3. GLI OSPITI

Piegai in quattro, frettolosamente, gli appunti di Gibarian e li misi in tasca. Mi avvicinai lentamente al guardaroba e guardai dentro: le tute e gli altri capi di vestiario erano schiacciati e pressati in un angolo, come se qualcuno vi si fosse nascosto. Da sotto un monte di carte, sul pavimento, spuntava l’angolo di una busta. La raccolsi. Era indirizzata a me. La aprii col cuore in gola e mi costò un enorme sforzo spiegare il foglietto contenuto.

Con la sua scrittura regolare, estremamente piccola ma leggibile, Gibarian aveva annotato:

«Ann. Solar.» vol. 1, Appendice. Cfr. «Vot Separat.»

Messenger sul caso E, in Ravintzer, «Piccolo apocrifo».

Tutto qui, non una parola di più. L’andamento dei caratteri testimoniava la fretta. Era un’annotazione di una certa importanza? Quando l’aveva scritta? Dovevo raggiungere al più presto la biblioteca. Conoscevo quell’Appendice del primo Annuario di Solaristica o, meglio, sapevo della sua esistenza, senza però averla mai letta, poiché aveva un valore eminentemente storico. Di un certo Ravintzer o del suo Piccolo apocrifo non sapevo nulla, nemmeno per sentito dire.

Che fare?

Ero già in ritardo di quasi un quarto d’ora. Ancora una volta, dalla porta, girai lo sguardo all’intorno, per la stanza. Soltanto allora notai il letto, fissato verticalmente contro la parete e mascherato da una grande mappa di Solaris srotolatagli davanti. Dietro la carta pendeva qualcosa. Un registratore tascabile, nel suo astuccio. Estrassi l’apparecchio e riappesi l’astuccio, il registratore lo misi in tasca. Guardai il contatore: il nastro era quasi completamente inciso.

Giunto di fronte alla porta, mi fermai per un secondo, cercando di concentrarmi su qualsiasi rumore, nel silenzio imperante all’esterno. Niente. Aprii la porta e il corridoio mi parve un antro nero; appena mi tolsi gli occhiali, però, vidi la debole luce che veniva dal soffitto. Chiusi la porta alle mie spalle e mi diressi verso sinistra, dove si trovava la cabina radio.

Mi trovai in un locale circolare dal quale partivano a raggiera alcuni corridoi e, nell’oltrepassare la sala comune dei bagni, scorsi una forma grande e oscura, confusa nella penombra. Mi fermai come impietrito. Dal fondo di quel corridoio laterale avanzava a passo lento, dondolante, un’immensa donna di pelle nera. Intravidi il balenio del bianco dell’occhio e quasi contemporaneamente udii lo schiocco lieve dei suoi piedi scalzi. Indossava solo un gonnellino di paglia intrecciata, che aveva un bagliore giallo; i seni enormi ondeggiavano liberi e le braccia scure erano grosse come la coscia di un uomo. Mi incrociò senza degnarmi di uno sguardo, alla distanza di circa un metro, e proseguì dimenando il gonnellino di paglia, simile alle sculture neolitiche che si vedono talora nei musei di antropologia. Alla curva del corridoio svoltò e sparì nella cabina di Gibarian. Per un attimo, sulla soglia, la sua sagoma si stagliò nettamente, delineata sulla luce più intensa che si accese all’interno.

La porta si chiuse silenziosamente; tornai a essere solo.

Con la mano destra afferrai il pugno della sinistra e lo strinsi con forza, fino a far scricchiolare le giunture. Mi guardai attorno intontito. Che cos’era successo? Che cosa avevo visto?

Bruscamente, come uno schiaffo, mi colpì il ricordo degli ammonimenti di Snaut. Che cosa significava? Chi era quella Venere mostruosa? Da dove proveniva?

Feci un passo, uno solo, verso la cabina di Gibarian, e mi fermai di colpo. Sapevo bene che non sarei entrato. Con le narici allargate, inspirai l’aria. Qualcosa non andava, qualcosa non quadrava… Ah! Inconsciamente mi ero aspettato di sentire l’afrore caratteristico del suo sudore, ma in verità non l’avevo percepito, nemmeno quando mi era passata vicino.

Non so per quanto tempo rimasi fermo, appoggiato al metallo freddo della paratia. La stazione era immersa nel silenzio, l’unico rumore era sempre quello, monotono, dei compressori del condizionamento d’aria.

Mi diedi un leggero schiaffo a mano aperta sul viso e lentamente mi diressi alla cabina radio. Quando abbassai la maniglia, udii una voce forte: — Chi è?

— Sono io, Kelvin.

Snaut era seduto alla scrivania, tra una pila di cassette d’alluminio e la stazione trasmittente, e mangiava carne in scatola, direttamente dal barattolo. Mi chiesi perché avesse eletto a proprio domicilio la cabina radio.

Stavo fermo davanti alla porta, guardando intontito il movimento regolare delle mascelle di Snaut, quando mi accorsi di avere fame anch’io. Mi avvicinai agli stipetti, cercai un piatto meno impolverato degli altri, presi a mia volta una scatola di carne e sedetti di fronte a lui. Allora Snaut si alzò, recuperò un thermos da uno scaffale a muro e versò un bicchiere di brodo caldo a testa. Posò il thermos per terra, poiché sulla tavola non c’era posto, e domandò: — Hai visto Sartorius?

— No, dov’è?

— Su, di sopra.

Al livello superiore c’era il laboratorio. Continuammo a mangiare, in silenzio, fino a quando non raschiammo il fondo del barattolo vuoto. Nella cabina radio era notte. La finestra era chiusa ermeticamente, i quattro globi fluorescenti appesi al soffitto erano accesi.

Sugli zigomi di Snaut la pelle tesa era coperta di piccole vene rosse. Indossava un pullover nero, floscio e sfilacciato.

— Che cos’hai? — domandò.

— Niente. Che cosa dovrei avere?

— Sei tutto sudato.

Mi passai la mano sulla fronte. Effettivamente era coperta di sudore, doveva essere la reazione all’ultima emozione. Il mio compagno mi guardava con attenzione. Dovevo dirglielo? Avrei preferito che mi mostrasse maggiore fiducia. Che partita si giocava laggiù, contro chi e in quale incomprensibile modo?

— Fa caldo — dissi. — Pensavo che da voi il condizionamento funzionasse meglio.

— Entro un’ora si stabilizzerà. Sei sicuro che sia solo il caldo?

Mi guardava fisso negli occhi. Io continuavo a masticare con diligenza, fingendo di non accorgermene.

— Che cos’hai intenzione di fare? — mi domandò infine, quando terminammo di mangiare. Gettò alla rinfusa stoviglie e scatolette vuote nell’acquaio sotto la finestra e tornò alla sua poltrona.

— Mi adeguerò — risposi flemmaticamente. — Avete qualche programma di ricerche? Qualche nuova sollecitazione, raggi X o qualcosa del genere, no?

— Raggi X? — alzò le sopracciglia. — Come lo sai?

— Non lo ricordo adesso. Me l’ha detto qualcuno. Forse a bordo del Prometheus. Allora? State già facendo qualcosa?

— Non conosco i particolari. Era un’idea di Gibarian. L’ha messa in opera con Sartorius. Ma come fai a saperlo?

Alzai le spalle. — Non conosci i particolari? Dovresti conoscerli, è il tuo… — lasciai la frase in sospeso. Non rispose. Il miagolio dei condizionatori scemò, la temperatura si mantenne a un livello sopportabile. Nell’aria persisteva un rumore regolare, come il ronzio di un moscone. Snaut si alzò, si avvicinò al quadro di comando e cominciò a gingillarsi con le manopole, senza scopo, poiché l’interruttore generale era sullo STOP. Giocherellò per un momento e poi, senza voltare il capo, osservò: — Bisognerà rispettare alcune formalità, in proposito… sai.

— Davvero?

Si girò e mi scrutò con aria irritata. Non posso negare che volutamente cercavo di farlo uscire dai gangheri; ma poiché non capivo a che gioco stesse giocando, preferii trattenermi.

Il suo pomo d’Adamo andava su e giù, sopra lo scollo del corpetto di maglia nera.

— Sei stato da Gibarian — disse infine. Non era una domanda. Alzai le sopracciglia e lo guardai tranquillamente in faccia.

— Sei stato nella sua stanza — ripeté.

Feci una mossa impercettibile con la testa, come per dire

«può darsi» o «se lo dici tu…». Volevo che continuasse a parlare.

— Chi c’era, lì? — domandò.

Sapeva di lei!

— Nessuno. Chi poteva esserci? — risposi.

— Perché non mi hai lasciato entrare?

Sorrisi. — Perché ero spaventato. Dopo il tuo ammonimento, quando si è mossa la maniglia, l’ho trattenuta istintivamente. Perché non mi hai detto che eri tu? Ti avrei fatto entrare.

— Pensavo fosse Sartorius — rispose incerto.

— E allora?

— Cosa ne pensi di quel che è successo là dentro? — ribatté, opponendo domanda a domanda.

Esitai. — Devi saperlo meglio di me. Dov’è lui?

— Nel frigo — rispose prontamente. — L’abbiamo portato stamani, subito… tenuto conto del caldo.

— Dove l’hai trovato?

— Nell’armadio.

— Nell’armadio? Era morto?

— Il cuore batteva ancora, ma non respirava. Era agonizzante.

— Hai cercato di salvarlo?

— No.

— Perché?

Esitò. — Non ho fatto in tempo. E’ morto prima che riuscissi a stenderlo in terra.

— Era in piedi nell’armadio? Tra le tute?

— Sì.

Si avvicinò a una piccola scrivania in un angolo e ne prese un foglio di carta. Me lo porse.

— Ho steso un verbale provvisorio — mi disse. — E’ un bene che tu abbia perquisito la sua camera. Causa della morte…

Iniezione di una dose mortale di Pernostal. Sta scritto lì…

Scorsi rapidamente il breve testo.

— Suicidio… — ripetei piano. — Qual è la causa?

— Esaurimento… depressione… chiamalo come vuoi. Ne sai più di me.

— So solo ciò che vedo — risposi, e lo guardai negli occhi.

Di sotto in su, poiché era in piedi davanti a me.

— Che cosa vuoi dire, con questo? — mi domandò tranquillamente.

— Si è iniettato il Pernostal e si è nascosto nell’armadio. Sì?

Quindi non era depressione, non era esaurimento, ma un’acuta psicosi. Paranoia… certamente gli sembrava di vedere qualcosa… — dissi lentamente, guardandolo negli occhi.

Si allontanò verso il quadro di comando della radio e ricominciò a gingillarsi con le manopole.

— Qui c’è la tua firma — ripresi dopo un lungo silenzio. — E Sartorius?

— E’ nel laboratorio. Te l’ho già detto. Non si fa vedere.

Fino a… suppongo che…

— Che cosa?

— Che si sia chiuso dentro.

— Si è chiuso dentro? Ah, si è chiuso. Forse si è barricato?

— Forse.

— Snaut… — gli dissi — c’è qualcun altro nella stazione.

— L’hai visto?

Aveva inclinato la testa e mi osservava.

— Mi hai messo in guardia tu. Contro chi? Sono allucinazioni?

— Che cosa hai visto?

— E’ una persona, vero?

Taceva. Si voltò verso la paratia, come se non volesse mostrare la faccia. Tamburellò con le dita sulla lastra metallica.

Osservai le sue mani. Sulle nocche non c’erano più tracce di sangue. Di colpo ebbi un’idea brillante.

— Questa persona è reale — dissi piano, quasi bisbigliando, come se gli stessi rivelando un segreto che non doveva essere udito da altri. — E’ vero? Si può… toccarla. Si può… ferirla.

Oggi stesso l’hai vista, l’ultima volta che è passata nel corridoio.

— Come lo sai? — Non si girò. Continuava a stare fermo davanti alla parete, sfiorandola col petto, mentre io parlavo alle sue spalle.

— Prima del mio atterraggio… poco prima…

Si contrasse, come fulminato. Si voltò e vidi i suoi occhi sbarrati. — Tu! — disse. — Chi sei tu?

Sembrava quasi che volesse saltarmi addosso. Questo non me l’aspettavo. La situazione si era capovolta. Non credeva che fossi colui che dicevo di essere? Che cosa significava?

Mi guardava, atterrito. Alienazione mentale? Intossicazione?

Tutto era possibile. Ma avevo visto quella creatura: dunque, anch’io… oppure…?

— Chi era? — domandai.

Queste parole lo calmarono. Mi scrutò ancora un istante, come se non riuscisse a credermi. Già prima che aprisse bocca, sapevo di aver fatto un passo falso, e che non mi avrebbe risposto.

Lentamente sedette sulla sua poltrona, prendendosi la testa tra le mani.

— Quel che succede qui… — disse piano. — Delirio…

— Chi era? — domandai ancora una volta.

— Se non lo sai… — borbottò.

— Allora?

— Allora niente.

— Snaut — dissi — siamo sufficientemente lontani da casa.

Cerchiamo di giocare a carte scoperte. E’ già tutto così complicato.

— Che cosa vuoi?

— Che tu mi dica chi hai visto.

— E tu? — chiese con diffidenza.

— Mi ostacoli. Io ti dirò tutto e anche tu me lo dirai. Puoi essere sicuro che non ti prenderò per matto, poiché so…

— Per matto? Mio Dio — cercò di sorridere. — Non hai capito niente, amico, proprio niente… Quella sarebbe una liberazione! Se avesse pensato che si trattava di pazzia, non avrebbe fatto quel che ha fatto. Vivrebbe…

— Allora, ciò che hai scritto nella relazione è falso?

— Ma certo!

— Perché non scrivi la verità?

— Perché…? — ripeté.

Cadde il silenzio. Di nuovo brancolavo nel buio, non capivo niente; per un momento avevo pensato di riuscire a convincerlo che, con la buona volontà di entrambi, saremmo riusciti a risolvere l’enigma. Perché non voleva parlare?

— Dove sono gli automi? — domandai.

— Nei magazzini. Li abbiamo chiusi lì tutti, eccetto quelli in servizio all’aeroporto.

— Perché?

Di nuovo non rispose.

— Non vuoi dirmelo?

— Non posso.

C’era, in questo, qualcosa che non riuscivo ad afferrare.

Forse era meglio andare da Sartorius? Mi ricordai del foglietto, che subito mi parve della massima importanza.

— Come ti immagini il nostro lavoro in queste condizioni? — domandai.

Alzò le spalle con indifferenza. — Che importanza può avere?

— Ah, è così? Allora, che cosa pensi di fare?

Rimase muto. Nel silenzio si udirono dei passi di piedi nudi. Tra strumenti plastificati e nichelati, tra gli alti stipi pieni di congegni elettronici, vetri, apparecchi di precisione, quell’eco attutita di un passo indolente suonava come lo scherzo di qualche mattoide. I passi si avvicinavano. Mi alzai, guardando con la massima attenzione Snaut. Tendeva l’orecchio, con gli occhi socchiusi, ma non sembrava spaventato. Allora non era di lei che aveva paura?

— Da dove salta fuori? — domandai. Indugiava a rispondermi. — Non vuoi dirmelo?

— Non lo so.

— Bene.

Il rumore di passi si allontanò e si spense.

— Non mi credi? — disse. — Ti do la mia parola che non lo so.

In silenzio aprii l’armadio delle tute spaziali e cominciai a spostarle, spingendo da parte gli involucri pesanti e vuoti.

Come mi aspettavo, trovai appese ad alcuni ganci le pistole a gas, che servivano a muoversi in condizioni di assenza di gravità. Non erano un granché, ma pur sempre armi. Meglio di niente. Controllai il caricatore e misi a tracolla le cinghie della fondina.

Snaut mi guardava attento. Mentre regolavo la lunghezza della cinghia, mostrò in un sorriso sarcastico i denti gialli.

— Buona caccia — disse.

— Grazie mille — replicai avviandomi verso la porta. Si alzò dalla poltrona.

— Kelvin!

Lo guardai. Non sorrideva più. Non ricordavo di avere mai visto una faccia così stanca.

— Kelvin, non è… io… veramente, non posso.

Aspettai che mi dicesse ancora qualcosa, ma muoveva solo le labbra senza che ne uscisse alcun suono.

Mi girai e uscii, senza una parola.

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