7. IL CONSIGLIO

Ero steso supino, con la sua testa sulla spalla, e non pensavo a niente. Le tenebre che riempivano la camera prendevano vita. Udivo dei passi. Le pareti sparivano. Qualcosa si accumulava sopra di me, sempre più alto e senza limite. Trafitto da parte a parte, rinserrato senza essere toccato, ero coagulato nelle tenebre, ne sentivo la trasparenza acre, che sostituiva l’aria. Molto lontano udii il mio cuore. Chiamai a raccolta tutta l’attenzione, tutte le forze residue, nell’attesa dell’agonia. Non venne. Rimpicciolivo, e l’invisibile cielo senza orizzonte, spazio informe privo di nuvole e di stelle, si allontanava, si ampliava, cresceva, prendendomi come centro. Cercai di rintanarmi, là dov’ero sdraiato, ma non c’era più niente sotto di me. Con le mani mi coprii il viso. Non l’avevo più.

Le dita, chiudendosi, vi passarono attraverso. Volevo gridare, urlare… La camera era grigioazzurra. Gli arredi, gli scaffali, gli angoli erano come isolati fra larghe strisce opache, informi e senza colore. Un bianco più chiaro della perla appariva in silenzio da dietro la finestra. Avevo il corpo inzuppato di sudore, guardai di lato, lei mi stava osservando.

— Ti si è intorpidito il braccio?

— Cosa?

Alzò la testa. Aveva gli occhi dello stesso colore della camera, grigi, che lucevano fra le ciglia nerissime. Sentii il calore del suo sussurro prima di capirne le parole.

— No. Ah, sì.

Le posai la mano sulla spalla. Il contatto mi elettrizzava.

Con l’altra mano l’attirai lentamente a me.

— Hai fatto un brutto sogno?

— Un sogno? Sì, un sogno. E tu non hai dormito?

— Forse no, non lo so. Non avevo sonno. Tu, però, dormi ancora un po’. Perché mi guardi così?

Socchiusi gli occhi. Sentivo il battito regolare del suo cuore contro il mio, che batteva un po’ più lentamente. «Accessorio di scena» pensai. Ma non mi meravigliavo più di niente, neanche della mia stessa indifferenza. Ormai mi ero lasciato alle spalle la paura e la disperazione. Ero arrivato lontano, oh, così lontano nessuno era mai andato. Le mie labbra le sfiorarono il collo, scesero giù fino alle piccole cavità fra i tendini, lisce come l’interno di una conchiglia. Anche qui sentivo la pulsazione.

Mi sollevai, appoggiandomi sul gomito. Niente aurora, niente dolcezza dell’alba. Un bagliore di un azzurro elettrico abbracciava l’orizzonte. Il primo raggio scoccò attraverso la camera come un dardo e i suoi riflessi giocarono su tutto.

Nello specchio, sulle maniglie, sui tubi di nichel si infransero i riflessi dell’arcobaleno, sembrava che la luce si precipitasse su ogni superficie liscia per conquistare nuovo spazio, per far saltare in aria la camera. Mi voltai. Le pupille di Harey si erano contratte. L’iride grigia dei suoi occhi si alzò fissandosi sul mio viso.

— E’ già giorno? — chiese con voce spenta. Era fra sonno e veglia.

— Qui è sempre così, cara.

— E noi?

— Noi, che cosa?

— Staremo qui ancora a lungo?

Mi venne quasi da ridere. Ma quando udii la voce turbata che mi uscì dal petto, non aveva nulla di una risata. — Penso che staremo qui a lungo. Ti spiace?

Mi fissava senza muovere ciglio. Batteva le palpebre, in genere? Non ne ero sicuro. Tirò su la coperta e scorsi sul suo braccio il minuscolo, roseo segno dell’iniezione.

— Perché mi guardi?

— Perché sei bella.

Sorrise. Ma solo per cortesia, per ringraziarmi del complimento. — Veramente? E’ che mi guardi, come se tu… come se io…

— Cosa?

— Come se tu cercassi qualcosa.

— Storie!

— No, è come se tu pensassi che ho, o che ti ho, taciuto qualcosa.

— Ma no.

— Se neghi a questo modo, allora è vero. Ma fa’ come vuoi.

Da dietro le lastre avvampanti veniva un’incandescenza azzurro smorto. Facendomi schermo con la mano, cercai gli occhiali. Erano posati sul tavolo. Inginocchiato sul letto, li infilai e vidi la sua immagine riflessa nello specchio. Aspettava qualcosa. Quando mi sdraiai nuovamente al suo fianco, mi sorrise.

— E per me?

Di colpo capii.

— Gli occhiali? — Mi alzai e cominciai a cercare nei cassetti del tavolino sotto la finestra. Ne trovai due paia, erano grandi. Glieli diedi. Li provò, uno dopo l’altro. Le cadevano fino alla metà del naso.

Con un lungo cigolio cominciavano a chiudersi le saracinesche delle finestre. In un secondo, all’interno della stazione, che in quel momento era simile a una tartaruga che si ritira nel suo guscio, dominò la notte. A tentoni le tolsi gli occhiali e assieme ai miei li misi sotto il letto.

— Cosa faremo? — domandò.

— Ciò che si fa di notte. Dormiremo.

— Chris.

— Cosa?

— Ti faccio un nuovo impacco?

— No, non occorre… non ce n’è bisogno, cara.

Nel dirle questa parola, non mi era chiaro se fosse simulazione; ma di colpo, nel buio, abbracciai ciecamente le sue piccole spalle e, sentendole tremare, credetti in lei. Insomma, non so, tutt’ ad un tratto mi sembrò che lei non m’ingannasse, e che invece fossi io a ingannarla, poiché lei in fondo era solo se stessa.

Dormii a tratti, nel dormiveglia mi coglievano dei crampi.

Il martellamento del cuore si placava pian piano. La abbracciavo più stretta, stanco morto, e lei mi toccava la faccia, la fronte, molto delicatamente, per vedere che non avessi la febbre. Era Harey. Non poteva esisterne un’altra più genuina.

Dopo questo pensiero, in me si produsse un cambiamento: smisi di lottare e quasi immediatamente mi addormentai.

Mi svegliò un leggerissimo tocco. Un senso di refrigerio mi cingeva la fronte. Ero sdraiato con la faccia coperta da qualcosa di umido e leggero che si alzò lentamente. Vidi la faccia di Harey chinata su di me. A due mani strizzava la garza su una ciotola di porcellana. Di fianco c’era la crema contro le bruciature. Mi sorrise.

— Che sonno pesante hai — mi disse, mettendomi di nuovo la garza. — Ti fa male?

— No.

Mossi la pelle della fronte, effettivamente le bruciature non mi davano fastidio. Harey era seduta sulla sponda del letto, avvolta in un accappatoio da uomo a strisce bianche e arancione, i suoi capelli neri cadevano sciolti sul colletto. Le maniche erano rimboccate fino al gomito. Avevo una fame terribile, non toccavo cibo da venti ore. Quando Harey terminò le sue cure sul mio viso, mi alzai. Il mio sguardo cadde subito su due vestiti identici; bianchi con i bottoni rossi, posati l’uno accanto all’altro: il primo, quello che io stesso avevo tagliato per aiutarla a toglierselo; il secondo, con il quale era tornata il giorno prima. Questa volta lei stessa aveva tagliato con le forbici la cucitura. Disse che sicuramente la cerniera si era bloccata.

Quei due vestiti erano la cosa più difficile da sopportare fra tutte quelle capitate fino ad allora. Harey stava mettendo in ordine l’armadietto con i medicinali; le volsi furtivamente le spalle e mi morsi a sangue la mano. Senza staccare gli occhi da quei due abiti, o meglio da quell’abito duplice, cominciai a retrocedere verso l’uscita. L’acqua usciva dal rubinetto rumorosamente. Aprii la porta e la chiusi con molta cautela, sgattaiolando silenziosamente nel corridoio. Udivo debolmente il rumore dell’acqua che scorreva e il tintinnio delle bottiglie, e a un tratto ogni rumore cessò.

Nel corridoio erano accese le lunghe lampade da soffitto, una piccola macchia di luce si rifletteva sulla superficie della porta, e io aspettavo, a denti stretti, con la maniglia tra le dita, pur se prevedevo che non sarei riuscito a trattenerla. Un colpo improvviso quasi me la tolse di mano, ma la porta resistette e non si aprì, vibrò soltanto, poi scricchiolò terribilmente. Mollai la presa impietrito e retrocessi. A quella porta stava accadendo una cosa incredibile: la sua superficie di plastica liscia cominciò a curvarsi e a gonfiarsi verso l’interno della camera. Lo smalto si sbriciolò, scoprendo l’acciaio dell’intelaiatura che si arcuava sempre più.

Di colpo capii: invece di spingere la porta, che si apriva verso il corridoio, lei cercava di aprirla tirandola verso di sé.

Il riflesso della luce sulla superficie si deformò come in uno specchio concavo, si udì un forte schianto e la lastra piegata si ruppe. Contemporaneamente, la maniglia si staccò con tutta la serratura e cadde sul pavimento della stanza. Dall’apertura spuntarono un paio di mani insanguinate che lasciavano lunghe tracce rosse sullo smalto. La porta si era spezzata in due parti appese di sbieco ai cardini, e una creatura biancoarancione con un viso livido come una morta mi si gettò sul petto singhiozzando.

Questo spettacolo mi inchiodò dov’ero, non tentai nemmeno di fuggire. Harey tentava convulsamente di riprendere il respiro, batteva il capo contro la mia spalla e faceva volare i capelli; quando l’abbracciai, sentii che mi crollava tra le mani. La portai nella stanza, passando di fianco alla porta distrutta, e la posai sul letto. Aveva le unghie rotte e tutte insanguinate. Quando le girai la mano, vidi che la palma era scarnificata. La fissai in viso, i suoi occhi mi attraversavano, senza espressione.

— Harey?

Mi rispose con un brontolio inarticolato.

Le avvicinai un dito all’occhio. La palpebra si chiuse. Andai all’armadietto dei medicinali. Il letto scricchiolò. Mi voltai. Si era levata a sedere e guardava con spavento le mani insanguinate.

— Chris — gemette. — Io… io… che cosa mi è successo?

— Ti sei ferita cercando di sfondare la porta — dissi seccamente. Avvertii qualcosa sulle labbra, specialmente sul labbro inferiore, come se ci fossero delle formiche. Lo trattenni con i denti.

Harey osservò un momento quei pezzi di porta scheggiati e tornò con lo sguardo verso di me. Le tremò il mento, vidi lo sforzo con il quale cercava di dominare la paura. Tagliai alcuni pezzi di garza, presi dall’armadietto la polvere per le ferite e tornai verso il letto. Tutto ciò che portavo in mano mi cadde di colpo, la boccetta di vetro col liquido gelatinoso si ruppe, ma non mi chinai neppure, non era più necessario.

Sollevai le sue palme. Aveva ancora tracce di sangue secco sulle unghie, ma le ferite erano scomparse, la pelle appariva più chiara, più giovane, più rosea. La cicatrice spariva quasi a vista d’occhio.

Sedetti, le accarezzai il volto e cercai di sorridere; non posso dire di esserci riuscito.

— Perché l’hai fatto, Harey?

— No. Sono stata… io? — Con lo sguardo indicava la porta.

— Sì. Non ti ricordi?

— No. Ossia, mi sono accorta che non c’eri e mi sono spaventata molto e…

— E allora?

— Ho cominciato a cercarti, ho pensato che forse eri nel bagno… Mi ero accorta che l’armadio mi bloccava la vista del bagno.

— E poi?

— Sono corsa verso la porta.

— E allora?

— Non ricordo. Qualcosa dev’essere successo…

— Che cosa?

— Non lo so.

— Che cosa ricordi? Cos’è successo dopo?

— Sedevo qui, sul letto.

— Il fatto che ti ho portata io, non lo ricordi?

Esitò. Gli angoli della bocca si abbassarono, il viso appariva pieno di tensione. — Mi sembra. Forse. Non lo so.

Mise i piedi a terra e si alzò. Si avvicinò alla porta distrutta.

— Chris!

La cinsi tra le mie braccia standole alle spalle. Tremava.

Di colpo si girò cercando i miei occhi.

— Chris — sussurrò. — Chris.

— Calmati.

— Chris, se sono stata io, Chris, sono epilettica?

Epilettica, mio Dio! Mi veniva da ridere.

— Macché, amore. Semplicemente, qua, la porta, sai, sono così queste porte…

Lasciammo la stanza nel momento in cui si aprivano le saracinesche col solito rumore, mostrando l’immergersi del disco solare nell’oceano.

Mi diressi verso il piccolo locale della cucina, che era all’altra estremità del corridoio. Mi affacciai insieme ad Harey, rovistando nei cassetti e nei frigo. Mi accorsi subito che non era capace di cucinare, come me. Mangiai il contenuto di varie scatolette e bevvi parecchie tazze di caffè.

Harey mangiava anche lei, ma così come ogni tanto mangiano i bambini, per far piacere ai grandi: senza sforzo ma meccanicamente, con indifferenza.

Ci dirigemmo verso una piccola sala operatoria, accanto alla cabina radio: avevo un nuovo piano. Le dissi che desideravo sottoporla a un controllo medico generale. La feci sedere su una poltrona e presi da uno sterilizzatore una siringa con l’ago. Sapevo dove si trovavano le cose quasi a memoria per averlo imparato durante il periodo di addestramento a terra. Estrassi una goccia di sangue dal suo dito, feci un vetrino, lo asciugai sotto l’aspiratore e lo sottoposi a una pioggia di ioni d’argento sottovuoto. Questo lavoro mi calmava.

Harey, riposando sui cuscini della poltrona, faceva vagare lo sguardo sul fitto spiegamento di apparecchi della saletta operatoria.

Il silenzio fu rotto dal ronzio del telefono interno. Alzai il ricevitore.

— Kelvin — dissi. Non distoglievo lo sguardo da Harey, che da un po’ di tempo sembrava piuttosto apatica, come esausta per le esperienze vissute nelle ultime ore.

— Sei lì, in chirurgia? Finalmente! — sentii come un sospiro di sollievo.

Parlava Snaut. Aspettai, col ricevitore incollato all’orecchio.

— Hai un ospite, vero?

— Sì.

— E sei occupato?

— Sì.

— Stai facendo certi controlli, eh?

— E con ciò? Vuoi fare una partita a scacchi?

— Ah, piantala, Kelvin! Sartorius vuole vederti. O meglio, vederci.

— Questa è una novità — risposi sorpreso. — E’ con… — mi interruppi e conclusi: — E’ solo?

— No. Mi sono espresso male. Vuole soltanto parlare con noi. Ci metteremo in collegamento a tre col videotelefono, solo che copriremo il video.

— Ah, sì? Allora perché non mi ha chiamato direttamente?

Si vergogna?

— Qualcosa di simile — brontolò Snaut. — Allora?

— Dobbiamo fissare un appuntamento? Diciamo fra un’ora.

Va bene?

— Bene.

Lo vedevo sul piccolo schermo, il suo viso non era grande più di un palmo. Per un momento mi guardò fisso negli occhi.

Alla fine parlò con una certa titubanza: — Come ti va?

— Discretamente. E a te?

— Un po’ peggio, penso. Potrei…

— Vuoi venire da me? — Avevo indovinato. Guardai Harey.

Aveva la testa inclinata sul cuscino ed era sdraiata con una gamba sull’altra, giocando, annoiata, con una pallina d’argento che era attaccata con una catenella di fianco alla poltrona.

— Lascialo! Mi senti? — mi giunse la voce irritata di Snaut.

Vidi sul monitor il suo profilo. Il resto non lo sentii perché coprì il microfono con le mani, scorgevo solo le sue labbra muoversi.

— No, non posso venire. Forse più tardi. Allora tra un’ora — disse poi in fretta, e il video si spense.

Attaccai il ricevitore.

— Chi era? — domandò Harey senza interesse.

— Un tale Snaut. Un informatico. Non lo conosci.

— Durerà ancora a lungo?

— Ti annoi? — le chiesi. Collocai nel cassetto del microscopio a neutroni il primo preparato della serie e premetti via via la fila di bottoni variamente colorati. I campi di forza ronzavano sordamente.

— Non ci sono grandi divertimenti, qua, e se non ti basta la mia compagnia, pazienza — continuai, prolungando distrattamente la pausa tra una parola e l’altra; allo stesso tempo presi tra le mani la testata nera del microscopio, la tirai verso di me e premetti gli occhi sulla soffice feritoia di gomma. Harey disse qualcosa che però non mi raggiunse. Vedevo dall’alto, in ripido scorcio, un gran deserto inondato di luce argentea. Immersi in questa, e circondati da una specie di nebbia, c’erano dei massi piatti, sgretolati ed erosi: i globuli rossi. Senza staccare gli occhi dall’oculare, mettevo sempre più a fuoco l’obiettivo, penetrando a poco a poco nel fondo di quel campo visivo argentato. Al tempo stesso, con la mano sinistra, giravo la manopola che regolava il supporto. Quando trovai il masso erratico di un globulo rosso, isolato, cominciai ad aumentare l’ingrandimento. L’eritrocito era leggermente incurvato nel mezzo e aveva l’aspetto di un cratere roccioso circolare, con ombre nette e nere nel margine interiore dell’anello. Questo margine, irto di cristalli d’argento, sfuggì dal campo del microscopio. Apparve la sua struttura di amminoacidi: anelli atrofizzati e distorti dai contorni leggermente intorbidati visti come attraverso un’acqua opalescente. Fisso su una delle catene di albumina rovinate, muovevo leggermente la vite per aumentare la visuale. Di lì a un attimo sarebbe dovuto apparire il limite ultimo di quel viaggio nelle profondità. L’ombra appiattita di una molecola riempì tutto il campo, divenne sfumata.

Però non successe niente. Avrei dovuto vedere, in quella nebbia, degli atomi vibranti come una distesa di erba tremula, ma non c’erano. Il campo visivo era tutto argentato. Mossi la vite sino alla fine. Crebbe il ronzio, ma non vidi nient’altro. Il suono ripetuto di un segnale d’allarme mi indicò che l’apparecchio era in sovraccarico. Osservai ancora un attimo quel deserto argenteo e staccai la corrente.

Guardai Harey. Apriva in quel momento la bocca per uno sbadiglio, ma lo cambiò abilmente in un sorriso.

— Come sto? — chiese.

— D’incanto — dissi. — Penso che… non potresti stare meglio.

Continuavo a guardarla, sentendo di nuovo quel formicolio sul mento. Che cos’era successo? Che cosa significava?

Questo corpo, apparentemente delicato e fragile, in realtà indistruttibile, risultava alla fine composto di niente? Picchiai col pugno il corpo cilindrico del microscopio. Forse era difettoso? Forse i campi non si mettevano a fuoco…? Non sapevo se l’apparecchiatura fosse efficiente. Ero passato attraverso tutti i gradi, le cellule, i conglomerati di amminoacidi, le molecole; tutto sembrava uguale a milioni di preparati che avevo già visto. Ma l’ultimo passo non dava alcun esito.

Le prelevai del sangue da una vena e lo versai in un cilindro. Lo suddivisi in provette e mi misi ad analizzarlo. Impiegai un tempo maggiore del previsto, avevo un po’ perso la mano. Le reazioni erano normali. Tutte. Solo che…

Versai sulla macchia rossa una goccia di acido concentrato. Fumò, la goccia divenne grigia, si coprì di uno strato di spuma sporca. Decomposizione. Denaturalizzazione. Dopo, dopo! Presi in mano la provetta. Mi girai per prenderne un’altra, e, quando ritornai a guardarla, quel vetro sottile quasi mi cadde dalle dita. Sotto lo strato della schiuma sporca si riformava uno strato rosso scuro. Il sangue bruciato dall’acido si rigenerava! Era un’assurdità, era impossibile!

— Chris! — udii come da molto lontano. — Telefono, Chris!

— Cosa? Ah, sì, grazie. — Il telefono squillava ininterrottamente già da un po’, ma non l’avevo sentito.

Alzai il ricevitore. — Kelvin.

— Snaut. Ho inserito la linea in modo tale che si possa parlare contemporaneamente in tre.

— La saluto, dottor Kelvin — disse la voce alta e nasale di Sartorius. Suonava come se il suo proprietario stesse salendo su un traballante podio per conferenze, sospettoso e vigile, cercando di dominarsi.

— I miei rispetti, signor dottore.

Mi veniva da ridere, ma non ero sicuro che avessi motivo di abbandonarmi all’allegria. Che cosa avevo da ridere, in fin dei conti! Tenevo qualcosa in mano: la provetta col sangue.

La scossi. Era coagulato. Forse un momento prima avevo avuto un’allucinazione? Forse mi era solo sembrato?

— Volevo esporvi, egregi colleghi, certe questioni che hanno attinenza con… i fantasmi. — Udivo Sartorius e non l’udivo. Come se cercasse di imporsi alla mia percezione. Mi difendevo da quella voce, continuavo a fissare la provetta col sangue coagulato.

— Chiamiamole creazioni F — disse rapido Snaut.

— Ah, va bene.

In mezzo al video una linea verticale indicava che si ricevevano contemporaneamente due canali; sui due lati avrebbero dovuto trovarsi le facce dei miei interlocutori. Il monitor era buio e solo una linea di contorno illuminata testimoniava che l’apparecchio era in funzione.

— Ognuno di noi ha fatto ricerche diverse… — Ancora quella stessa prudenza, nella voce nasale dell’interlocutore. Un momento di silenzio. — Forse è opportuno che uniamo tutte le nostre informazioni e poi parlerò di ciò che sono riuscito a ottenere personalmente… Forse possiamo cominciare da lei, dottor Kelvin…

— Io? — dissi. Di colpo sentii lo sguardo di Harey. Misi la provetta sulla tavola, facendola rotolare sotto il portaprovette di vetro, e sedetti su uno sgabello molto alto a tre gambe, che avevo avvicinato col piede. In un primo momento pensai di sottrarmi; ma, con mia stessa sorpresa, dissi: — Bene. Una piccola conferenza? Bene! Non ho fatto quasi niente finora, ma posso parlare. Un preparato istologico e qualche reazione. Una microreazione. Ho avuto l’impressione che…

Fino a quel momento non avevo idea di quel che avrei detto. Di colpo, qualcosa parve aprirsi dentro di me. — Tutto è nella norma, ma questo è camuffamento. Mascheramento. In un certo senso, si tratta di una supercopia: di una ricostruzione, più perfetta dell’originale. Ciò significa che dove nell’uomo troviamo alla fine della granulosità, il confine della divisione strutturale, qua il cammino continua grazie alla presenza di materiale subatomico!

— Un momento. Un momento. Come dobbiamo interpretare questa affermazione? — indagò Sartorius.

Snaut non parlò. Forse era suo il respiro accelerato che si udiva nel ricevitore? Harey guardò dalla mia parte. Mi resi conto che nell’eccitazione avevo quasi gridato le ultime parole. Mi calmai, mi curvai sul mio scomodo sedile e chiusi gli occhi. Come esprimermi?

— L’elemento strutturale ultimo dei nostri corpi è l’atomo.

Penso che le creazioni F siano formate da particelle più piccole dei semplici atomi. Molto più piccole.

— Mesoni…? — interloquì Sartorius. Non era affatto sorpreso.

— No, non sono mesoni… i mesoni si vedrebbero. Il potere risolutivo dell’apparecchio che ho qui raggiunge dal decimo al ventesimo di angstrom, vero? Ma alla fine non si vede niente. Quindi non sono mesoni. Forse neutrini.

— Come se l’immagina, lei? Poiché i conglomerati di neutrini non sono stabili…

— Non lo so. Non sono un fisico. Forse sono fissati da un campo magnetico. Non me ne intendo. A ogni modo, se è come dico, il materiale per la costruzione è composto da particelle circa diecimila volte più piccole degli atomi. Ma non è tutto. Se le molecole di amminoacidi e le cellule fossero costituite da questi microatomi, allora dovrebbero essere più piccole. E anche i globuli, i corpuscoli, tutto. Ma non è così.

Ne consegue che tutto, la proteina, le cellule, il nucleo delle cellule, sono solo una maschera. La vera struttura, responsabile del funzionamento dell’ ospite è nascosta più in fondo.

— Ma, Kelvin! — gridò quasi Snaut.

M’interruppi spaventato. Avevo detto ospite? Sì, ma Harey non l’aveva udito. E, al caso, non avrebbe capito. Guardava fuori dalla finestra, con la testa posata su una mano, e il suo profilo netto e minuto si stagliava sull’alba purpurea.

I miei interlocutori telefonici tacevano. Udivo dei respiri lontani.

— C’è qualcosa di vero in questo — borbottò poi Snaut.

— Sì, è possibile — aggiunse Sartorius. — Abbiamo solo l’ostacolo del fatto che l’oceano non è costituito dalle ipotetiche particelle di Kelvin. E’ costruito con atomi normali.

— Forse riesce a sintetizzarle — osservai. Improvvisamente mi colse l’apatia. Quel discorso non era affatto divertente.

Era inutile.

— Ciò spiegherebbe l’incredibile resistenza — borbottò Snaut. — E la rapidità di rigenerazione. Forse, anche, recano in sé una fonte energetica, non hanno bisogno di mangiare…

— Domando la parola. — Era Sartorius. Non lo potevo soffrire. Se almeno si fosse spogliato della parte di cui si era investito! — Desidero sollevare la questione della motivazione.

Motivazione dell’apparizione delle creazioni F. La imposterei così: che cosa sono le creazioni F? Non sono persone, e nemmeno copie di certe persone, ma proiezioni materializzate di ciò che, a proposito di una certa persona, pensa il nostro cervello.

L’esattezza della definizione mi colpì. Quel Sartorius, per quanto antipatico, non era poi così stupido.

— Bene — ripresi. — Ciò spiegherebbe perché sono apparse determinate, e non altre, pers… creazioni. Sono state selezionate le tracce mnemoniche più fisse, le più isolate dalle altre; ma, naturalmente, nessuna traccia può essere completamente isolata dalle altre che compongono la memoria. Nel momento della copia rimanevano, e possono essere stati assunti, dei residui di altre tracce casualmente contigue. Perciò il nuovo arrivato dimostra di avere una conoscenza più estesa, di cui non potrebbe essere in possesso la persona autentica, della quale esso vuole essere il duplicato…

— Kelvin! — disse di nuovo Snaut. Mi colpì il fatto che egli recalcitrasse alle mie parole imprudenti. Invece pareva che Sartorius non se ne preoccupasse affatto. Voleva dire che il suo ospite era di natura meno perspicace di quello di Snaut?

Per un momento m’immaginai al fianco dell’esimio dottor Sartorius la figura di un piccolo cretino.

— Certo, lo abbiamo infatti notato — rispose lui. — Ora, per ciò che riguarda le motivazioni dell’apparizione delle creazioni F… La prima idea che si presenta spontaneamente è quella che venga condotto un esperimento su di noi. Sarebbe comunque un esperimento assai… misero. Noi, quando sperimentiamo, ricaviamo un insegnamento dai risultati, e in primo luogo dagli errori, così che, nelle successive ripetizioni, introduciamo delle rettifiche… Qui non se ne parla nemmeno. Queste creazioni F riappaiono da capo… non corrette… non attrezzate contro le nostre… prove di eliminazione…

— In una parola, non c’è un dispositivo compensatore a feedback, come direbbe il dottor Snaut — osservai. — Che cosa risulta da questo?

— Soltanto il fatto che, se fosse un esperimento, sarebbe… un pasticcio, cosa assai improbabile. L’oceano è… molto preciso. Lo dimostra, fra l’altro, la costituzione a doppio livello delle creazioni F. Fino a un certo limite si comportano come si comporterebbero… i veri…

Non riusciva a uscirne fuori.

— Gli originali — disse in fretta Snaut.

— Sì, gli originali. Ma quando la situazione supera le normali possibilità medie del… ehm… originale… subentra come una «disconnessione di coscienza» della creazione F e affiora direttamente un altro meccanismo, inumano…

— E’ vero — dissi — ma, in questo modo, formiamo un catalogo dei comportamenti di queste… queste creazioni, e nient’altro. E’ completamente inutile.

— Non ne sono troppo sicuro — protestò Sartorius. Capii a un tratto che cosa mi dava fastidio, in lui: non parlava, no; teneva una conferenza, come in una sessione dell’Istituto.

Forse non riusciva a esprimersi in altro modo. — Qui entra in gioco la questione dell’individualità. L’oceano non ha alcuna idea in proposito. Dev’essere così. Ritengo, cari colleghi, che il lato per noi… ehm… più scabroso e sconcertante dell’esperimento gli sfugga completamente, essendo fuori dei limiti della sua comprensione.

— Lei pensa che ciò non sia intenzionale…? — domandai.

Questa affermazione mi lasciava un po’ stupito, ma dopo una breve riflessione mi accorsi che non si poteva escluderla.

— Sì. Non credo assolutamente che ci sia perfidia, malizia o volontà di colpire… contrariamente al collega Snaut.

— No, non gli attribuisco nessun sentimento umano — intervenne Snaut per la prima volta. — Ma potete forse dirmi come si spiegano questi continui ritorni?

— Forse è stato messo in moto un processo che sa solo ripetersi, come un disco — dissi con un pizzico di ironia, per infastidire Sartorius.

— Gentili colleghi, cerchiamo di non disperderci — intervenne con la sua voce nasale il dottore. — Non è tutto ciò che avrei voluto dire. In condizioni normali avrei considerato prematuro dare comunicazioni dei miei lavori ma, tenuto conto della situazione specifica, farò un’eccezione. Ho l’impressione, ripeto, l’impressione, che la supposizione del collega Kelvin contenga una certa parte di ragione. Mi riferisco alla sua ipotesi sulla costruzione neutrinica… Conosciamo queste strutture solo teoricamente, non sapevamo che potessero essere stabilizzate. Qui si apre una possibilità, ben definita, di neutralizzare il campo magnetico che consolida la struttura…

Da qualche tempo mi ero accorto che ciò che copriva il video di Sartorius si stava spostando: in un angolo del monitor si poteva scorgere una cosa rosea che si muoveva lentamente.

— Via di lì! Via di lì! — si udì nel ricevitore l’urlo di Sartorius. Sul video illuminato si vide tra le braccia del dottore, protette da mezze maniche da laboratorio, un disco dorato; poi si spense tutto, prima che riuscissi a capire che quel disco dorato era un cappello di paglia…

— Snaut? — dissi sospirando profondamente.

— Sì, Kelvin — rispose la voce stanca dell’informatico. Sentii in quel momento che gli volevo bene. Non m’importava affatto di sapere chi gli faceva compagnia. — Può bastare, per ora, vero?

— Penso di sì — risposi. — Senti, se puoi venire da me giù o nella mia cabina… ti va? — aggiunsi rapidamente prima che riuscisse ad attaccare il ricevitore.

— D’accordo — disse. — Ma non so quando.

E con questo finì la discussione.

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