6. IL «PICCOLO APOCRIFO»

Avevo la pelle ustionata sulle mani e sulla faccia. Mi ricordai che, quando avevo cercato il sonnifero per Harey (ora scoppierei a ridere, se potessi, della mia ingenuità), avevo scorto nell’armadio del pronto soccorso un vasetto di crema per le scottature. Perciò tornai nella mia camera. Aprii la porta e nella luce del tramonto rosso vidi che, nella poltrona davanti alla quale era stata inginocchiata Harey, era seduto qualcuno.

La paura mi paralizzò; fu un panico che mi spingeva a retrocedere, correre, fuggire, ma durò una frazione di secondo.

La persona alzò la testa. Era Snaut. Lo vedevo di spalle con le gambe accavallate (portava ancora quei pantaloni di tela bucati dai reagenti) e guardava certi fogli. Ce n’era tutto un fascio sopra il tavolo. Vedendomi li rimise a posto e per un momento mi guardò, cupo, da sopra gli occhiali, spinti sulla punta del naso.

Senza una parola, andai al lavandino, presi dall’armadietto la crema semiliquida e cominciai a spalmarla sui punti più bruciati della fronte e delle guance. Per fortuna non ero molto tumefatto; gli occhi, per averli chiusi tempestivamente, erano rimasti illesi. Sulle tempie e sulla mascella si erano formate delle vesciche; le bucai con un ago sterilizzato da iniezione e feci uscire il liquido sieroso. Poi applicai due pezzi di garza leggermente inumidita. Per tutto il tempo Snaut continuò a guardarmi. Lo ignorai. Quando finalmente portai a termine questi trattamenti (avevo la faccia che mi bruciava sempre di più), sedetti sull’altra poltrona, dopo avere spostato il vestito di Harey. Era un vestito comunissimo, a parte il fatto che non aveva chiusura.

Snaut, con le mani incrociate sopra le ginocchia aguzze, mi osservava critico.

— Allora, ci facciamo una chiacchierata? — mi disse quando sedetti.

Non risposi, tenendo premuti i pezzi di garza che tendevano a scivolare sulla guancia.

— Abbiamo avuto visite, eh?

— Sì — risposi seccamente. Non avevo nessuna voglia di dargli retta, su quel tono.

— E siamo riusciti a sbarazzarcene? Be’, si può dire che tu vai per le spicce.

Continuava a toccarsi la fronte, che si squamava lasciando apparire le chiazze di pelle rosea dell’epidermide nuova. Lo guardavo sbalordito. Come mai l’abbronzatura di Snaut e Sartorius, fino a quel momento, non mi aveva dato da pensare? Per tutto quel tempo avevo creduto che fosse effetto di un colpo di sole: ma nessuno si abbronza, su Solaris…

— Spero che, per cominciare, avrai proceduto con senno — mi disse, senza pensare che avevo potuto avere un’improvvisa illuminazione. — Narcotico, veleno, lotta libera o che?

— Che cosa vuoi? Possiamo essere schietti. Se hai voglia di fare il buffone, è meglio che tu te ne vada.

— Certe volte si è buffoni senza averne voglia — mi disse.

Alzò gli occhi per scrutarmi. — Non mi dirai che hai usato la corda o il martello? Non avrai buttato il calamaio come Lutero, no? Eh! — fece una smorfia. — Sei un eroe! Non hai staccato il lavandino, non hai tentato di spaccarti la testa contro il muro, niente, non hai demolito la stanza, ma semplicemente e subito, detto e fatto, hai imballato, spedito, e via!

Guardò l’orologio.

— Dovremo avere due o tre ore libere, adesso — concluse.

Mi guardava, con un sorriso antipatico. Riprese: — Su. Mi giudichi un maiale?

— Un porco fatto e finito — sottolineai.

— Sì? Tu mi avresti creduto, se te l’avessi detto? Avresti creduto una sola parola?

Non replicai.

— E’ capitato a Gibarian per primo — continuò, sempre con un ghigno. — Si chiuse nella sua cabina, e parlava soltanto attraverso la porta, e noi, puoi figurarti come l’abbiamo giudicato.

Sapevo, ma preferivo stare in silenzio.

— E’ chiaro. L’abbiamo considerato un pazzo. Ci disse qualcosa attraverso la porta, ma non tutto. Ti puoi immaginare il perché, per quale motivo nascondeva chi c’era da lui? Be’, sai: suum cuique. Ma era un vero studioso. Ci ha chiesto di concedergli una possibilità.

— Quale?

— Sperimentava, suppongo, cercava di classificare la cosa, arrivare a un ordine, risolvere. Lavorava di notte. Sai che cosa faceva? Sì, probabilmente lo sai!

— Quei calcoli — dissi. — Nel cassetto. Nella cabina radio. E’ stato lui?

— Sì, ma allora non sapevo ancora niente di tutto questo.

— Quanto è durato?

— La visita? Circa una settimana… Le discussioni attraverso la porta. Ma che cosa succedeva! Pensavamo che avesse allucinazioni, disturbi del comportamento. Gli ho dato la scopolamina.

— Come… a lui?!

— Eh, sì. La prendeva; ma non per sé. Sperimentava. Così andò avanti.

— E voi…?

— Noi, il terzo giorno, decidemmo di raggiungerlo, anche a costo di buttare giù la porta. Sinceramente, volevamo curarlo.

— Ah! E’ per questo! — mi scappò detto.

— Sì.

— E allora… nell’armadio…

— Sì, ragazzo mio. Sì, non sapeva che intanto alcuni ospiti erano venuti a trovarci. Non abbiamo più potuto occuparci di lui. Non lo sapeva, ma adesso… è una cosa normale, è una routine. — Lo disse talmente a bassa voce che indovinai l’ultima parola più che udirla.

— Aspetta, non capisco — dissi. — Ma come, dovevate sentire. Avevi detto che continuavate a sorvegliarlo. Dovevate sentire due voci, e allora…

— No. Solo la sua voce, anche se c’erano altri rumori incomprensibili. Capirai, pensavamo che fossero tutti suoi…

— Solo la sua…? Ma… come mai?

— Non lo so. Veramente ho una certa teoria su questo argomento. Ma penso che non valga la pena di essere precipitosi, tanto più che chiarire certe cose non aiuta per niente. Già.

Ma tu devi avere visto qualcosa ieri, altrimenti ci avresti preso per due matti.

— Pensavo di essere impazzito io.

— Ah, sì? E non hai visto nessuno?

— Eh, sì, che ho visto.

— Ma chi?

La sua smorfia non era più un sorrisetto. Lo guardai a lungo prima di rispondere: — Quella… nera…

Non mi rispose, ma tutto il suo corpo, che era piegato in avanti, si distese leggermente.

— Potevi avvisarmi — incominciai, con minore convinzione.

— Ti avevo avvertito.

— In che modo, però!

— Nell’unico possibile. Cerca di capirmi, non sapevo chi sarebbe venuto! Nessuno lo sapeva, non si può saperlo…

— Senti, Snaut, qualche domanda. Tu che conosci la cosa da un po’ di tempo. Con quello… quella… che cosa succederà?

— Mi chiedi se tornerà?

— Sì.

— Torna, e non torna.

— Che significa?

— Tornerà come era… come durante la prima visita. Semplicemente, non saprà niente; o meglio, sarà come se tutto ciò che hai fatto per toglierla di mezzo non fosse accaduto.

Se non provochi una certa situazione, non sarà aggressiva.

— Quale situazione?

— Dipende dalla circostanza.

— Snaut!

— Cosa vuoi?

— Non possiamo permetterci il lusso di fare dei misteri!

— Non è un lusso — mi interruppe seccamente. — Kelvin, ho l’impressione che tu non capisca, o… aspetta!

Gli brillarono gli occhi.

— Mi puoi dire chi è stato qui?

Deglutii. Abbassai la testa. Non volevo guardarlo. Avrei preferito che fosse qualcun altro, non lui.

Non avevo scelta. Il pezzo di garza si staccò e mi cadde nella mano. Rabbrividii nel sentire quella cosa scivolosa.

— La donna… che… — m’interruppi. — Si uccise. Si fece… si iniettò…

Aspettava. — Suicidio? — domandò, vedendo che tacevo.

— Sì.

— Tutto qui?

Continuavo a stare in silenzio.

— Non può essere tutto…

Alzai rapidamente la testa. Non aveva lo sguardo su di me.

— Come lo sai?

Non mi rispose.

— Bene — dissi. Mi inumidii le labbra. — Avevamo litigato.

Veramente no. Sono stato io a dirle… sai, ciò che si dice quando si è arrabbiati. Presi le valigie e me ne andai; mi fece capire, non dicendomelo direttamente, ma quando si convive da tempo con qualcuno non è necessario… Ero sicuro che l’aveva detto tanto per dire, che avrebbe avuto paura di farlo… e non glielo nascosi. Il giorno dopo, ricordai di avere lasciato in un cassetto… le iniezioni; sapeva che c’erano, le avevo portate dal laboratorio, ne avevo bisogno. Le avevo spiegato come funzionavano. Ebbi paura e volevo tornare a prenderle, ma poi pensai che così avrei avuto l’aria di avere preso sul serio le sue parole e… lasciai stare la cosa, ma il terzo giorno ci andai, perché non mi davo pace. Quando arrivai, non era più viva.

— Ah, ragazzaccio innocente… — mi fece sussultare. Ma, quando lo guardai, capii che non mi stava prendendo in giro.

Lo osservai come se fosse la prima volta. Aveva la faccia grigia, la stanchezza era evidente nei solchi profondi sulle guance. Aveva l’aria di un uomo molto malato.

— Perché parli così? — domandai, stranamente intimorito.

— Perché questa storia è così tragica. No, no — aggiunse rapidamente vedendo che mi ero mosso, — continui a non capire. Di certo, forse soffri, forse credi di essere un assassino; ma… c’è di peggio.

— Ma guarda! — dissi ironicamente.

— Sono contento che tu non mi creda. Le cose accadute possono essere tremende, ma più tragico è ciò che… non è accaduto, mai.

— Non capisco… — dissi confuso. Davvero non capivo niente. Annuii con la testa.

— Un uomo normale — disse. — Che vuoi dire, un uomo normale? E’ quello che non ha mai commesso niente di abominevole? Sì: ma non ha mai pensato di farlo? Forse no, ma qualcosa ha pensato in lui. Si è immaginato qualcosa, dieci o trenta anni fa; forse se ne è difeso e l’ha dimenticato e non ne ha più avuto paura, poiché sapeva che non l’avrebbe mai fatto. Sì, e adesso immaginati che, di colpo, un certo giorno, tra altra gente, egli trovi questa COSA, incarnata, attaccata a lui, indistruttibile, e allora…? Che cos’hai, allora?

Rimasi in silenzio.

— La stazione — disse a bassa voce. — Allora, hai la stazione Solaris.

— Ma… insomma, che cosa può essere? — dissi titubante. —

Non sei un delinquente, e nemmeno Sartorius lo è…

— E tu saresti uno psicologo, Kelvin! — mi interruppe con impazienza. — Chi non ha mai fatto un sogno simile? Immaginazione? Pensa a un feticista che si innamora di un pezzo di biancheria sporca, che rischiando la pelle conquista il suo caro e orrendo straccio. L’oggetto della sua attenzione gli fa schifo, ma contemporaneamente darebbe la vita per averlo. I suoi sentimenti possono essere pari a quelli di Romeo e Giulietta. Simili cose capitano, vero? Puoi dunque capire che devono esistere delle cose, delle situazioni… tali che nessuno ha mai avuto il coraggio di realizzarle, al di fuori della propria mente, in un momento di follia, di aberrazione, di pazzia, chiamala come vuoi. Dopo di ciò, il verbo s’incarna.

Ecco tutto.

— Ecco… tutto — ripetei stupidamente, con voce atona. La mia testa rimbombava. — Ma la stazione, come c’entra?

— Tu fingi — brontolò. Mi guardava attentamente. — Io sto parlando di Solaris, sempre e solo di Solaris, e di nient’altro!

Non è colpa mia se la realtà è così brutalmente diversa dalle tue aspettative. Credo che tu ne abbia passate già abbastanza per ascoltarmi sino alla fine.

«Noi partiamo per lo spazio preparati a tutto, cioè pronti al sacrificio, alla solitudine, alla lotta, alla morte. Per modestia, non lo diciamo ad alta voce, ma lo pensiamo dentro di noi di tanto in tanto; pensiamo di essere eccezionali. Intanto, però, non è tutto, il nostro zelo si rivela una posa. Non abbiamo nessuna voglia di conquistare il cosmo, noi vogliamo soltanto allargare fino ai suoi ultimi confini le frontiere della Terra.

Certi pianeti devono essere deserti come il Sahara, altri freddi e ghiacciati come il Polo o tropicali come la giungla del Brasile. Siamo umanitari e nobili, non abbiamo intenzione di conquistare altre razze, vogliamo solo trasmettere i nostri valori e in cambio impadronirci del loro patrimonio. Ci crediamo cavalieri dell’ordine del Santo Contatto. Questa è una bugia. Noi cerchiamo solo l’uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi. Non sappiamo che cosa farcene di altri mondi. Uno ci basta, quello in cui sguazziamo. Vogliamo trovare il ritratto idealizzato del nostro mondo! Cerchiamo dei pianeti con una civiltà migliore della nostra… ma che sia l’immagine evoluta di quel prototipo che è il nostro passato primordiale. Dall’altro lato, c’è in noi qualcosa che non accettiamo, contro cui lottiamo; ma che comunque resta, perché dalla Terra non abbiamo portato un distillato di virtù o una statua alata dell’uomo! Siamo arrivati qua così come siamo realmente, e quando l’altra faccia, cioè la parte che manteniamo segreta, si mostra com’è veramente… non riusciamo ad andarci d’accordo!»

— Allora, che cos’è? — domandai, dopo averlo ascoltato con pazienza.

— Quel che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. L’abbiamo, questo contatto! Ingrandita come se fosse sotto il microscopio… la nostra mostruosa bruttezza, la nostra buffoneria e vergogna! — Nella sua voce vibrava la rabbia. — Allora credi che sia… l’oceano? Che sia lui? Ma a che scopo? Lasciamo da parte, per ora, la meccanica; ma «a che scopo»?!

Per amor di Dio! Pensi seriamente che voglia giocare con noi? O che ci voglia punire? Allora si tratta veramente di una diavoleria primitiva? Il pianeta sarebbe dunque dominato da un grosso demone che per soddisfare il suo umore satanico rende succube l’equipaggio della spedizione scientifica?!

Non crederai a simili idiozie! Questo diavolo non è per niente stupido — brontolò tra i denti.

Lo guardai meravigliato. Mi venne in mente che, alla fine, poteva essere caduto in preda a una crisi psicotica, anche non volendo spiegare con la follia tutto ciò che accadeva all’interno della stazione. — Psicosi reattiva…? — mi scappò detto, e Snaut si mise a ridere piano.

— Stai formulando la diagnosi? Vacci piano. In fondo hai avuto modo di conoscere solo la forma benigna, e non ne sai niente di più!

— Ah. Il diavolo si è mostrato pietoso con me — sbottai.

Quel colloquio cominciava ad annoiarmi.

— Che cosa vorresti? Che ti dicessi quali piani vada architettando contro di noi questa massa di X miliardi di tonnellate di plasma metamorfico? Nessuno, forse.

— Come, nessuno? — domandai impietrito. Snaut continuava a sorridere.

— Dovresti saperlo, che la scienza si occupa soltanto di ciò che succede, non di ciò che non è ancora successo. Come? E’ accaduto otto o nove giorni dopo l’esperimento con i raggi X.

Forse l’oceano ha risposto alla radiazione con un’altra radiazione, e così ha potuto sondare i nostri cervelli e impadronirsi di certe costellazioni psichiche.

Questo ridestò il mio interesse.

— Eh, sì. Dei processi isolati da tutto il resto, chiusi in sé, attutiti, murati, qualche scintilla della memoria. Li ha trattati come campioni e come piano di costruzione… lo sai come sono simili le catene molecolari asimmetriche dei cromosomi e le unità nucleiche dei cerebrosidi che compongono il sostrato dei processi di memorizzazione… Questo plasma ereditario è plasma che «ricorda». L’oceano ha prelevato questo, da noi, ne ha preso nota, poi tu sai che cos’è successo. Ma perché l’ha fatto? Be’! In ogni caso, non per distruggerci; sarebbe per lui troppo facile. Oltretutto, data la sua disinvoltura tecnologica, potrebbe fare qualsiasi cosa, per esempio metterci davanti dei sosia.

— Ah! — esclamai. — Per questo ti sei preso uno spavento la prima sera, quando sono arrivato?

— Sì. Forse — aggiunse — forse l’ha fatto. Come puoi sapere se sono veramente quel buon diavolo di Topo che venne qui due anni fa…? — Incominciò a ridere silenziosamente, come se la mia meraviglia gli desse chissà che soddisfazione, ma smise subito. — No, no — brontolò. — Ce n’è già abbastanza senza questo… Forse esistono altre caratteristiche inconfondibili, ma io ne conosco solo una: possiamo ucciderci, tu e io.

— E loro no?

— Non ti consiglio di provare. E’ uno spettacolo orrendo!

— Non è proprio possibile?

— Non lo so. A ogni modo, non con il veleno, con il coltello, con la corda…

— E una pistola gamma?

— Tu proveresti?

— Chissà. Poiché non sono persone…

— Ma lo sono, in un certo senso. Soggettivamente, sono persone. Non si rendono affatto conto della loro… origine.

L’hai forse notato?

— Sì. E allora com’è?

— Si rigenerano a una velocità incredibile. Una velocità impossibile, ti dico. In un batter d’occhio. E ricominciano comportandosi come… come…

— Come cosa?

— Come ce li immaginiamo: queste note memorizzate secondo le quali…

— Sì. E’ vero — convenni. Non badavo al fatto che la pomata mi scendeva dalle guance bruciate e gocciolava sulle mani. —

Gibarian lo sapeva? — domandai improvvisamente.

Mi guardò con attenzione.

— Vuoi dire se sapeva quel che a nostra volta sappiamo?

— Sì.

— Quasi certamente.

— Come lo sai? Te l’ha detto?

— No, ma ho trovato da lui un certo libro.

— Il Piccolo apocrifo! — dissi, balzando in piedi.

— Sì. Come lo sai? — domandò con una certa inquietudine, guardandomi dritto negli occhi.

Feci cenno di no con la testa. — Calma! — dissi. — Non vedi che sono tutto bruciacchiato e che «non» mi rigenero? Nella cabina c’era una lettera per me.

— Davvero! E che cosa conteneva?

— Poco. Era solo un appunto, non una lettera. Referenze bibliografiche alle Appendici solaristiche e a quell’Apocrifo.

Che cos’è?

— Un’anticaglia. Ma può avere una certa pertinenza. Prendi

— estrasse di tasca un volumetto con gli angoli consumati, rilegato in pelle, e me lo porse.

— E Sartorius? — dissi, prendendo il libro.

— Cosa, Sartorius? Ognuno di noi, in questa situazione, si comporta come può. Lui cerca di essere normale. Che, nel suo caso, significa formalismo ufficiale.

— Allora, sai!

— Ma sì. Sono già stato con lui in una certa situazione, ti risparmio i particolari, ma per otto persone rimasero cinquecento chilogrammi di ossigeno. Uno dopo l’altro ci lasciavamo andare; soltanto lui si puliva le scarpe tutti i giorni e si faceva la barba. Naturalmente qualsiasi cosa faccia, adesso, può solo fingere, recitare una commedia o commettere un delitto.

— Delitto?

— Già, non proprio un delitto. Per definirlo ci occorre un termine nuovo di zecca. Per esempio, divorzio da rigetto.

Suona meglio?

— Sei incredibilmente spiritoso.

— Preferiresti che piangessi? Proponi tu qualcosa.

— Ah, lasciami in pace!

— No, dico sul serio, adesso ne sai più o meno quanto me.

Hai qualche piano?

— Bel furbo! Non so che cosa farò, quando riapparirà… Ma è proprio certo che debba riapparire?

— Direi di sì.

— Ma come fanno a entrare, da dove passano? La stazione è chiusa ermeticamente. Forse la corazza…

Negò col capo. — La corazza è in ordine. Non ho idea di come facciano. Solitamente gli ospiti sono lì al nostro risveglio. In fin dei conti, bisogna pur dormire, ogni tanto.

— Forse barricandoci?

— Non regge a lungo. No, c’è un mezzo solo, e quale sia, be’, lo sai.

Si alzò e mi alzai anch’io.

— Senti, Snaut… tu miri a liquidare la stazione; non solo, ma vorresti che la decisione venisse da me, vero?

Scrollò il capo.

— Non è così semplice. Naturalmente, possiamo scappare. Per esempio sul satellite, e di lì mandare un S.O.S. Ci tratteranno come dei mentecatti, beninteso. Dobbiamo aspettarci di essere rinchiusi in una clinica, sulla Terra, e di restarci un po’ di tempo: fino a quando non ci rimangiamo tutto. I casi di follia collettiva dell’equipaggio, in dislocazioni così isolate, non sono una novità. E forse non sarebbe la soluzione peggiore. Giardino, tranquillità, stanzette bianche, passeggiatine con le infermiere…

Parlava seriamente, con le mani in tasca, fissando, senza vedere niente, un angolo della camera. Il sole rosso era scomparso dietro l’orizzonte e le creste delle onde erano svanite in un deserto colore d’inchiostro. Il cielo avvampava.

Sopra questo paesaggio tetro e bicolore passavano nuvole lilla.

— Allora, sei disposto a tagliare la corda oppure no? Non ancora? — sorrise. — Conquistatore incrollabile… Non hai ancora provato niente, altrimenti non terresti duro così. Non si tratta di quel che voglio o non voglio io, bensì di ciò che è possibile.

— Che cosa?

— Non lo so ancora.

— Dunque, rimaniamo qui? Pensi che troveremo un mezzo…

Mi studiava, col suo viso emaciato, segnato di rughe, che perdeva la pelle. — Chissà. Forse è meglio — disse infine. —

Forse non verremo a sapere niente su di lui; ma, su di noi…

Girò su se stesso, raccolse i suoi fogli e uscì. Avrei voluto fermarlo, ma dalla bocca aperta non mi uscì alcun suono.

Non c’era niente da fare, potevo solo aspettare. Mi avvicinai alla finestra e fissai l’oceano rosso e nero, senza vederlo. Mi venne in mente di andare a rinchiudermi in uno dei razzi all’aeroporto, ma non lo pensai seriamente, era troppo stupido; prima o poi sarei dovuto uscire. Sedetti accanto alla finestra e tirai fuori il libro lasciatomi da Snaut. C’era ancora luce sufficiente, colorava di rosa le pagine, tutta la camera era arrossata. Si trattava di una raccolta di articoli e memorie di qualche valore, a cura di un tal Otto Ravintzer, laureato in filosofia. A ogni scienza non manca mai di affiancarsi una pseudoscienza che ispira strane distorsioni nelle menti di un certo tipo; l’astronomia ha nell’astrologia la sua caricatura, la chimica l’aveva nell’alchimia, ed era inevitabile che la nascita della solaristica fosse accompagnata da una vera alluvione di elucubrazioni aberranti. Ravintzer aveva alimentato il suo libro con questo tipo di nutrimento, facendolo precedere, è giusto dirlo, da una introduzione in cui si dissociava da quel panoptikon. Egli semplicemente considerava, non senza ragione, che una raccolta del genere potesse costituire un valido documento dei tempi per lo studioso sia di storia sia di psicologia.

Il rapporto di Berton occupava nel volume un posto piuttosto ampio. Era composto di vari capitoli. Il primo era costituito da un estratto del libro di bordo dello stesso Berton, molto laconico.

Dalle ore 14.00 alle 16.40, ora convenzionale della spedizione, le annotazioni erano scarne e negative.

«Altezza 1000 (o 1200, o 800) metri, nessun avvistamento, oceano deserto.» Questo era ripetuto più e più volte.

Poi, alle 16.40: «Si leva una nebbia rossastra. Visibilità 700 metri. Oceano deserto».

Ore 17.00: «Nebbia più fitta, silenzio, visibilità 400 metri, con schiarite. Scendo a 200».

Ore 17.20: «Sono nella nebbia. 200 di quota, visibilità 2440 metri, silenzio. Salgo a 400».

Ore 17.45: «500 di quota, una fascia di nebbia fino all’orizzonte. Nella nebbia, delle aperture a imbuto, attraverso le quali si vede la superficie dell’oceano. Qualcosa succede.

Cerco di entrare in uno di quei tubi».

Ore 17.52: «Vedo una specie di gorgo. Espelle schiuma gialla. Sono circondato da un muro di nebbia. 100 di quota.

Scendo a 20».

Qui terminava l’estratto del libro di bordo di Berton. Il seguito di questo rapporto era la cronistoria della sua malattia, o meglio il testo delle sue deposizioni, dettate da Berton e interrotte dalle domande della commissione.

BERTON: Quando sono sceso a trenta metri, è stato molto difficile mantenere la quota, poiché in questi spazi circolari senza nebbia soffiava parecchio vento. Ho dovuto concentrarmi sui comandi di guida e dunque, per un periodo di dieciquindici minuti, non ho potuto guardare fuori. Per questo motivo sono entrato involontariamente nella nebbia, un forte colpo di vento mi ci ha spinto. Non era una nebbia normale, era una materia colloidale in sospensione, direi, che mi ricoprì completamente i vetri e per pulirli penai molto. Era molto viscosa. Intanto i giri erano diminuiti del trenta per cento a causa della resistenza che l’elica incontrava, e cominciavo a perdere quota. Poiché ero molto basso e temevo di capottare sulle onde, ho dato gas. L’apparecchio non è risalito. Avevo ancora quattro razzi acceleratori. Non li ho usati pensando che la situazione poteva peggiorare ancora e che avrei potuto averne bisogno. A regime massimo si è prodotta una forte vibrazione; ho pensato che quella materia collosa si stesse appiccicando all’elica. Il contatore di rendimento era quasi a zero e non potevo farci nulla. Dal momento in cui ero entrato nella nebbia non vedevo più il sole, ma la sua direzione dava una fosforescenza rossa. Mi spostavo continuamente con la speranza di raggiungere uno di quegli spazi senza nebbia e, in capo a mezz’ora, ci sono riuscito. Sono entrato in uno spazio libero, quasi circolare, del diametro di qualche centinaio di metri. Le pareti di nebbia giravano vorticosamente, come per effetto di correnti ascendenti molto forti, perciò cercavo di tenermi nella zona centrale. L’aria in quel punto era più calma. Ho osservato allora un cambiamento sulla superficie dell’oceano. Erano scomparse quasi completamente le onde e il fluido di cui è composto l’oceano diventava quasi trasparente, con scie fumose; queste andavano dissolvendosi e in breve tutto si è schiarito. Potevo vedere fino a una profondità di venti metri. Lì si condensava un fango giallo, che saliva a filamenti; quando raggiungeva la superficie assumeva una lucentezza vitrea, cominciava a girare, a schiumare e ad addensarsi: somigliava molto a zucchero caramellato. Questo fango o liquido formava grumi, protuberanze sulla superficie dell’oceano, creando moltissime e stranissime forme. Cominciavo di nuovo a essere spinto contro la parete di nebbia, perciò ho dovuto per qualche minuto dare gas e governare.

Quando ho potuto guardare nuovamente fuori, ho visto sotto di me qualcosa che assomigliava a un giardino. Sì, giardino.

Ho visto alberelli nani, siepi e vialetti, irreali, e tutto ciò era fatto di quella sostanza che si era quasi solidificata in un gesso di colore giallo. Sono sceso quanto più potevo per vedere esattamente.

DOMANDA: Gli alberi e le piante che hai visto avevano foglie?

RISPOSTA DI BERTON: No. Era una forma sommaria, come fosse un modellino di giardino. Ecco, sì, un modellino.

Così sembrava. Un modellino ma in grandezza naturale. Un istante dopo, tutto ha cominciato a rompersi e, attraverso fessure nere, sgorgava a fiotti sulla superficie quel liquido denso che in parte colava e in parte si solidificava. Tutto ha cominciato ad agitarsi energicamente, si è coperto di questa materia e, a parte ciò, non ho visto altro. Contemporaneamente la nebbia ha cominciato a schiacciarmi da ogni parte: perciò ho aumentato i giri e sono salito all’altezza di trecento metri.

DOMANDA : Sei proprio sicuro che ciò che hai visto ti ricordava un giardino e nient’altro?

RISPOSTA DI BERTON: Sì. Ho notato diversi particolari; ricordo, per esempio, che in un certo punto c’era come una fila di scatolette quadrate. Mi è venuto poi in mente che potevano essere alveari.

DOMANDA: Ti è venuto in mente dopo? Ma non nel momento in cui le hai viste?

RISPOSTA DI BERTON: No, no, perché tutto sembrava di gesso. E ho visto ancora altre cose.

DOMANDA: Quali cose?

RISPOSTA DI BERTON: Non posso dire quali, perché non riuscivo a vedere con precisione. Ho avuto l’impressione che, sotto alcune di quelle piante, ci fossero oggetti, come calchi in gesso dei nostri attrezzi da giardinaggio, di forme lunghe, con denti sporgenti. Ma di questo non sono molto sicuro. Dell’altro, sì.

DOMANDA: Non hai pensato che fosse un’allucinazione?

RISPOSTA DI BERTON: No, pensavo fosse un miraggio.

Alle allucinazioni no, perché mi sentivo molto bene, e anche perché in vita mia non avevo mai visto niente di simile.

Quando sono salito a trecento metri la nebbia sotto di me era tutta a buchi, come un formaggio. Da uno di questi buchi ho visto ondeggiare l’oceano. Negli altri qualcosa si muoveva.

Sono sceso fino a uno di questi punti e all’altezza di quaranta metri ho visto, ma solo superficialmente, una parete. Era la parete di un enorme edificio e aveva delle aperture rettangolari in fila come finestre, sembrava che in qualcuna di esse si muovesse qualcosa; ma di questo non sono molto sicuro. La parete ha cominciato ad alzarsi e a emergere dall’oceano. Sopra di essa scivolavano a cascata quel liquido e delle forme mucose, come mucchi di vene. All’improvviso si è spaccato in due ed è crollato in fretta, scomparendo di colpo. Ho portato di nuovo in quota l’apparecchio, e volavo sopra la nebbia, quasi sfiorandola col mio carrello. Ho visto un altro imbuto: era parecchie volte più grande di quello che avevo osservato prima.

Da lontano ho avvistato qualcosa di bianco che galleggiava, e ho subito pensato alla tuta di Fechner, tanto più che la forma ricordava quella di un essere umano. Ho fatto una virata molto brusca, perché temevo di oltrepassare il punto e di non ritrovarlo più; quella forma, o corpo, si muoveva leggermente, sembrava quasi che nuotasse o stesse in piedi fino alla cintola tra le onde. Avevo fretta e sono sceso talmente in basso che ho sentito il carrello urtare contro qualcosa di morbido; ho pensato che fosse la cresta di un’onda. Il corpo, che era proprio un corpo, non indossava la tuta, però si muoveva.

DOMANDA: Hai visto la sua faccia?

RISPOSTA DI BERTON: Sì.

DOMANDA: Chi era?

RISPOSTA DI BERTON: Era un bambino.

DOMANDA: Che bambino? L’avevi mai visto prima?

RISPOSTA DI BERTON : No, mai. Non ricordo di averlo mai visto. Del resto, quando mi sono avvicinato e tra me e lui c’è stata una distanza di quaranta metri, o forse anche meno, ho capito che qualcosa non quadrava.

DOMANDA: Che cosa intendi dire?

RISPOSTA DI BERTON : Mi spiego. Dapprima non ho capito di che cosa si trattasse. Solo dopo un momento me ne sono reso conto. Quel bambino era immensamente grande.

Dire immenso è poco. Credo misurasse quattro metri. Ricordo che, nel momento in cui ho urtato contro l’onda, la sua faccia era all’altezza della mia e, seduto com’ero nell’abitacolo, dovevo trovarmi a tre metri sopra la superficie dell’oceano.

DOMANDA : Se era così immenso, come hai capito che era un bambino?

RISPOSTA DI BERTON : Perché era un bambino piccolissimo.

DOMANDA : Non ti pare, Berton, che la tua risposta non sia logica?

RISPOSTA DI BERTON : Assolutamente no. Ho visto la sua faccia, e le fattezze del suo corpo: erano infantili. Mi sembrava quasi un neonato. No, forse esagero: poteva avere due o tre anni. Aveva capelli neri e occhi azzurri, immensi!

Ed era nudo, completamente nudo; come se fosse appena nato. Era bagnato, forse unto, la pelle gli brillava.

La sua presenza mi ha fatto un’enorme impressione. Non credevo più che fosse un miraggio. Lo vedevo troppo chiaramente. Si alzava e ricadeva con il moto ondoso. Era orrendo!

DOMANDA : Perché? Che cosa faceva?

RISPOSTA DI BERTON: Sembrava come in un museo.

Una bambola, ma viva. Apriva e chiudeva la bocca e faceva diversi movimenti. Orrendo. Sì, perché i suoi gesti non erano naturali.

DOMANDA: Che cosa vuoi dire?

RISPOSTA DI BERTON: Non mi sono avvicinato oltre i quindici o venti metri. Ma vi ho detto com’era grosso, perciò lo vedevo perfettamente. Gli brillavano gli occhi e pareva vivo; solo che quei movimenti erano come se qualcuno provasse… come se qualcuno riprovasse…

DOMANDA: Cerca di esprimerti più chiaramente.

RISPOSTA DI BERTON: Non lo so, non so se ne sarò capace. Ho avuto questa impressione. Era un’intuizione. Non ci riflettevo. Quei movimenti erano innaturali.

DOMANDA: Vuoi dire che, per esempio, le braccia non si muovevano come quelle umane, che hanno determinate limitazioni di movimento a causa delle articolazioni?

RISPOSTA DI BERTON: Assolutamente no. Solo che… quei movimenti non avevano alcun senso. Ogni movimento ha un suo significato, è funzionale a qualcosa…

DOMANDA: Credi? I movimenti dei neonati non hanno senso.

RISPOSTA DI BERTON: Lo so, ma i movimenti di un neonato sono disordinati e non coordinati. Generalizzati.

Questi invece erano, posso dire… metodici. Sembravano fatti prima a gruppi e poi in serie. Come se qualcuno volesse controllare che cosa fosse in grado di fare, quel bambino, con le mani, con la schiena, con la bocca. La faccia era la cosa più difficile, penso, perché la faccia esprime di più. Ma quella faccia… non saprei descriverla. Era viva, sì; ma non era umana. I tratti, gli occhi, l’aspetto, sì, ma l’espressione non andava.

DOMANDA: Faceva delle smorfie? Lo sai com’è la faccia di una persona durante un attacco epilettico?

RISPOSTA DI BERTON: Sì, ho visto un attacco del genere. Lo capisco. Ma era qualcosa di diverso. Durante l’attacco epilettico ci sono contrazioni e tremiti, ma questi erano movimenti completamente sciolti e regolari; si può dire, armoniosi. Non riesco a definirli in altro modo. Con la faccia era lo stesso. Una faccia non può essere per metà triste e per metà allegra, con una parte atterrita e l’altra esultante o qualcosa del genere; ma in quel bambino succedeva così. Poi, tutti quei movimenti e il gioco mimico avvenivano a una velocità incredibile. Mi sono fermato poco, forse dieci secondi.

Non so neanche se fossero dieci.

DOMANDA: Vuoi dire che hai visto tutto questo nel giro di così poco tempo? Ma come sai quanto è durato? Hai controllato con l’orologio?

RISPOSTA DI BERTON: No, non ho controllato con l’orologio, però volo da sedici anni. Nel mio lavoro si deve sapere valutare il tempo al secondo. Io ho in mente i tempi. E’ necessario per l’atterraggio. Il pilota che non è in grado di afferrare, indipendentemente dalle circostanze, se un fenomeno dura cinque secondi oppure dieci, non varrà mai un granché.

Con gli anni, impariamo a recepire tutto in tempo brevissimo.

DOMANDA: E’ tutto quello che hai visto?

RISPOSTA DI BERTON: No, ma il resto non lo ricordo esattamente. Penso che sia anche troppo. Avevo il cervello come tappato. La nebbia cominciava a chiudersi intorno a me e ho dovuto riprendere quota. Devo averlo fatto, ma non ricordo né come né quando. Per la prima volta nella mia vita, quasi capottavo. Le mani mi tremavano talmente che non ero in grado di tenere i comandi. Mi sembra di avere gridato e chiamato la base, sebbene sapessi di non essere collegato.

DOMANDA: Hai cercato di rientrare?

RISPOSTA DI BERTON: No. Quando ho finalmente raggiunto la quota limite, ho pensato di poter trovare Fechner in uno di quei pozzi. Lo so che sembra senza senso. Ma lo pensavo. «Poiché già succedono cose strane» pensavo «forse riuscirò a trovare Fechner.» Perciò ho deciso di entrare in ogni pozzo in cui fosse possibile. La terza volta, quando sono risalito, ho capito, dopo ciò che avevo visto, che non sarei riuscito a scendere ancora. Non ho potuto. Devo dire che, come si sa, ho avuto delle nausee, ho vomitato nell’abitacolo. Era strano. Io non ho mai sofferto di nausee.

DOMANDA: Era un sintomo di intossicazione, Berton.

RISPOSTA DI BERTON: Forse. Ma ciò che ho visto quella terza volta non l’ho inventato. Non era conseguenza dell’intossicazione.

DOMANDA: Come puoi saperlo?

RISPOSTA DI BERTON: Non erano allucinazioni; l’allucinazione è una cosa creata dal nostro cervello, vero?

DOMANDA: Sì.

RISPOSTA DI BERTON: Ebbene, il mio cervello non poteva inventare quel che ho visto. Non lo crederò mai. Non ne sarebbe stato capace.

DOMANDA: Di’ piuttosto che cos’era, per favore.

RISPOSTA DI BERTON: Prima, vorrei sapere come sarà valutato ciò che ho già riferito.

DOMANDA: Che importanza ha?

RISPOSTA DI BERTON: Per me, un’importanza vitale. Vi ho riferito che ho visto delle cose che non dimenticherò mai.

Se la commissione deciderà che ciò che ho detto è probabile, anche solo in minima parte, e che si dovranno cominciare delle ricerche in questo campo, a proposito dell’oceano, allora dirò tutto. Ma se la commissione riterrà che siano mie invenzioni, non dirò niente.

DOMANDA: Perché?

RISPOSTA DI BERTON: Perché il contenuto delle mie allucinazioni è una mia questione privata, e non ho da renderne conto. Delle mie osservazioni su Solaris, invece, sì.

DOMANDA: Vuoi dire che ti rifiuti di dare altre risposte fino a che la commissione non abbia deliberato? Capirai che la commissione non è autorizzata a prendere una decisione immediata.

RISPOSTA DI BERTON: Lo so.

Qui finiva il primo verbale. C’era un frammento del secondo, redatto undici giorni dopo.

IL PRESIDENTE:… prendendo tutto in considerazione, la commissione, composta di tre medici, tre biologi, un fisico, un ingegnere meccanico e il sostituto capo spedizione, è arrivata alla conclusione che i fatti accaduti a Berton sono il contenuto di un insieme di allucinazioni avvenute sotto l’influsso dell’avvelenamento causato dall’atmosfera del pianeta, con sindrome morbosa accompagnata da eccitazione delle zone associative della corteccia cerebrale, e in questi casi niente, o quasi niente, corrisponde più alla realtà.

BERTON: Mi scusi. Che cosa vuol dire «niente o quasi niente»? Cos’è «quasi niente»? Che senso ha?

IL PRESIDENTE: Non ho ancora finito. E’ stato messo a verbale un votum separatum del dottore in fisica Archibald Messenger, il quale dichiara che quanto riferito da Berton potrebbe obiettivamente accadere e che, a parer suo, meriterebbe attento esame. Questo è tutto.

BERTON: Ripeto la mia domanda di prima.

IL PRESIDENTE: La spiegazione è semplice. «Quasi niente» sta a indicare che certi fenomeni reali potevano favorire le tue allucinazioni, Berton. Una persona completamente normale può vedere durante una notte di vento, invece di un albero, una persona. Chissà che cosa può succedere, su un pianeta estraneo, quando il cervello dell’osservatore si trova sotto l’influsso del veleno. Non è colpa tua, Berton. Allora, qual è la tua decisione?

BERTON: Vorrei, come prima cosa, sapere quali sono le conseguenze di quel votum separatum del dottor Messenger.

IL PRESIDENTE: Praticamente nessuna. Ciò significa che le ricerche in questo campo non saranno fatte.

BERTON: Ciò che stiamo dicendo viene messo a verbale?

IL PRESIDENTE: Sì.

BERTON: Vorrei dichiarare che la commissione, secondo il mio parere, non ha danneggiato me (io non conto), ma il significato stesso della spedizione. Come ho detto prima, alle altre domande non risponderò.

IL PRESIDENTE: E’ tutto?

BERTON: Sì, ma vorrei parlare col dottor Messenger. E’ possibile?

IL PRESIDENTE: Naturalmente.

Con questo terminava il secondo verbale. In fondo alla pagina era annotato a piccoli caratteri che il dottor Messenger ebbe con Berton, il giorno dopo, una conversazione di circa tre ore, dopo la quale si rivolse al consiglio direttivo della spedizione chiedendo di ricominciare da capo le ricerche in base alle dichiarazioni del pilota. Affermava che erano emersi dei dati nuovi, forniti da Berton, ma che avrebbe potuto riferirli solo se il consiglio avesse preso una decisione positiva. Il consiglio, composto da Shannahan, Timolis e Trahier, diede parere negativo, e con ciò la questione fu chiusa. Il volume conteneva anche la fotocopia dell’ultima pagina di una lettera trovata fra i documenti di Messenger dopo la sua morte. Probabilmente era una minuta, ma Ravintzer non era riuscito a stabilire se queste note avessero avuto un seguito.

«… colossale ottusità.» Così cominciava il testo. «Per la preoccupazione di mantenere la sua autorità, la commissione, e più precisamente Shannahan e Timolis (poiché la voce di Trahier non conta), ha respinto le mie raccomandazioni.

Mi rivolgo adesso direttamente all’Istituto, ma capisco che è una protesta inutile. Avendo dato la mia parola, non posso riferirti ciò che mi aveva descritto Berton. La decisione del consiglio è stata motivata dal fatto che la testimonianza veniva da un uomo incolto, anche se qualsiasi studioso dovrebbe invidiare a questo pilota la lucidità di mente e la capacità di osservazione. Mandami, ti prego, per posta: 1) la biografia di Fechner, specialmente i particolari sulla sua infanzia;

2) tutto ciò che sai della sua famiglia e della sua situazione familiare; sembra che sia rimasto orfano da bambino; 3) la topografia del luogo dove è stato allevato.

«Vorrei dirti che cosa penso di tutto ciò. Dopo la partenza di Fechner e Carucci, nel centro del sole rosso si creò una macchia che, secondo i dati forniti dal satellite, bombardò con le sue radiazioni corpuscolari particolarmente l’emisfero sud, dove si trovava la base, neutralizzando le trasmissioni radio. Fechner e Carucci si erano allontanati più di tutti dalla base.

«Dall’arrivo sul pianeta, e fino a quel malaugurato giorno, non c’era mai stata una nebbia così fitta, né un silenzio radio così completo.

«Penso che la cosa vista da Berton facesse parte della

‘Operazione Uomo’ intrapresa da quel mostro appiccicoso.

In effetti la fonte di tutte le creazioni viste da Berton era Fechner, o meglio il suo cervello, sottoposto a una ‘dissezione psicologica’ per noi inconcepibile; riguardava una ricreazione o ricostruzione sperimentale, sulla scorta di alcune tracce (quelle sicuramente più durature) incise nella sua memoria.

«Lo so che possono sembrare fantasticherie; so anche che posso sbagliare. Ma ti prego di aiutarmi. Attualmente mi trovo sull’Alarico, e lì aspetterò la tua risposta.

Tuo A.»

Si era fatto così buio che riuscivo a malapena a leggere. Il libro era diventato grigio, ma la pagina vuota indicava che ero arrivato alla fine di quella testimonianza, alla quale, avendo vissuto quel che avevo vissuto, ero incline a prestare fede. Mi girai verso la finestra. L’orizzonte era immerso in un viola profondo, come se ci fossero le braci di un fuoco di carbone che si spegne. L’oceano coperto di tenebre era invisibile. Sentivo il leggero fruscio della carta attaccata ai ventilatori. L’aria riscaldata, con un leggero odore di ozono, era immobile. Un silenzio assoluto riempiva la stazione.

Pensai che nella nostra decisione di rimanere non c’era niente di eroico. Il periodo delle spedizioni coraggiose, delle lotte planetarie epiche, delle tremende morti, come per esempio quella di Fechner, era chiuso già da tempo. Non m’interessava più chi fossero gli ospiti di Snaut e Sartorius. Poi mi ritrovai a pensare: «Smetteremo di vergognarci e isolarci. Se non riusciremo a toglierci di dosso gli ‘ospiti’, ci abitueremo e vivremo con loro, e se il loro creatore ha voluto cambiare le regole del gioco, ci adatteremo a queste novità, anche se per un certo periodo di tempo saremo recalcitranti e ci ribelleremo, anche se qualcuno di noi cederà allo sconforto e si ucciderà. Alla fine riusciremo ad arrivare a un equilibrio».

La stanza si riempiva di un buio che assomigliava molto a quello terrestre. Solo le forme bianche del lavandino e dello specchio schiarivano l’oscurità. Mi alzai e, tentoni, ritrovai il batuffolo di cotone sul ripiano: mi detersi la faccia e mi sdraiai sul letto. In qualche posto sopra di me si sentiva un ronzio simile a quello di una falena, che aumentava e diminuiva.

Era il condizionatore. Non vedevo nemmeno la finestra, tutto era immerso nelle tenebre, solo un filo di luce, che non sapevo da dove giungesse, passava sopra di me, forse proveniva dalla parete, forse da lontano, forse dal fondo del deserto che si trovava dietro la finestra. Mi ricordai come mi aveva spaventato, il giorno prima, lo spazio di Solaris, e quasi sorrisi.

Non ne avevo più paura. Non avevo paura di niente. Mi avvicinai il polso agli occhi. Il quadrante dell’orologio brillò con tutte le cifre fosforescenti. Di lì a un’ora sarebbe cominciata l’alba del sole azzurro. Mi godevo il buio, respiravo profondamente, vuoto e libero da ogni pensiero.

A un certo punto, mentre mi muovevo, sentii la forma piatta del registratore che mi premeva sulla coscia. Vero. Gibarian. La sua voce era incisa sul nastro. Non mi era venuto ancora in mente di ascoltarla. Era tutto ciò che avrei potuto fare per lui. Estrassi il registratore per nasconderlo sotto il letto. Sentii un fruscio e un leggerissimo scricchiolio della porta che si apriva: — Chris…? — percepii nel silenzio una voce che era quasi un sussurro. — Sei qua, Chris? C’è tanto buio.

— Non importa — dissi. — Non aver paura, vieni.

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