», intervenne l’altro e solo allora mi accorsi della musica ambientale, un pezzo orchestrale che non conoscevo, dominato al momento dagli strumenti a fiato, forti e lamentosi: oboe, forse, o fagotti nel registro acuto.
«Il cambio di chiave è decisivo», disse l’estimatore della musica, a voce! un po’ troppo alta. La persona seduta dietro di noi si sporse in avanti e fece: «Sssh!», per invitarci a tacere, mentre quella davanti si voltò a guardarci con aria di rimprovero.
Imbarazzata, rimasi perfettamente immobile per tutto il resto del movimento, che era molto bello, anche se i cambiamenti di chiave, o qualcosa del genere — la sola cosa che mi permetta di riconoscere un cambiamento di chiave è che mi vengono le lacrime agli occhi senza che ne sappia il perché — lo rendevano un po’ incoerente.
Con stupore vidi un tenore (o forse un contralto) che non avevo notato in precedenza: si alzò e iniziò a cantare a voce spiegata il tema principale, fino a terminare con una nota acuta che ottenne gli applausi del pubblico del grande auditorium. Battevano le mani, gridavano e chiedevano il bis. A un certo punto, un alito di vento, proveniente dalle alte montagne che s’innalzavano a ovest, attraversò la piazza del villaggio: tutti gli alberi rabbrividirono e si chinarono. Alzando lo sguardo verso le nubi che scorrevano sopra la mia testa, mi accorsi che stava per scoppiare un temporale.
Di momento in momento, le nubi diventarono sempre più scure, un altro forte soffio di vento colpì la piazza, sollevando polvere, foglie e spazzatura; mi dissi che avrei fatto bene a mettermi l’impermeabile. Ma l’avevo lasciato al guardaroba della Galleria d’Arte. Il mio translatomat era agganciato al bavero della giacca, ma la cartina autocentrante era nella tasca dell’impermeabile. Raggiunsi lo sportello della stazioncina e chiesi l’orario del prossimo treno, ma l’uomo con un occhio solo, dietro la sottile grata di ferro battuto, rispose: «Non abbiamo più i treni».
Mi voltai a guardare i binari vuoti, che si allontanavano all’infinito sotto le grandi pensiline ad arco, un binario dopo l’altro, ciascuno con il suo numero e il suo cancelletto. Qua e là c’era un carrello per i bagagli e un unico distante passeggero camminava oziosamente lungo la piattaforma, ma nessun treno. «Ho bisogno del mio impermeabile», spiegai, in una sorta di panico.
«Provi agli Oggetti Smarriti», mi rispose l’impiegato monocolo, poi si immerse di nuovo nei suoi moduli e nei suoi orari. Attraversai il grande spazio vuoto della stazione, per raggiungere l’entrata. Dopo il ristorante e il bar trovai l’ufficio Oggetti Smarriti. Entrai e chiesi: «Ho lasciato l’impermeabile alla Galleria d’Arte. Ma adesso ho perso la Galleria».
La donna — statuaria e dai capelli rossi — che stava dietro il banco rispose in tono annoiato: «Aspetti un momento». Cercò in giro e infine trovò una cartina; la stese sul banco. «Ecco», disse, scegliendo un quadratino e indicandolo con il dito bianco, grasso, dalle unghie laccate di rosso. «Questa è la Galleria d’Arte.»
«Ma non so dove mi trovo. Dove siamo? Dov’è la stazione?»
«Qui», mi rispose, indicando un altro quadrato sulla cartina, a dieci o dodici isolati dalla Galleria d’Arte. «Meglio andare finché dura la configurazione. Oggi vuole piovere.»
«Posso tenere la cartina?» le chiesi in tono un po’ piagnucoloso. Lei annuì.
Mi avventurai lungo le strade della città, con tutta la diffidenza possibile: camminavo a piccoli passi, come se il marciapiedi potesse trasformarsi in un abisso sotto i miei piedi, o una rupe levarsi all’improvviso davanti a me, o l’incrocio trasformarsi nel ponte di una nave in mezzo al mare. Però, fortunatamente, non successe nulla.
Le strade della città, larghe e piane, si incrociavano a distanze regolari, silenziose, senza alberi che frusciassero. Autobus e taxi elettrici passavano senza alcun rumore; non si scorgevano auto private. Proseguii. Grazie alla cartina, in breve arrivai alla Galleria d’Arte, aveva i gradini di pietra sedimentaria scura, anziché del marmo verde e bianco che ricordavo, ma il resto era uguale. Di solito non ho molta memoria.
Entrai e mi diressi al guardaroba per farmi dare l’impermeabile. Mentre l’inserviente lo cercava — una ragazza dai capelli corvini e dagli occhi che sembravano d’argento, con labbra sottili e nere — mi chiesi perché mi fossi voluta informare, alla stazione, sull’ora di partenza del prossimo treno. Dove pensavo di andarmene? La sola cosa che mi interessasse era il mio impermeabile lasciato presso la Galleria. Se ci fosse stato un treno, vi sarei salita? E dove sarei scesa?
Non appena recuperato il mio capo di vestiario, scesi in fretta gli scalini e corsi per le stradine ripide, acciottolate, in mezzo a due file di casette dai deliziosi balconcini, tra la folla di uñiati, composta di individui sottili, quasi scheletrici e dalle labbra nere.
Intendevo raggiungere l’Ostello Interplanario e farmi dare una spiegazione. Probabilmente c’era qualcosa nell’aria, pensavo, mentre la nebbia diventava più fitta e nascondeva i monti che dominavano sulla città e i tetti a punta delle case costruite sulle loro pendici. Forse gli uñiati fumavano qualche allucinogeno o c’era qualche polline o altro, nell’aria o nella nebbia, che alterava la mente, confondeva i sensi, oppure che — pensiero inquietante — cancellava segmenti di memoria, di modo che le cose sembravano succedere senza continuità: non ricordavo come fossi arrivata nei posti in cui mi ero ritrovata o cosa fosse successo nel tragitto fra l’uno e l’altro.
Non avendo una buona memoria, non ero in grado di dire se non ne avessi perso una parte. Per alcuni aspetti era come un sogno, ma io non sognavo certamente, ero soltanto confusa e sempre più allarmata, a tal punto che, nonostante il freddo e l’umidità, non mi fermai a infilare l’impermeabile, ma, rabbrividendo, proseguii lungo il sentiero della foresta.
Fiutai l’odore del fumo di legna, dolce e acre nell’aria umida, e dopo qualche tempo, in mezzo alla nebbia della sera che si raccoglieva attorno ai fusti e sembrava quasi palpabile, scorsi un lumicino. Accanto al sentiero sorgeva la capanna di un boscaiolo, con l’ombra di un giardinetto davanti alla cucina, il bagliore dorato del caminetto dietro lo stretto pannello di vetro della finestra, il fumo che s’innalzava dal comignolo. Un’immagine isolata e familiare. Bussai all’uscio e dopo quasi un minuto giunse un vecchio ad aprirmi. Era calvo, con un enorme bitorzolo sul naso; in mano teneva una padella in cui friggevano allegramente dei salamini.
«Ti posso concedere tre desideri», mi annunciò.
«Desidero tornare all’Ostello Interplanario», cominciai.
«Quello è il desiderio che non puoi vedere esaudito», rispose il vecchio. «Piuttosto, perché non desideri che i salamini mi crescano dalla punta del naso?»
Dopo un breve istante di riflessione, risposi: «No».
«Allora, che cosa desideri, a parte tornare all’Ostello Interplanario?»
Riflettei ancora, e infine spiegai: «Quando avevo dodici o tredici anni, pensavo sempre a cosa avrei risposto se mi fossero stati concessi tre desideri. Pensavo che avrei detto: ‘Desidero, dopo essere vissuta bene fino a 85 anni e avere scritto alcuni ottimi libri, poter morire tranquilla, nella consapevolezza che tutte le persone a cui voglio bene sono felici e in buona salute’. E già allora sapevo che era un desiderio stupido, disgustoso. Pragmatico. Egoistico. Un desiderio da fifoni. Sapevo che non era giusto. Come desiderio non mi sarebbe mai stato approvato Inoltre, una volta formulato quello, come avrei utilizzato gli altri due desideri? All’epoca pensavo che con gli altri due avrei potuto chiedere che tutti al mondo fossero più felici, o che si smettesse di fare la guerra, o che l’indomani mattina ci si svegliasse sentendosi davvero |buoni e gentili con chiunque, per tutto il giorno, anzi per tutto l’anno, anzi per sempre, ma a quel punto mi accorgevo che non credevo veramente a nessuno dei tre desideri e che li consideravo, appunto, solo desideri.
«Finché rimanevano nella categoria dei desideri erano ottimi, persino utili, ma non potevano andare molto più in là del desiderio stesso.
«’Nulla di quel che faccio potrà permettermi di raggiungere una meta che non sia alla mia portata’, come disse il re Yudhishthira nello scoprire che il paradiso non era esattamente come da lui sperato.
«Ci sono ostacoli che neppure il cavallo più coraggioso può superare. Se i desideri fossero cavalli, ne avrei un’intera mandria, roani e sauri, incantevoli cavalli selvaggi che non hanno mai conosciuto la briglia, che non sono mai stati domati, che galoppano lungo la pianura fra rosse mesa e montagne azzurre. Ma i fifoni stanno in sella a cavalli a dondolo fatti di legno e con gli occhi dipinti con la vernice, e vanno su e giù, su e giù, sempre nello stesso punto della stanza dei giochi, su e giù, e le pianure, le mesa e i monti sono solo negli occhi del cavaliere. Perciò, lascia perdere i tre desideri e, piuttosto, passami un salamino».
Mangiammo insieme, il vecchio e io. I salamini erano eccellenti, e così il purè e le cipolle fritte. Non avrei potuto desiderare una cena più appetitosa.
Poi sedemmo insieme e rimanemmo per qualche minuto in silenzio, a fissare il fuoco; infine lo ringraziai dell’ospitalità e gli chiesi come raggiungere l’Ostello Interplanario.
«È una notte pazza», osservò lui, dondolando sul dondolo.
«Domattina devo essere a Memphis», gli spiegai.
«Memphis», ripeté lui, pensoso. O forse disse: «Mem-fish», come il pesce. Dondolò un altro po’ e continuò: «Ah, bene, allora. Meglio andare a est».
E, dato che proprio in quel momento un intero gruppo di persone eruppe da una stanza interna che non avevo notato fino a quell’istante — gente dalla pelle bluastra e dai capelli d’argento, in smoking o vestito da cocktail con le spalle fuori e minuscole scarpe a punta, che discuteva in tono acuto, rideva forte e gesticolava in modo esagerato, battendo gli occhi, ciascuno con un calice pieno di qualche liquido oleoso e un’oliva verde imbalsamata e sola — non mi parve il caso di fermarmi, ma uscii di corsa nella notte, che evidentemente era pazza solo nella capanna del vecchio, perché lì fuori, sulla spiaggia, regnava il silenzio, la mezza luna brillava sull’acqua placida e nera che sospirava e scivolava piano sull’ampia curva della riva.
Non avendo idea della direzione in cui era l’est, mi diressi a destra, dal momento che in genere ho l’impressione che l’est stia bene a destra e che l’ovest si accordi meglio con la sinistra; questo potrebbe significare che sono rivolta a nord per gran parte del tempo.
Il mare era invitante; mi sfilai le scarpe e le calze e camminai sul bagnasciuga con l’acqua fresca che mi lambiva i piedi. Il tutto era così pieno di pace che non ero assolutamente preparata alla forte esplosione di rumore, luce ferocemente chiara e minestra al pomodoro calda che mi colpirono tutti insieme, gettandomi a terra mentre uscivo sul ponte di una nave che faceva rotta, attraverso scrosci di pioggia, su un mare grigio e tempestoso, pieno di macchie di schiuma o teste di delfini, non saprei dire cosa.
Una voce immensa muggiva ordini incomprensibili dal ponte di comando e una voce ancor più immensa, la sirena della nave, lanciava attraverso la pioggia e la nebbia il suo vasto lamento per dare l’allarme della presenza di iceberg.
«Voglio essere all’Hotel Interplanario!» gridai, ma la mia esile voce venne cancellata dal clamore e dal frastuono che regnavano attorno a me. Inoltre non avevo mai creduto alla storia dei tre desideri.
Avevo i vestiti grondanti di pioggia e di minestra al pomodoro ed ero al massimo dello sconforto, finché una folgore — un fulmine verde, ne avevo letto la descrizione, ma non ne avevo mai visti — colpì la tolda, con lo sfrigolio di un’enorme padella di salsicce, in mezzo all’agitazione grigia, a neppure cinque metri da me; con uno schianto tremendo, il ponte si tranciò giusto a metà.
Per fortuna, proprio in quel momento avevamo colpito un iceberg, che si incuneò nella spaccatura della nave. Io mi arrampicai sul parapetto e lasciai il ponte, ormai inclinato di un angolo assurdo, per saltare sul ghiaccio. Poi, dall’iceberg, vidi le due metà della nave allontanarsi l’una dall’altra, inclinandosi e affondando sempre più. Tutta la gente che era corsa sul ponte portava il costume da bagno, azzurro: bermuda gli uomini, olimpionico le donne. Alcuni dei costumi avevano i galloni in oro, ed erano evidentemente la divisa degli ufficiali, perché quelli con i galloni davano ordini e quelli senza galloni obbedivano: calarono sei scialuppe di salvataggio, tre per lato, e vi salirono ordinatamente.
L’ultimo a salire fu un uomo con una tale fila di strisce dorate sui calzoncini da bagno da coprire quasi completamente l’azzurro. Quando salì sulla scialuppa, tutt’e due le parti della nave sprofondarono silenziosamente. Le barche formarono un convoglio e si allontanarono in mezzo ai delfini dal muso bianco, remando vigorosamente.
«Ehi!» gridai. «Aspettatemi! Ci sono anch’io!»
Ma non si voltarono indietro.
Le barche scomparvero in fretta nel buio che si addensava sull’acqua gelida e delfinitiva.
Potevo solo arrampicarmi sul mio iceberg e controllare cosa riuscissi a vedere. Mentre salivo sulle gobbe e i pinnacoli di ghiaccio, pensai a Peter Pan sulla sua roccia, che diceva: «Morire sarà una grande avventura». Almeno, ricordavo che avesse detto qualcosa del genere. Avevo sempre pensato che quella frase fosse molto coraggiosa da parte sua, decisamente una maniera costruttiva di pensare alla morte, e forse conteneva anche un fondo di verità. Ma io non avevo alcun particolare desiderio di scoprire se fosse vero o no, in quel momento. In quel momento volevo solo ritornare all’Hotel Interplanario. Ma ahimè, quando giunsi in cima all’iceberg, non scorsi nessun albergo. Si vedevano soltanto il mare grigio, i delfini, la nebbia e le nubi, grigie anch’esse, e l’oscurità che lentamente si addensava.
In precedenza, tutto il resto, in ogni altro posto, si era rapidamente trasformato in qualcosa di diverso. Perché non era successo all’iceberg? Perché non era diventato un campo di grano, o una raffineria di petrolio, o un vespasiano? Perché ero bloccata lassù?
Non potevo proprio fare nulla? Nemmeno battere i tacchi delle mie scarpette rosse e dire: «Voglio essere nel Kansas?» Che cosa c’era che non andava in quel piano? Un mondo come nel libro delle favole, davvero! A quel punto avevo i piedi gelati e solo il calore della minestra al pomodoro impediva ai miei vestiti di congelare nel forte vento che fischiava sulla superficie del ghiaccio.
Dovevo muovermi. Dovevo fare qualcosa. Cercai di fare un buco nel ghiaccio, scavando con le mani e con i piedi. Spezzando i punti sporgenti, colpendo con una serie di calci fino a staccare grosse schegge che raccoglievo e gettavo via. Nel volare nell’aria per infine cadere nel mare, assomigliavano a gabbiani o a farfalle bianche.
Non che la cosa mi fosse d’aiuto. Adesso ero davvero in collera, a tal punto che l’iceberg cominciò a sciogliersi attorno a me, fumando e gorgogliando leggermente; io penetrai nel suo interno come un ferro caldo, arroventato dall’ira e gridai ai due individui pallidi, che mi sfilavano i guanti e le calze cablate dalle mani e dalle gambe: «Che diavolo credete di fare?»
Erano imbarazzatissimi e tremendamente preoccupati. Temevano che fossi impazzita, che volessi fare causa al loro Ostello Interplanario, che parlassi male di Uni negli altri piani. Non sapevano che cosa si fosse guastato nel tour in realtà virtuale delle Bellezze di Uni, anche se chiaramente qualcosa si era rotto. Avevano chiamato il programmatore.
Quando l’uomo arrivò — con addosso unicamente un paio di calzoncini da bagno azzurri e gli occhiali dalla montatura di corno — diede solo una breve occhiata alla macchina. Dichiarò che era in perfetto ordine. Affermò che la mia confusione era dovuta a una sfortunata semisovrapposizione di frequenze, una sorta di effetto moiré mentale, causato da qualcosa di inconsueto nelle mie onde mentali, che interagiva con il programma. «Un’anomalia», disse. «Dovuta a una resistenza.» Il tono era d’accusa. Io sentii di nuovo montare la collera e dissi a lui e ai due inservienti che se la loro maledetta macchina era guasta, non dovevano dare la colpa a me, ma ripararla oppure chiuderla, e lasciare che i turisti sperimentassero le bellezze di Uni sulla loro carne dalla solidità, dal colore e dalla resistenza variabili.
Arrivò anche la direttrice, una donna corpulenta dai capelli rossi e dalla pelle bianca, che non indossava alcun vestito, solo gli stivali. I due inservienti portavano gonnellini e stivaloni. La cameriera che passava l’aspirapolvere era invece una palla di gonne, calzoni, giacche, sciarpe e veli. A quanto pareva, quelli più alti di rango erano gli uñiati, che indossavano meno vestiti. Ma in quel momento non avevo interesse per i loro usi e costumi. Fissai con ira la direttrice. Lei mi guardò con aria falsamente servile e mi offerse il tipo di scusa-accordo minaccioso caratteristico di quel tipo di persone, che significa: «Prendi quello che ti offro, ti conviene non fare storie».
Sarei stata loro ospite all’ostello o in qualunque altro albergo da me scelto su Uni, trasporto gratuito a mezzo treno fino alla pittoresca cittadina di J!ma, biglietti omaggio per i musei, il circo, la fabbrica di insaccati, ogni sorta di agevolazioni, che lei elencò meccanicamente, finché non la interruppi.
«No, grazie, ne ho avuto abbastanza di Uni e me ne vado immediatamente. Devo prendere il mio volo per Mem-fish.»
«E come fa?» domandò lei, con un sorriso sgradevole.
A quella semplice domanda mi sentii correre lungo la schiena un brivido di terrore, come se fossi finita nell’acqua di scioglimento del mio iceberg. Il mio corpo si paralizzò, respiro e pensiero si bloccarono.
Sapevo come ero arrivata laggiù, nel modo con cui avevo raggiunto gli altri piani: aspettando nell’aeroporto, naturalmente.
Ma l’aeroporto era sul mio piano, non su quello di Uni. E da laggiù non sapevo come fare ritorno. Rimasi impietrita, come si usa dire.
Fortunatamente la direttrice era ansiosa di liberarsi di me. Quel che il translatomat aveva tradotto E come fa? era una frase convenzionale, del genere di Come mi dispiace, che le labbra carnose ma serrate della direttrice avevano lasciato incompiuta. La codardia, che si era fatta subito viva al segnale sbagliato, aveva bloccato il mio cervello, cancellato tutta la mia memoria, proprio come basta la paura di scordarmi un nome per farmi immancabilmente dimenticare il nome della persona che devo presentare a un’altra.
«La sala d’attesa è da questa parte», mi disse la direttrice e mi riportò indietro, lungo l’atrio. I suoi lombi nudi si muovevano con un dondolio pesante e malevolo.
Naturalmente tutti gli hotel e locande dell’Agenzia Interplanaria hanno una sala d’attesa esattamente simile a quella di un aeroporto, con file di sedie di plastica imbullonate al pavimento e un’orribile tavola calda priva di sedili che è chiusa, ma che puzza di sego rancido. Un uomo dalle guance cascanti che ha il raffreddore e che te lo attacca siede accanto te, il tabellone delle partenze e degli arrivi previsti, che cambiano talmente in fretta che non sei mai sicuro se tra le migliaia di annunci hai trovato il tuo aeroplano, anche se quando trovi il numero del volo scopri che hanno cambiato il cancello d’imbarco, cosa che significa che dovresti essere in un altro corridoio, e la tua ansia presto sale a un livello operativo… ed eccoti di nuovo nell’aeroporto di Denver, seduta su una sedia di plastica imbullonata, accanto a un uomo grasso e catarroso che legge una rivista chiamata L’usuraio di successo, tra la puzza del grasso rancido, i gemiti disperati di un bambino di due anni, e la voce, enormemente amplificata, di una donna che, con l’occhio della mente, mi immagino grassa, bianca di pelle, con i capelli rossi, nuda, ma con gli stivali, la quale annuncia che il volo delle quarenti per Mem-fish è stato cancellato.
Ero lieta di essere tornata al mio piano. Non volevo più andare a est, adesso. Volevo andare a ovest. Trovai un volo per la bellissima, tranquilla, sana Los Engels e mi recai laggiù. Nell’hotel di quella città feci per prima cosa un lungo bagno, con l’acqua molto calda.
So che parecchia gente è morta di arresto cardiaco a causa dell’eccessiva temperatura del bagno. Ma accettai il rischio.