13. IL SUCCESSO

Le tre settimane seguenti furono come un solo e identico giorno, che si ripeteva sempre, le saracinesche si chiudevano e aprivano, di notte continuavo a essere tormentato dagli incubi, alla mattina ci svegliavamo, ci alzavamo e la commedia ricominciava. Era una commedia? Fingevo di essere tranquillo, e Harey anche; questa intesa muta, la consapevolezza del reciproco inganno, ci forniva l’ultima scappatoia. Parlavamo spesso di come avremmo vissuto sulla Terra, in qualche grande città, e non avremmo più abbandonato il cielo azzurro e gli alberi verdi, e inventavamo l’arredamento degli interni e il giardino, e litigavamo sui particolari… sulla siepe, o le panchine… Ho mai creduto, per un solo istante, a quel che dicevo? No. Sapevo che era impossibile. Lo sapevo. Anche se lei avesse potuto abbandonare la stazione e sopravvivere, sulla Terra poteva atterrare solo un essere umano, provvisto di documenti. Il primo controllo avrebbe posto termine alla fuga. Avrebbero cercato di identificarla, ci avrebbero separati. La stazione era l’unico luogo dove potessimo vivere insieme. E Harey, lo sapeva? Sicuramente. Gliel’aveva detto qualcuno? Certamente sì, alla luce di ciò che ancora doveva accadere.

Una notte udii, nel sonno, che Harey si alzava silenziosamente. Volevo abbracciarla. Solo nel silenzio, nel buio, potevamo per un attimo liberarci dalla disperazione, dimenticare noi stessi, nella tortura che ci braccava da ogni lato. Non si accorse che mi ero svegliato. Prima che riuscissi ad alzare la mano, scese dal letto. Sentii, sempre nel dormiveglia, il rumore del suo passo scalzo. Mi invase un’oscura paura.

— Harey? — sussurrai. Volevo gridare, ma non ci riuscii. Sedetti sul letto. La porta che dava sul corridoio era appena socchiusa. Un filo di luce attraversava la cabina. Mi pareva di udire delle voci. Parlava con qualcuno? Con chi? Saltai giù dal letto, ero terrorizzato, le gambe mi tremavano, rimasi inchiodato, tendendo l’orecchio: silenzio. Lentamente tornai a sdraiarmi. La testa mi scoppiava dalle pulsazioni. Cominciai a contarle. Mi avvicinavo a mille, quando mi interruppi.

La porta si aprì senza il minimo rumore. Harey scivolò nel letto, rimase immobile, come se ascoltasse il mio respiro, tentai di farlo sembrare regolare. — Chris…? — sussurrò piano.

Non risposi. Alla svelta, si coricò. Sentivo che rimaneva rigida, e io non mi mossi, non so per quanto tempo. Provavo a escogitare una domanda; però, più tempo passava, più mi accorgevo che non avrei parlato per primo. Poi mi addormentai, forse dopo un’ora.

La mattina fu uguale alle altre. La guardavo di soppiatto, quando non poteva vedermi. Dopo pranzo eravamo seduti l’uno accanto all’altra, dinanzi alla grande vetrata ricurva, dietro la quale passavano delle nubi color ruggine. La stazione le tagliava come una nave. Mentre Harey leggeva un libro io stavo a osservarla, spesso unico svago possibile. A un tratto mi accorsi che, sporgendomi con la testa in un certo modo, potevo vedere nel vetro il riflesso di noi due, trasparente, però chiaro. Tolsi la mano dal bracciolo. Harey (la vidi nel vetro), dopo essersi assicurata con una rapida occhiata che guardavo verso l’oceano, si chinò sul bracciolo e toccò con le labbra il punto dove si era posata la mia mano poco prima. Rimasi ancora seduto così, irrigidito in modo innaturale, e lei tornò ad abbassare la testa sul libro.

— Harey — dissi piano, — dove sei stata questa notte?

— Stanotte?

— Sì.

— Te… lo sei sognato, Chris. Non sono mai uscita.

— Non sei uscita?

— No, devi essertelo sognato.

— Forse — dissi. — E’ possibile che abbia sognato…

La sera, quando andammo a letto, ricominciai a parlare del nostro ritorno sulla Terra.

— Ah, non voglio sentire — disse. — Non parlarmene, Chris.

Sai…

— Che cosa?

— No. Niente.

Mentre eravamo sdraiati, disse di avere sete.

— Là, sul tavolo, c’è un bicchiere di succo di frutta, prendimelo, ti prego. — Ne bevve una metà e me lo passò. Non avevo voglia di bere.

— Alla mia salute. — Sorrise. Sorseggiai il succo di frutta, che mi sembrò un po’ salato, ma non ci feci molto caso. — Se non vuoi che parli della Terra, di che cosa vuoi che parli? — domandai quando spense la luce.

— Se io non ci fossi, ti sposeresti?

— No.

— Mai?

— Mai.

— Perché?

— Non lo so. Sono stato da solo per dieci anni e non mi sono sposato. Be’, non parliamo di questo, amore…

La testa mi ronzava come se avessi scolato una bottiglia di vino.

— Parliamo, sì, parliamo. E se io te lo chiedessi?

— Che io mi sposi? E’ assurdo, Harey. Non ho bisogno di nessuno, tranne te.

Si chinò su di me. Sentivo il suo respiro, mi abbracciò così forte che per un attimo il sonno che avevo mi passò completamente.

— Dimmelo in un altro modo.

— Ti amo.

Si abbatté con la sua testa sulla mia spalla, sentii le sue ciglia che fremevano, le sue lacrime.

— Harey, cos’hai?

— Niente… niente… niente — ripeté piano.

Cercavo di tenere gli occhi aperti perché mi si chiudevano da soli. Non so quando, mi addormentai.

Mi svegliò l’alba rossa. Mi sembrava di avere la testa di piombo, e la nuca era irrigidita, come se tutte le vertebre fossero saldate in un unico osso. Avevo la lingua impastata, non riuscivo a muoverla nella bocca. «Devo essermi intossicato con qualche cosa» pensai alzando con sforzo la testa. Con una mano cercavo Harey. Trovai solo il lenzuolo freddo. Mi alzai di colpo.

Il letto era vuoto. Nella cabina, nessuno. La vetrata curva rifletteva una fila di soli rosa. Saltai a terra. Dovevo sembrare comico, poiché ciondolavo come un ubriaco.

Mi aggrappai agli oggetti; mi precipitai all’armadio scorrevole: il bagno era vuoto. Il corridoio anche. E nel laboratorio non c’era nessuno.

— Harey! — urlai in mezzo al corridoio, muovendo disperatamente le braccia. — Harey! — gracchiai ancora una volta; avevo già capito.

Non ricordo più che cosa sia successo in seguito. Devo avere corso seminudo per tutta la stazione, ricordo che entrai nella cella frigorifera, e fin nell’ultimo magazzino, picchiando con i pugni contro le porte sbarrate. Forse c’ero stato già una volta. Le scale rimbombavano, cadevo e di nuovo, alzandomi, correvo, finché trovai un ostacolo trasparente, dietro il quale c’era l’uscita esterna: erano le doppie porte blindate.

Urlavo, c’era qualcuno vicino a me che cercava di fermarmi.

Mi trovai poi nel piccolo laboratorio con la camicia bagnata di acqua gelata, con i capelli appiccicati, il naso, la lingua mi bruciavano per l’alcol, ero sdraiato sul lettino metallico; Snaut era nella sua solita tenuta, calzoni macchiati, eccetera eccetera, cercava qualcosa, forse qualche medicina, rovesciava tutto, provocando un gran baccano. Mi guardò negli occhi fisso, attento…

— Dov’è?

— Non c’è.

— Ma Harey…

— Non c’è più Harey — disse lentamente, avvicinando la sua faccia alla mia, come se mi avesse dato un colpo e ne osservasse le conseguenze.

— Tornerà — sussurrai, chiudendo gli occhi. E per la prima volta non ne ebbi davvero timore. Non avevo più paura della sua fantastica apparizione. Non capivo come avessi potuto temerla!

— Bevi questo.

Mi diede un bicchiere con un liquido caldo. Lo guardai e improvvisamente gli buttai il contenuto in faccia. Indietreggiò asciugandosi gli occhi. Quando li aprì, gli ero davanti.

Era così piccolo.

— Sei stato tu!

— Di che parli?

— Non dire bugie, lo sai, di che. Tu hai parlato con lei l’altra sera! E le hai consigliato di darmi il sonnifero…! Che hai fatto di lei? Parla!

Cercava qualcosa sul petto. Estrasse una piccola busta.

Gliela strappai di mano. Era chiusa. Non aveva indirizzo.

L’aprii. Dall’interno cadde un foglio piegato in quattro. Una grafia grande, un po’ infantile, non bene allineata. La riconobbi.

«Caro, sono stata io a chiederlo. Lui è buono. Ho dovuto mentire, è brutto, ma non sarei riuscita in altro modo. Puoi fare una cosa per me? Ascoltalo, e non farti del male. Sei stato fantastico.»

Sotto aveva scarabocchiato tra virgolette «Harey», e dopo averlo scritto lo aveva cancellato; c’era un’altra lettera, come H o K, diventata una macchia. Lessi la lettera una, e ancora un’altra volta. E ancora. Ero troppo lucido per abbandonarmi all’isterismo, non potevo lamentarmi; non trovavo nemmeno la voce.

— Come? — sussurrai. — Come?

— Dopo, Kelvin. Sta’ calmo.

— Sto calmo. Parla. Come?

— L’annichilitore.

— Come? Quell’apparecchio? — sussultai.

— L’apparecchio di Roche non serviva. Sartorius ne ha costruito un altro; un destabilizzatore speciale. Piccolo. Che funziona solo a una distanza di pochi metri.

— Che cosa le è accaduto?

— E’ sparita. Un balenio e un soffio. Un soffio leggero.

Niente di più.

— A piccola distanza, hai detto!

— Sì. Per un apparecchio grande non c’era materiale sufficiente.

Improvvisamente le pareti cominciarono a spostarsi. Chiusi gli occhi.

— Mio Dio… lei… tornerà, tornerà…

— No.

— Come no?

— No, Kelvin. Ti ricordi quelle schiume volanti? Da allora, non tornano più.

— Ah, no?

— No.

— L’hai uccisa — dissi piano.

— Sì. Tu non lo avresti fatto? Al mio posto?

Mi alzai e cominciai a camminare, ogni volta più in fretta.

Dalla parete all’angolo e ritorno. Nove passi. Giro. Nove passi.

Mi fermai davanti a lui.

— Senti, faremo un rapporto. Chiederemo il collegamento diretto col Consiglio. E’ possibile farlo. Saranno d’accordo.

Devono. Il pianeta sarà escluso dalla convenzione dei Quattro. Tutti i mezzi saranno permessi. Importeremo i generatori antimateria. Pensi che ci sia qualcosa che riesca a resistere all’antimateria? No, non c’è! Niente! Niente! — urlavo trionfalmente, accecato dalle lacrime.

— Vuoi distruggerlo? — disse. — Perché?

— Esci. Lasciami!

— Non me ne andrò.

— Snaut!

Lo guardavo negli occhi.

— No — disse con un movimento della testa.

— Che cosa vuoi? Che cosa vuoi da me?

Retrocesse fino al tavolo: — Bene. Faremo il rapporto.

Mi girai e cominciai a camminare.

— Siediti.

— Lasciami in pace.

— Le questioni sono due. La prima è relativa ai fatti. La seconda riguarda i nostri desideri.

— Dobbiamo parlarne proprio adesso?

— Sì, adesso.

— Non voglio. Hai capito? Non me ne importa niente.

— Abbiamo mandato l’ultimo comunicato prima della morte di Gibarian. Sarà stato due mesi fa. Dobbiamo definire il preciso andamento delle apparizioni…

— Non la pianti? — lo presi per il braccio.

— Picchiami pure — disse. — Parlerò ugualmente.

Lo lasciai andare.

— Fa’ quel che vuoi.

— Riguardo a Sartorius, cercherà di nascondere alcuni fatti, ne sono quasi certo.

— E tu no?

— No. Adesso non più. Non è affare solo nostro. Si tratta… lo sai di che cosa si tratta. Ha dato prova di azione intelligente. Capacità di operare una sintesi organica al più alto livello, cosa che noi non sappiamo fare. Conosce la struttura, la microstruttura, il metabolismo dei nostri corpi…

— Be’? — dissi. — Perché non continui? Ha fatto su di noi una serie… una serie di esperimenti. Una vivisezione psicologica.

In base alla conoscenza rubata ai nostri cervelli, senza tenere conto delle nostre aspirazioni.

— Questi non sono fatti, né conclusioni, Kelvin. Sono delle ipotesi. In un certo senso, ha tenuto conto di ciò che voleva una certa parte nascosta del nostro cervello. Forse ci mandava… dei regali.

— Regali? Mio Dio! — mi misi a ridere.

— Piantala! — urlò, prendendomi per il braccio. Afferrai la sua mano e la strinsi. La strinsi sempre di più, fino a fare scricchiolare le dita. Mi guardava con gli occhi socchiusi, senza vacillare.

Lo lasciai e me ne andai in un angolo. Ritto, con la faccia rivolta alla parete, dissi: — Cercherò di dominarmi.

— Lascia perdere. Che cosa chiederemo?

— Dimmelo tu. Io ora non posso. Ha detto qualcosa prima che…?

— Niente. A parer mio, c’è veramente una probabilità, adesso.

— Probabilità? Quale? Per che cosa? Ah… — dissi adagio, guardandolo negli occhi, poiché avevo capito improvvisamente. — Il contatto? Ancora il contatto? Non abbiamo sofferto abbastanza? E tu? Tu stesso, in questa gabbia di matti… contatto? No, no, no. Senza di me.

— Perché? — domandò tranquillamente. — Kelvin, anche tu, istintivamente, continui a trattarlo come un essere umano. Lo odi.

— E tu no…? — aggiunsi.

— No, Kelvin, è cieco…

— Cieco? — domandai, incerto di avere capito bene.

— Nel nostro senso, naturalmente. Non esistiamo, per lui, come esistiamo fra noi. La superficie della faccia, il corpo che vediamo ci danno la possibilità di riconoscerci. Per lui, siamo come un vetro trasparente. Per questo può introdursi all’interno dei nostri cervelli.

— Bene, e allora? Dove vuoi arrivare? Se è riuscito ad animare, a creare un essere che esiste solo nella mia memoria e a imitare in tal modo i suoi occhi, i suoi movimenti, la sua voce…

— Continua! Continua a parlare, hai capito?

— Parlo… sì. Allora… la sua voce… Ciò vuol dire che può leggere in noi come in un libro aperto. Sai che cosa sto dicendo?

— Sì. Che, se volesse, potrebbe comunicare con noi?

— Naturalmente. Non è chiaro?

— Assolutamente no. Forse si è servito di una formula di produzione che non era espressa in parole. Come uno schema memorizzato in una struttura di albumina. Come la testa di uno spermatozoo, o un uovo. Non ci sono nel cervello parole, sentimenti, ricordi umani, è solo un quadro trascritto nel linguaggio degli acidi nucleici su grosse molecole asincrone.

Così lui ha preso ciò che c’era di più chiaro in noi, ciò che era più chiuso, più pieno, più impresso, capisci? Non aveva assolutamente bisogno di sapere che significato avesse per noi. E’ come se noi riuscissimo a creare un simmetriade e poi lo gettassimo nell’oceano, conoscendo l’architettura, la tecnologia e il materiale di costruzione, però senza sapere a che cosa serva e che cosa significhi per lui…

— E’ possibile — dissi. — Sì, è possibile. In tal caso lui non ha… può essere che non abbia voluto affatto schiacciarci.

Può darsi. E, senza volerlo…

Le labbra cominciavano a tremarmi.

— Kelvin!

— Sì, sì. Bene. Niente. Tu sei buono. Anche lui. Tutti sono buoni. Allora perché? Spiegamelo. Perché? Perché lo hai fatto? Cosa le hai detto?

— La verità.

— La verità, la verità! Quale?

— Lo sai. Vieni da me. Incominceremo a scrivere il rapporto. Vieni.

— Aspetta un po’. Che cosa vuoi, di preciso? Non vorrai mica rimanere nella stazione…?

— Voglio rimanere. Sì.

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