4. SARTORIUS

Il corridoio era vuoto. All’inizio correva dritto, poi svoltava a destra. Non ero mai stato nella stazione, ma per sei settimane, sulla Terra, avevo vissuto per addestramento all’interno di una sua ricostruzione che si trovava nell’Istituto. Sapevo dove portava la scaletta d’alluminio. La biblioteca non era illuminata. Trovai l’interruttore a tentoni. Il primo volume dell’ Annuario di Solaristica con l’Appendice, non c’era. Controllai nel registro la posizione del libro: era da Gibarian, e così pure il Piccolo apocrifo.

Spensi la luce e scesi la scala. Nonostante avessi udito i passi allontanarsi poco prima, avevo paura di entrare nella cabina di Gibarian. Poteva essere tornata. Per un momento rimasi fermo davanti alla porta, poi, stringendo i denti, mi feci forza ed entrai.

La stanza illuminata era vuota. Incominciai a rovistare tra i libri sparsi per terra, davanti alla finestra; a un tratto mi avvicinai all’armadio e lo chiusi. Non sopportavo la vista di quel vuoto fra le tute. Il testo che cercavo non si trovava lì. Mi misi allora a spostare metodicamente tutti i libri, un volume alla volta, fino a che non lo scovai nell’ultimo gruppo, una pila tra il letto e l’armadio.

Nutrivo la speranza di scoprire qualche indizio, e in realtà c’era un segnalibro tra le pagine dell’indice dei nomi, dove, a matita rossa, era sottolineato un nominativo che non mi diceva niente: André Berton. Aveva due diversi rinvii. Guardai al primo riferimento e seppi che Berton era il pilota di riserva della nave di Shannahan.

La notizia successiva su di lui si trovava circa cento pagine più avanti. Subito dopo l’atterraggio, la spedizione si era mossa con estrema prudenza; ma dopo sedici giorni, visto che l’oceano plasmatico non solo non dava segni di aggressività ma si ritirava davanti a ogni oggetto che si avvicinasse e, per quanto poteva, cercava di evitare il contatto diretto con le apparecchiature e gli uomini, Shannahan e il suo assistente Timolis tralasciarono alcune misure regolamentari di sicurezza che intralciavano o rallentavano i lavori.

La spedizione si suddivise in piccoli gruppi, di due o tre persone, ognuno dei quali volava talvolta per alcune centinaia di chilometri sull’oceano; gli schermi radianti, che erano stati piazzati a difesa del terreno di lavoro, furono riportati in deposito alla base. I primi quattro giorni dopo questo cambiamento di metodo trascorsero senza incidenti, a parte alcuni inconvenienti agli autorespiratori a ossigeno delle tute spaziali, le cui valvole risultarono sensibili all’azione corrosiva dell’atmosfera tossica, e perciò si rese necessario cambiarle ogni giorno.

Il quinto giorno, ventunesimo dall’atterraggio, due scienziati, Carucci e Fechner (il primo un radiobiologo, l’altro un fisico), partirono in volo di ricognizione sull’oceano con un piccolo veicolo a due posti.

Non era un aeromobile: scivolava su un cuscino d’aria.

Poiché dopo sei ore non erano ancora tornati, Timolis, che dirigeva la base in assenza di Shannahan, diede l’allarme e mandò tutti gli uomini disponibili a cercarli.

Quel giorno, per fatale coincidenza, il collegamento radio si interruppe circa un’ora dopo la partenza dei gruppi di ricognizione; ne fu causa un’immensa macchia rossa sul sole, che bombardava di fortissime radiazioni corpuscolari gli strati superficiali dell’atmosfera. Funzionavano solo gli apparecchi a onde ultracorte, che permettevano di comunicare a una distanza massima di una trentina di chilometri. A peggiorare le cose, prima del tramonto del sole, la nebbia si infittì a tal punto che le ricerche dovettero essere sospese.

Mentre i gruppi di salvataggio tornavano alla base, uno di loro avvistò il veicolo a centoventi chilometri dalla costa.

Il motore funzionava ancora e l’apparecchio, che non appariva danneggiato, si sollevava sulle onde. Nella cabina trasparente c’era solo una persona, un uomo semisvenuto. Era Carucci.

L’aeromobile fu trasportato alla base e Carucci ricevette le debite cure mediche; la sera stessa riprese conoscenza. Non ricordava niente di quel che era accaduto se non che, proprio quando avevano deciso di tornare, si era sentito soffocare. La valvola del suo apparecchio si bloccava dopo ogni aspirazione e una piccola quantità di gas tossico penetrava ogni volta all’interno.

Fechner, nel tentativo di riparare l’apparecchio di Carucci, aveva dovuto slacciare le cinture e alzarsi. Era l’ultima cosa che Carucci ricordasse.

Questo il presumibile svolgimento dei fatti, secondo la ricostruzione degli esperti: per riparare l’apparecchio di Carucci, Fechner doveva avere aperto il tetto della cabina, poiché i movimenti gli erano impediti dalla cupola molto bassa. Era ammissibile, poiché la cabina di questi apparecchi non è stagna e serve solo come riparo dagli agenti atmosferici e dal vento. Durante tali manovre doveva essersi prodotta un’avaria nell’apparecchio di Fechner, che, in stato confusionale, era probabilmente uscito dall’abitacolo attraverso l’apertura della cupola, arrampicandosi sulla fusoliera, e quindi era caduto nell’oceano.

Questa è la storia della prima vittima. La ricerca del corpo — che avrebbe dovuto galleggiare sulle onde, dentro la tuta — non diede alcun risultato. Forse era rimasto davvero a galla, ma trovarlo in mille chilometri quadrati di quel deserto ondeggiante, costantemente coperto da strati di nebbia era un’impresa che superava le possibilità della spedizione.

Prima del tramonto — torno ai fatti precedenti — tutti gli apparecchi di salvataggio erano rientrati, eccetto il più grande, l’elicottero per il trasporto merce con il quale era uscito in volo Berton.

Si presentò alla base quasi un’ora dopo il tramonto, quando già si pensava seriamente che fosse perduto. Berton scese in evidente stato di shock; uscì dall’apparecchio da solo, e poi cominciò a correre qua e là; quando lo trattennero, prese a gridare e piangere. Una cosa stupefacente per un uomo che aveva alle spalle diciassette anni di navigazione spaziale, a volte in condizioni difficilissime.

I medici supposero che fosse rimasto intossicato dall’atmosfera del pianeta. Due giorni dopo parve che Berton avesse ritrovato un apparente equilibrio: non voleva però lasciare, nemmeno per un attimo, l’interno del razzo principale della spedizione, né avvicinarsi a un portello dal quale si vedesse l’oceano; dichiarò solo che voleva dettare un rapporto sul suo volo. Insisteva, dicendo che era un fatto della massima importanza. Questo rapporto, dopo essere stato esaminato dal consiglio della spedizione, fu giudicato frutto di un cervello colpito da intossicazione da gas atmosferici, e che non riguardasse il pianeta, ma il decorso della malattia di Berton.

La faccenda terminò lì.

Questo diceva l’Appendice. Era lecito pensare che il nocciolo della questione si potesse trovare nel rapporto stesso di Berton: che cosa aveva portato al collasso nervoso quel pilota, veterano di numerosi voli spaziali? Tornai a rovistare fra i libri, ma non riuscii a trovare il Piccolo apocrifo. Ero sempre più stanco; rimandai le ricerche al giorno successivo e lasciai la cabina. Nel passare accanto alla scaletta di alluminio notai per terra delle chiazze di luce che provenivano dall’alto. Segno che Sartorius stava lavorando ancora. Pensai che avrei dovuto vederlo.

Al piano superiore faceva un po’ più caldo. Nell’ampio e basso corridoio si sentiva una lieve corrente d’aria, le striscioline di carta sventolavano sopra le bocche del condizionatore. Una grossa lastra di vetro smerigliato, tenuta da un telaio metallico, costituiva la porta dell’ingresso principale del laboratorio centrale. Dall’interno il vetro era coperto con qualcosa di scuro; la luce filtrava solo dagli spiragli piccoli e stretti sotto il soffitto.

Spinsi la maniglia. Come prevedevo, la porta non cedette.

All’interno regnava il silenzio, si udiva solo, ogni tanto, un rumore simile al fischio sommesso di un becco a gas. Bussai: nessuna risposta.

— Sartorius! — chiamai. — Dottor Sartorius! Sono io, Kelvin, quello nuovo! Devo vederla. Per favore, mi apra la porta!

Si sentì un leggerissimo fruscio, come se qualcuno camminasse sulla carta, e di nuovo silenzio.

— Sono io, Kelvin! Avrà sentito parlare di me! Sono arrivato a bordo del Prometheus qualche ora fa! — gridai, avvicinando le labbra al punto dove la porta toccava lo stipite metallico. — Dottor Sartorius! Qua non c’è nessuno, ci sono solo io! Mi apra.

Ancora silenzio. Poi un lieve fruscio. Qualche tintinnio molto chiaro, come se una persona mettesse in ordine utensili metallici su un vassoio di ferro. Rimasi impietrito di colpo; dall’interno mi giungeva una serie di passi, come il camminare di un bambino: era un rapido, tenue passo di piccoli piedi.

O… o qualcuno lo imitava abbastanza bene, tamburellando abilmente con le dita sopra una scatola vuota, risonante.

— Dottor Sartorius! — gridai. — Mi apre o no?

Nessuna risposta, e di nuovo quel trotterellio infantile e, contemporaneamente, qualche passo svelto di uomo, ma in punta di piedi… Ma, se camminava, come poteva imitare un passo infantile? «D’altronde» pensai, incapace di dominare più a lungo la rabbia che cominciava a invadermi «che me ne importa!» Ed esplosi.

— Dottor Sartorius! Non ho volato sedici mesi per fermarmi di fronte alle vostre commedie! Conto fino a dieci. Poi faccio saltare la porta!

Ne dubitavo. La reazione a getto della pistola a gas non è molto potente, ma ero deciso a mettere in atto la mia minaccia, in un modo o nell’altro, anche a costo di andare a cercare un paio di cariche esplosive, che certamente non mancavano nei magazzini. Mi dissi che non potevo concedermi il lusso di arrendermi, cioè che non potevo continuare a giocare una partita di pazzi, con le carte truccate che la situazione mi aveva messo in mano.

Si sentì un rumore come se qualcuno lottasse o spingesse qualcosa; la tenda centrale si scostò forse di mezzo metro, un’ombra snella cadde sulla lastra opaca, come coperta di brina, e una voce leggermente rauca parlò: — Aprirò; ma lei deve promettermi che non entrerà.

— E allora perché apre? — gridai.

— Le verrò incontro.

— Bene. Prometto.

Si udì il leggero scatto della chiave girata nella serratura, poi una figura scura, che copriva metà porta, chiuse attentamente la tendina, di nuovo si svolsero alcune manovre strane; udii uno stridore, come se venisse spostato un armadietto di legno, finalmente la lastra chiara si aprì di quel tanto che bastava a far sgusciare Sartorius nel corridoio. Si piazzò davanti alla porta, coprendola con la sua persona.

Era sproporzionatamente alto e magro. Sotto la maglia color crema il suo corpo sembrava fatto di sole ossa. Aveva al collo un fazzoletto nero; dalle spalle gli penzolava il camice protettivo da laboratorio, bruciato dai reagenti. Teneva piegata da una parte la testa straordinariamente stretta. Gli occhiali scuri gli coprivano quasi mezza faccia, così che non potevo vedere i suoi occhi. Aveva la mandibola lunga, le labbra livide e grandissime orecchie azzurrastre, come se fossero state congelate. Non era rasato. Dai polsi pendeva un paio di guanti rossi di gomma antiradiazioni, appesi ai lacci.

Rimanemmo un po’ a guardarci reciprocamente con non celata avversione. I suoi radi capelli (sembrava che se li fosse tagliati da sé, con la macchinetta, a spazzola) erano color piombo; il pelo della barba era completamente bianco. La fronte era abbronzata, come quella di Snaut; ma l’abbronzatura finiva a metà altezza, come una linea di livello. Probabilmente usava sempre un cappello per stare al sole.

— Ascolto — disse infine. Mi sembrò che non gli importasse molto di quel che avevo da dirgli, ma, viceversa, che spiasse con molta ansia ciò che aveva lasciato dietro di sé, restando con la schiena appoggiata alla lastra di vetro. Per un attimo non seppi come rispondere, per non dire una stupidaggine.

— Mi chiamo Kelvin… dovrebbe avere già sentito il mio nome. Sono, voglio dire… sono stato l’assistente di Gibarian.

Il suo volto magro, tutto coperto di rughe, era privo di espressione. Sembrava quello di don Chisciotte. Avevo difficoltà a parlargli a causa degli occhiali scuri che indossava.

— Ho saputo che Gibarian… è morto. — La mia voce restò sospesa.

— Sì, l’ascolto… — disse impaziente.

— E’ stato un suicidio? Chi ha trovato il suo corpo, lei o Snaut?

— Perché per questo lei si rivolge a me? Il dottor Snaut non le ha spiegato…?

— Volevo sapere che cosa lei avesse da dirmi…

— Lei è uno psicologo, dottor Kelvin?

— Sì, perché?

— Scienziato?

— Sì. Ma a che proposito…

— Avrei detto che lei fosse un funzionario o un agente della polizia criminale. Adesso sono le due e quaranta, e lei, invece di cercare di inserirsi nel lavoro che si svolge alla stazione, non contento dei modi brutali con i quali ha cercato di introdursi nel mio laboratorio, mi interroga come se fossi un individuo sospetto.

Mi dominai con uno sforzo che mi fece sprizzare il sudore sulla fronte.

— Lei è sospetto, Sartorius! — dissi con voce soffocata. Volevo colpirlo a tutti i costi, perciò aggiunsi, rapido: — E lo sa perfettamente.

— Se lei non mi presenta immediatamente le sue scuse e non ritira ciò che ha detto, faccio un rapporto radio, Kelvin!

— Perché dovrei chiederle scusa? Per il fatto che, invece di ricevermi, e di farmi entrare, e spiegarmi quel che succede, lei si chiude barricandosi nel laboratorio? Ma lei ha forse perso completamente il cervello? Chi è lei, insomma! Uno scienziato o un povero vigliacco? Me lo dica, è in grado di rispondermi?

Non sapevo nemmeno che cosa stessi gridando. Lui non si mosse. La pelle pallida e piena di pori era imperlata di grosse gocce di sudore. Di colpo mi resi conto che non mi ascoltava affatto, non mi aveva sentito. Nascondeva entrambe le mani dietro di sé e, con tutte le sue forze, tratteneva la porta: questa vibrava leggermente, come se qualcuno facesse forza dall’interno.

— Se… ne… vada… — disse con voce bizzarra, stridula. — Per l’amor di Dio… se ne vada! Scenda sotto, verrò, farò tutto quello che vuole, ma se ne vada!

La sua voce esprimeva chiaramente un tale tormento che io, del tutto sbalordito, feci meccanicamente l’atto di alzare la mano per aiutarlo a trattenere la porta, poiché si vedeva che stentava a farlo; ma proprio allora lanciò un urlo orrendo, neanche gli avessi puntato addosso un coltello. Cominciai a retrocedere, mentre lui continuava a urlare in falsetto:

— Va’ via, va’ via — e poi ancora: — Ritorno! Ritorno! Torno subito! No, no!

Scostò la porta e si lanciò dentro; mi parve di vedere che all’altezza del suo petto passasse rapidamente una cosa dorata, come un disco brillante; dal laboratorio mi giunse un rumore sordo, la tenda si scostò da un lato, un’ombra alta si profilò sullo schermo di vetro, la tenda tornò al suo posto e non si vide più niente.

Che cosa succedeva, là dentro? Si udirono dei passi, una corsa pazza che si concluse con un terribile fracasso di vetri infranti; sentii un suono, come di un bambino che ride a crepapelle…

Mi tremavano le gambe; mi guardai intorno. Era sceso il silenzio. Sedetti sul davanzale in plastica della finestra. Rimasi lì per una quindicina di minuti, aspettando qualcosa, non so, forse ero arrivato alla disperazione, e per questo non volevo muovermi. La testa mi scoppiava. Sopra di me udii un cigolio prolungato e contemporaneamente la luce nell’ambiente divenne più intensa.

Dal mio posto vedevo solo una parte del corridoio che correva tutt’intorno al laboratorio. Questo ambiente si trovava nella parte superiore della stazione, all’interno dello scudo dell’involucro; perciò le pareti risultavano concave e inclinate, con finestre simili a feritoie, a una distanza di qualche metro l’una dall’altra; le serrande a saracinesca si erano alzate, la giornata del sole azzurro giungeva alla fine. Uno splendore accecante entrava dagli spessi vetri. In ogni listello di nichel, in ogni maniglia, brillava un piccolo sole. La porta di accesso al laboratorio — quella enorme lastra di vetro — ardeva come un braciere. Guardai le mie mani appoggiate sulle ginocchia, grigie in quella luce spettrale. Nella destra tenevo la pistola a gas; non mi ero accorto di averla estratta dalla fondina.

La rimisi al suo posto. Sapevo che non mi sarebbe bastata nemmeno una pistola a raggi gamma; che cosa avrei potuto fare? Distruggere la porta? Invadere il laboratorio? Mi alzai.

Sprofondando nell’oceano, simile a un’esplosione all’idrogeno, il disco mi rinviò un fascio di raggi paralleli quasi tangibile; quando raggiunsero la mia guancia (scendevo giù per la scaletta) fu come la bruciatura di un ferro rovente. A metà scala ci ripensai e tornai su. Controllai tutt’intorno al laboratorio. Come ho detto, il corridoio lo circondava: dopo cento passi, mi trovai davanti a un’altra porta di vetro simile a quella di prima. Non provai ad aprirla, sapevo che era chiusa.

Cercavo qualche finestrino nella parete in plastica, qualche fessura; il pensiero di spiare Sartorius non mi sembrava affatto ignobile. Volevo smetterla con le supposizioni e conoscere la verità, ma non riuscivo a figurarmi come fare. Mi venne in mente che il laboratorio era illuminato dai portellini posti sul soffitto, ciò significava che si aprivano nella corazza superiore; se fossi riuscito a raggiungere l’esterno, avrei potuto guardare dentro. Per fare questo dovevo scendere al piano inferiore per prendere la tuta e l’autorespiratore a ossigeno. Mi ero fermato davanti alla scala, rimuginando se ne valesse la pena. Era molto probabile che i portellini fossero chiusi con vetri opachi, ma che altro mi rimaneva da tentare?

Scesi al piano di mezzo. Dovetti passare davanti alla cabina radio. La porta era spalancata. Snaut stava ancora come l’avevo lasciato, nella poltrona. Dormiva. Udendo i miei passi si mosse e aprì gli occhi.

— Salve, Kelvin! — disse con voce arrochita.

Rimasi zitto.

— Sei riuscito a sapere qualcosa? — domandò.

— Sì — risposi tranquillamente. — Non è solo.

Fece una smorfia. — Ma guarda! E’ già qualcosa. Ha ospiti, dici?

— Non capisco perché non volete parlarmi. Poiché sono destinato a rimanere qua, prima o poi verrò a saperlo — dissi quasi involontariamente. — E allora, perché tutti questi misteri?

— Lo capirai quando avrai degli ospiti — mi disse. Sembrava che non gradisse la mia presenza e non avesse voglia di chiacchierare.

— Dove vai? — chiese, quando mi mossi. Non risposi. La rimessa dell’aeroporto era nelle identiche condizioni in cui l’avevo lasciata. La mia capsula bruciacchiata era ancora ritta lì, soprelevata e vuota. Mi avvicinai al ripostiglio delle tute spaziali e di colpo mi passò la voglia di quella scappatella sulla superficie della corazza. Girai sui tacchi e, per una scaletta a chiocciola, scesi nei depositi.

L’angusto corridoio era pieno di bombole e di casse impilate. Le pareti nude, metalliche, mandavano un riflesso azzurro livido. Ancora qualche decina di passi e vidi sotto la volta le tubature dell’impianto di congelamento coperte di brina bianca. Le seguii. Andavano a finire in un manicotto con un grosso collare di protezione, e attraverso di esso passavano in un locale a chiusura ermetica. Quando aprii la porta, che aveva guarnizioni di gomma larghe due palmi, m’investì un gelo che mi penetrò fin nelle ossa. Rabbrividii. Dal groviglio delle serpentine coperte di brina pendevano i ghiaccioli. E anche qui c’erano casse e contenitori, velati da uno strato gelato; gli scaffali lungo le paratie erano pieni di scatolame e di grasso in cubi gialli avvolti in plastica trasparente. Di fronte, sul fondo, la volta a botte si abbassava. Lì era appesa una tenda di stoffa pesante, che luccicava per gli aghi di ghiaccio che vi si erano formati. Ne scostai un lembo.

Su un lettino a rete d’alluminio giaceva, coperta da un tessuto grigio, una forma oblunga.

Alzai un orlo del telo e vidi il volto cereo di Gibarian. I capelli, neri con una ciocca bianca, aderivano lisci al cranio. La laringe sporgeva e sembrava sul punto di bucare la gola. Gli occhi spenti guardavano fissi la volta, all’angolo di una palpebra si era formato un ghiacciolo opaco. Il freddo che mi avvolgeva mi faceva tremare a tal punto che dovevo fare un enorme sforzo per non battere i denti. Senza lasciare la coperta, con l’altra mano toccai la sua guancia. Era come toccare un legno secco. La pelle era ruvida, irta di peli corti. Una piega che esprimeva un’infinita e sprezzante pazienza era congelata sulle sue labbra. Nel lasciar ricadere l’orlo del tessuto, vidi che da sotto le pieghe sporgevano delle perle o fave nere e allungate, in ordine di grandezza decrescente. Mi irrigidii di colpo.

Erano dita di piedi scalzi, che vedevo dalla parte della pianta; i polpastrelli ovali erano lievemente divaricati. Sotto il lembo rigonfio del sudario c’era la donna nera, appiattita contro il corpo del morto. Sembrava riposare bocconi, come immersa nel sonno. Centimetro per centimetro scostai il grosso tessuto. La testa ricoperta di capelli crespi, intrecciati a ciuffetti, era appoggiata sul braccio nero. La pelle lucida della schiena era tirata sulle vertebre della spina dorsale.

Nessun movimento animava quel corpo immenso.

Ancora una volta guardai la pianta dei suoi piedi e mi colpì una stranezza: non si erano appiattiti sotto il gran peso che dovevano sopportare, non si erano incalliti con il camminare scalzi, la pelle che li copriva era fine come quella della schiena e delle mani.

Dominai un fremito e mi piegai per toccarli; ma ciò mi risultò più difficile che toccare il cadavere. Quando vi appoggiai la punta delle dita accadde un fatto incredibile; il corpo, a una temperatura ambiente di 20 gradi sotto zero, era vivo, e si mosse. Ritirò la gamba come potrebbe fare un cane che dorme, quando lo si prende per una zampa.

«Qui gelerà» pensai; ma il corpo era calmo e non freddo; avevo ancora sulla punta delle dita la sensazione di morbidezza della sua pelle. Arretrai fin oltre la tenda, la lasciai ricadere e tornai nel corridoio.

Il caldo che mi accolse mi sembrò infernale. Le scale mi ricondussero nella rimessa dell’aeroporto. Sedetti sopra un mucchio di paracadute arrotolati, chiusi nei loro anelli, e mi presi la testa tra le mani. Mi sentivo abbattuto. Non capivo quello che mi succedeva. Ero distrutto, i miei pensieri scivolavano verso un abisso, col pericolo di precipitarvi; ma la perdita della ragione o l’annientamento mi sembravano una grazia irraggiungibile e ineffabile.

Non avevo bisogno di andare da Snaut o Sartorius, mi pareva che nessuno sarebbe riuscito a figurarsi ciò che avevo provato, visto, toccato con le mie stesse mani. L’unica via di scampo, l’unica spiegazione sembrava essere la diagnosi di follia. Dovevo essere impazzito subito dopo l’atterraggio.

L’oceano si era impadronito del mio cervello, soffrivo di un’allucinazione dietro l’altra; se così era, non dovevo sprecare energie in vani tentativi di risolvere enigmi che non esistevano in realtà, ma chiedere soccorso medico, mandare per radio un S.O.S. al Prometheus o a un’altra nave.

Accadde a questo punto l’impensato: l’idea che fossi pazzo mi calmò.

Ora capivo perfettamente le parole di Snaut, sempre ammesso che Snaut esistesse realmente e che gli avessi parlato, poiché le allucinazioni potevano essere cominciate prima.

Forse ero ancora a bordo del Prometheus, colpito all’improvviso da malattia mentale, e quel che avevo veduto era una creazione della mia mente turbata. In tal caso, cioè se ero malato, potevo curarmi, e ciò mi consentiva almeno una speranza di salvezza: una salvezza che non ero riuscito a trovare nei tentativi condotti nelle ore precedenti.

Dovevo dunque eseguire una prova generale, un esperimento logico — experimentum crucis — che mi dimostrasse se veramente ero impazzito o vittima della mia fantasia, oppure se, per quanto assurde e improbabili, le mie esperienze erano reali.

Mentre sedevo a rimuginare in preda a questi pensieri, osservavo il basamento della struttura portante della rimessa spaziale. Era un pilone d’acciaio che saliva dal pavimento, fasciato di lastre curve di un colore verde pallido. In alcuni punti la vernice era venuta via, sicuramente a causa dello sfregamento dei carrelli portarazzi che passavano da lì. Toccai l’acciaio, lo scaldai per un momento con la palma della mano. Picchiai l’orlo piatto del rinforzo. Era possibile che un’illusione raggiungesse un simile grado di realtà? Forse sì, mi risposi. In fin dei conti era il mio campo, lo conoscevo bene.

Era possibile inventare un esperimento chiave? «No» mi dissi inizialmente «poiché il mio cervello malato (ammesso che sia realmente malato) produrrà sempre le immagini che io gli chiederò.» Non solo nella malattia, ma anche nel sogno più normale, capita di parlare con persone sconosciute, e facciamo domande alle quali questi esseri immaginari danno risposte che noi udiamo. Sebbene queste persone, in realtà, siano solo creazioni della nostra stessa attività psichica, personificazione effimera e pseudoindipendente di parti della nostra psiche, fino a quando non ci rispondono noi non sappiamo quali parole usciranno dalle loro labbra. Ma sono effettivamente parole preparate da una zona particolare del nostro cervello, e dovremmo già conoscerle nell’attimo stesso in cui le inventiamo per metterle sulle labbra dei personaggi fittizi.

Qualsiasi cosa progettassi o attuassi, c’era sempre la possibilità che mi stessi comportando esattamente come accade nel sonno. Poiché sia Snaut sia Sartorius forse non esistevano in realtà, sarebbe stato del tutto inutile rivolgere a loro domande di alcun genere.

Pensai che avrei potuto assumere qualche farmaco, forse una sostanza eccitante, per esempio il peyotl, o un preparato capace di provocare visioni e allucinazioni. Se anche sotto l’effetto di quelle sostanze si fossero ripetuti i fenomeni, avrei avuto la dimostrazione che erano reali e facevano materialmente parte dell’ambiente. Ma no, pensai poi, non sarebbe stato questo il corretto esperimento chiave, poiché sapevo come agiva la sostanza che avrei preso, e l’assumere il farmaco e i suoi stessi effetti sarebbero potuti essere frutto della mia immaginazione…

Mi sembrava di essere ingabbiato in un circolo vizioso di pazzia e di non poterne uscire. Possiamo pensare solo col nostro cervello, non ci possiamo vedere dall’esterno per controllare i processi che si svolgono nel nostro corpo… di colpo mi venne un’idea, semplice ma efficace.

Mi alzai di scatto dal mucchio dei paracadute e corsi verso la cabina radio. Era vuota. Diedi un’occhiata all’orologio elettrico sulla parete. Erano quasi le quattro di notte, la notte convenzionale all’interno della stazione; fuori splendeva l’alba rossa. Misi in funzione l’apparecchio radio per collegamenti a lunga distanza e, mentre aspettavo che si scaldassero le valvole, ancora una volta cercai di ripassare mentalmente con precisione ogni fase del particolare esperimento.

Non ricordavo quale fosse il nominativo per la chiamata della stazione radio automatica del satellite in orbita attorno a Solaris, però lo trovai su una tabella appesa sopra il quadro di comando. Chiamai usando l’alfabeto Morse, e dopo otto minuti ebbi la risposta. Il satellite, o meglio il suo cervello elettronico, si annunciò con un segnale ritmico ripetuto.

Chiesi allora che mi comunicasse ogni venti secondi i meridiani interstellari della galassia che tagliava nel girare intorno a Solaris, precisando fino alla quinta cifra decimale.

Poi sedetti e aspettai la risposta. Arrivò dopo dieci minuti.

Tolsi il nastro di carta su cui era impresso il risultato e lo misi nel cassetto (badando bene a non dargli nemmeno un’occhiata); presi dalla biblioteca le colossali mappe celesti, le tabelle di logaritmi, l’almanacco del movimento quotidiano dei satelliti, qualche manuale, dopo di che mi misi a cercare la risposta alla stessa domanda. Passai circa un’ora per risolvere le espressioni; non ricordavo quando era stata l’ultima volta in cui avevo fatto tali e tanti calcoli, credo fosse stato durante l’esame di astronomia pratica.

Feci i conti sul calcolatore della stazione. Il mio ragionamento suonava in questo modo: riferendomi alle carte astronomiche, avrei dovuto ottenere cifre che non coincidevano esattamente con quelle che avevo ricevuto dal satellite.

L’approssimazione era dovuta al fatto che il satellite era soggetto a complicatissime variazioni sotto l’influsso delle forze di gravità di Solaris, non solo per i due soli che si avvicendavano, ma anche per i cambiamenti locali di peso provocati dall’oceano. «Quando avrò le due colonne di cifre» pensavo «quella fornita dal satellite e quella calcolata teoricamente in base alla carta celeste, inserirò nei miei calcoli alcune correzioni; allora entrambi i gruppi di risultati dovrebbero coincidere fino alla quarta cifra decimale; la differenza si verificherà alla quinta, e sarà quella provocata dal movimento, non calcolato, dell’oceano.

«Se queste cifre fornite dal satellite non fossero reali, ma solamente frutto della mia mente smarrita, allora non potrebbero coincidere con la seconda colonna di dati numerici. Il mio cervello» mi dicevo «è forse malato, ma non può essere capace — in nessuna condizione — di rivaleggiare, nel fare i conti, col grande calcolatore della stazione: occorrerebbero mesi di tempo. Quindi, se le cifre coincideranno… il grande calcolatore esisterà realmente, e io lo avrò usato, concretamente e non nel delirio.»

Mi tremavano le mani mentre toglievo dal cassetto il nastro di carta radiotelegrafica e lo srotolavo accanto all’altro, più largo, proveniente dal calcolatore. Entrambe le file di cifre tornavano, come avevo previsto, fino al quarto decimale.

Le variazioni avvenivano con il quinto.

Ficcai tutte le carte nel cassetto. Così era, dunque. Il calcolatore esisteva indipendentemente da me. E ciò dimostrava la realtà dell’esistenza della stazione e di tutto quel che conteneva.

Stavo già per richiudere il cassetto quando mi accorsi che era zeppo di fogli, coperti di calcoli febbrili. Li tirai fuori, e al primo sguardo capii che qualcun altro aveva fatto un esperimento simile al mio. Con questa sola differenza: che invece di chiedere al satellite i dati relativi ai meridiani, si era fatto dare la misurazione dell’albedo di Solaris a intervalli di quaranta secondi.

Non ero pazzo. L’ultima speranza si dileguava. Spensi il trasmettitore, bevvi il resto del brodo contenuto nel thermos e andai a dormire.

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