12. SOGNI

Sei giorni dopo, non essendoci stata alcuna reazione, ripetemmo l’esperimento. La stazione, rimasta ferma fino a quel momento all’incrocio tra il 43esimo parallelo e il 116esimo meridiano, si spostò verso sud planando a un’altezza di quattrocento metri sopra l’oceano, poiché i rilevatori dei nostri radar e i radiogrammi del satellite segnalavano una ripresa di attività del plasma nell’emisfero australe.

Il fascio invisibile di raggi X modulati dal mio encefalogramma colpì per due giorni a intervalli di alcune ore la superficie dell’oceano, completamente piatta.

Al termine del secondo giorno eravamo così vicini al Polo che, quando tutto il disco solare azzurro calò dietro l’orizzonte, già dal lato opposto le nubi gonfie s’imporporavano annunciando il levarsi del sole rosso. Nel mezzo, l’immensità nera dell’oceano e il sovrastante cielo vuoto divennero teatro di un parapiglia veemente e abbacinante fra uno sfavillio d’un verde duro e virulento dai riflessi di metallo incandescente e i cupi bagliori purpurei; l’oceano stesso partecipava alla contesa dei riflessi dei due dischi rivali, dei due focolai divampanti, l’uno argento vivo, l’altro scarlatto, e qualsiasi nuvoletta che transitasse allo zenit bastava a incendiare di luccichii iridati la schiuma sul pendio delle onde. Subito dopo il tramonto azzurro, sull’ultimo orizzonte di nordovest, nel velo della foschia rugginosa e con splendori intermittenti, spuntò sulla linea fra cielo e plasma un gigantesco fiore di vetro: un simmetriade. La stazione non cambiò rotta e in capo a un quarto d’ora il colossale rubino si spense come una lampada vacillante dietro l’orizzonte. Pochi minuti dopo una colonna alta e sottile, di cui non si vedeva la base nascosta dalla curvatura del pianeta, si elevò silenziosa nell’atmosfera per alcune migliaia di metri. Annunciando la fine del simmetriade avvistato poco prima, il tronco per metà avvampato di rosso, per metà lucente come l’argento vivo, continuò a crescere, albero bicolore diviso in cima in una profusione di ramificazioni le cui punte, riunendosi, formarono un enorme fungo illuminato dai due soli, e la testa di questo prese il volo nel vento mentre la parte inferiore, enfiata, si scomponeva in grossi grappoli e lentamente affondava. In capo a un’ora lo spettacolo era sparito senza lasciare traccia.

Passarono ancora due giorni. L’esperimento fu ripetuto per l’ultima volta. Le radiazioni avevano ormai spazzato una vasta distesa di superficie plasmatica. A sud spuntarono, chiaramente visibili dalla nostra altitudine, sebbene fossimo lontani trecento chilometri, gli Arrhenidi, una catena rocciosa con sei picchi che parevano coperti di neve, mentre in realtà si trattava di depositi di origine organica, che dimostravano come questa formazione montuosa fosse stata un tempo in fondo all’oceano.

Cambiammo la rotta, procedendo per sudest, e per un certo tempo avanzammo parallelamente alla barriera di monti coperti di nuvole, tipiche del giorno rosso; infine li perdemmo di vista. Dal primo tentativo erano trascorsi dieci giorni.

Durante tutto questo tempo nella stazione pareva che non accadesse niente. Dopo che Sartorius aveva programmato inizialmente l’esperimento c’era un apparecchio automatico che lo ripeteva, e non sono nemmeno sicuro che qualcuno s’incaricasse di controllarne il regolare funzionamento. Al tempo stesso, però, nella stazione accadeva anche più di quanto ci si potesse augurare. E non da uomo a uomo. Io temevo che Sartorius mandasse avanti i suoi lavori per l’approntamento dell’annichilitore; aspettavo la reazione di Snaut quando avrebbe saputo dall’altro che lo avevo tratto in inganno esagerando i pericoli insiti nell’annientamento di una materia neutrinica. Tuttavia non accadeva nulla del genere per motivi che mi rimanevano assolutamente sconosciuti; beninteso, avevo presente la possibilità che avessero intrapreso qualche lavoro in segreto. Tutti i giorni andavo a dare un’occhiata nel locale dove si trovava l’annichilitore, ma non c’era mai nessuno, e la polvere depositata sulla copertura metallica e sui cavi dimostrava che non erano stati toccati da varie settimane.

Snaut, intanto, era diventato invisibile quanto Sartorius, e ancor più irreperibile poiché il videotelefono della cabina radio non rispondeva alle chiamate. Qualcuno doveva pur dirigere i movimenti della stazione, ma non sapevo chi. Né questo m’interessava, per quanto strano possa sembrare. Anche della mancanza di reazioni da parte dell’oceano m’importava poco, al punto che in capo a due o tre giorni avevo cessato di aspettarmele o di temerle; mi ero dimenticato e di loro e dell’esperimento. Passavo giornate intere seduto nella biblioteca o nella cabina con Harey, che mi seguiva come un’ombra.

Vedevo che fra noi stagnava un malessere, e questo stato di provvisorietà apatica e immemore non poteva durare indefinitamente. Avrei dovuto vincerlo, dare un altro corso ai nostri rapporti, ma respingevo il solo pensiero di un cambiamento. Ero incapace di prendere una decisione; non sapevo spiegarmelo se non con l’impressione che ogni cosa nella stazione, e soprattutto ciò che c’era tra Harey e me, fosse un’impalcatura in equilibrio instabile, pericolante, pronta a crollare in ogni istante. Perché? Non lo so. La cosa più strana era che anche lei provava più o meno la stessa sensazione. Se ci ripenso ora, mi sembra chiaro che attraverso questa impressione d’insicurezza, di sospensione, questo presentimento di cataclisma incombente, si manifestasse una presenza che aveva riempito ogni ponte e ogni spazio della stazione. Forse prendeva corpo anche per un’altra via: i sogni. Poiché non ho mai avuto simili visioni prima d’allora (né in seguito), mi risolsi a prendere talvolta degli appunti sul loro contenuto, e solo in virtù di ciò posso ora recuperarne una parte, seppur incompleta, e priva della loro sconvolgente pienezza.

In un contesto che non si lascia esprimere appieno, in uno spazio senza cielo né terra, senza pavimento, soffitto o pareti, stavo come acciambellato o imprigionato in una materia estranea, quasi che tutto il corpo fosse rivestito di una sostanza semimorta, immobile, informe; o meglio, quasi che io fossi senza corpo, circondato da macchie indefinite di un colore rosa chiaro, sospese in un elemento che aveva proprietà ottiche diverse da quelle dell’aria, tale che le cose vicine diventavano chiare, ma di una chiarezza innaturale, immensa, poiché in questi sogni l’ambiente adiacente superava per evidenza materiale l’impressione della realtà. Nello svegliarmi avevo la sensazione paradossale che la realtà vera fosse quella, e che quanto vedevo riaprendo gli occhi fosse solo un’ombra.

Questo era il primo atto, l’esordio dal quale si sviluppava il sogno. Intorno a me qualcosa aspettava il mio consenso, il mio accordo, un cenno di gradimento interiore, e io sapevo, o qualcosa in me sapeva, che non dovevo cedere alla tentazione incomprensibile, poiché, quanto più — in silenzio — promettevo, tanto peggiore sarebbe stata la fine. O forse non lo sapevo, perché altrimenti avrei avuto paura, mentre non l’ho mai provata. Aspettavo. Dalla nebbia rosea che mi circondava emergeva la prima pressione tattile e io, immobile come un ciocco, imprigionato in quella materia che mi racchiudeva, non potevo né retrocedere né dibattermi mentre essa esaminava la mia prigionia con tocchi ciechi e insieme vigili; ed era come se la palma di una mano mi creasse: non avevo avuto vista fino ad allora e adesso vedevo, sotto il tocco delle dita che andavano tastandomi emergevano dal nulla le mie labbra, le guance, e a mano a mano che questo tocco infinitesimale si estendeva io avevo un viso, un torso provvisto di respiro, richiamati in vita solo da quell’atto di creazione; atto simmetrico, poiché creato a mia volta creavo e mi appariva dinanzi un viso mai visto, straniero, noto, che io cercavo di guardare negli occhi senza riuscirci in quelle proporzioni cambiate, in quell’assenza di ogni direzione per cui solo in un silenzio raccolto ci scoprivamo vicendevolmente, io rinato alla vita e pieno d’illimitata forza e l’altro essere — una donna? — che durava insieme con me nell’immobilità. Una pulsazione ci colmava ed eravamo tutt’uno quando a un tratto, nella lentezza della scena al di fuori della quale niente esisteva né poteva esistere, si inseriva una crudeltà indicibile, un’impossibilità, un’antinatura. Quello stesso tocco invisibile che ci aveva creati dal nulla e aderiva ai nostri corpi come un manto dorato diventava un formicolio. I nostri corpi nudi e bianchi cominciavano a dissolversi, ad annerire in un brulichio di vermi che ci portava via nell’aria, e io ero, noi eravamo, io ero una massa brillante di vermi che si contorcevano annodandosi e sciogliendosi febbrilmente senza fine, infinitamente; e in questa infinità — no! — io, questa infinità, invocavo muto l’estinzione, e cominciavo allora a diffondermi in tutte le direzioni e la mia sofferenza, più viva di qualsiasi dolore provato da sveglio, si gonfiava centuplicata, si addensava in una lontananza rossa e nera, in breve diventava dura come la roccia, una vetta di dolore nei raggi di un altro sole o di un altro universo.

Questo era uno dei sogni più semplici, gli altri non riesco a raccontarli perché l’orrore che provocavano non trova espressioni corrispondenti nello stato di veglia cosciente. In questi sogni ignoravo l’esistenza di Harey, ma non trovavo neanche memorie di altre esperienze vissute durante il giorno.

C’erano anche altri sogni, che cominciavano in tenebre senza vita, in cui sentivo di essere auscultato lentamente, minuziosamente, ma senza venire toccato da uno strumento o da una mano; era una penetrazione, una distruzione, una dispersione, e l’ultimo stadio, il fondo di questo silenzioso annientamento, era la paura, una paura il cui solo ricordo basta oggi ad accelerare i palpiti del mio cuore.

I giorni uguali e scialbi, pieni di noia e di avversione per tutto, strisciavano via lentamente in una indifferenza infinita, avevo soltanto orrore della notte e non sapevo come sottrarmici; rimanevo sveglio con Harey, che peraltro non aveva assolutamente bisogno di dormire, la baciavo e la accarezzavo, però sapevo che non facevo questo per lei né per me, ma solo per ritardare il momento di addormentarmi. Non le avevo detto una sola parola dei miei tremendi incubi, ma doveva avere indovinato, poiché sentivo il suo stato cosciente di umiliazione: non potevo farci nulla. Ho già detto che con Snaut e Sartorius non ci eravamo più visti; Snaut ogni tanto si faceva vivo, con un biglietto e, più spesso, chiamandomi per telefono. Mi chiedeva se avessi notato qualche fenomeno nuovo, qualche cambiamento, qualcosa che si potesse interpretare come una reazione provocata dall’esperimento. Gli dicevo di no, e gli restituivo la domanda. Snaut negava con un semplice cenno del capo in fondo al video.

Il quindicesimo giorno dopo il termine della sperimentazione mi svegliai prima del solito, spossato dall’incubo avuto; aprii gli occhi assonnati, come se mi svegliassi da una profonda narcosi. Attraverso la finestra non oscurata vedevo il primo splendore del sole rosso prolungato come un fiume purpureo che tagliava l’oceano; la superficie rimasta sino ad allora senza vita si stava intorbidendo. Il nero impallidiva di colpo, coprendosi di un velo sottile di nebbia, ma sembrava che questa nebbia avesse consistenza corporea. Qua e là nascevano dei centri di turbolenza, finché un movimento indefinito non avvolse tutto quello spazio invisibile. Il nero sparì completamente, coperto da una pellicola ondulata rosa chiaro che, nelle cavità, era marrone perlaceo. I colori cangianti su questa strana copertura sospesa sull’oceano formarono lunghi filamenti solidificati, traballanti nell’agitazione crescente delle onde, e infine si mescolarono e tutto l’oceano si coprì di schiuma insieme a enormi brandelli che si alzavano fin sotto la stazione. Si levarono da tutti i lati, improvvisamente, verso il cielo color ruggine, come lembi gonfi che non avevano alcuna somiglianza con le nuvole. Quelli che con le loro strisce coprivano il basso disco solare parevano per contrasto neri come il carbone; gli altri, secondo l’angolo con cui venivano colpiti dai raggi dell’est, arrugginivano, si accendevano di colore amaranto; col proseguire di questo processo sembrò che l’oceano si squamasse in strati sanguigni, che mostravano da sotto la loro superficie nera per ricoprirsi di un nuovo strato di schiuma cristallizzata. Qualcuna di queste formazioni planava vicino alle nostre finestre, passando appena a qualche metro di distanza, anzi una volta sfiorando il vetro con la superficie simile a seta, e mentre nuove creazioni si alzavano nello spazio, gli sciami precedenti, alti nel cielo, si dissolvevano come uccelli allo zenit e sparivano in un cielo trasparente.

La stazione si fermò, immobile; rimase così per circa tre ore, e lo spettacolo non terminava. Il sole calò dietro l’orizzonte, l’oceano sotto di noi si coprì di tenebre, e ancora miriadi di forme slanciate e arrossate salivano a stormi, sempre più in alto, scorrendo in file interminabili, come sollevate da corde invisibili, impalpabili, imponderabili; e questo ingresso maestoso nel cielo di creazioni dalle ali lacerate durò finché non furono inghiottite dalle tenebre.

Lo spettacolo, tranquillo ma immane, impaurì Harey, ma non ero in grado di dirle niente, poiché era nuovo e incomprensibile per me, solarista, quanto per lei. Ma forme e creazioni che non figurano in nessun catalogo si possono osservare, su Solaris, più o meno due o tre volte all’anno e, con un pizzico di fortuna, anche qualche volta di più.

La notte seguente, circa un’ora dopo il tramonto del sole azzurro, inaspettatamente fummo testimoni di un altro fenomeno: l’oceano divenne fosforescente. All’improvviso sulla sua superficie apparvero delle macchie singole di luce bianca, che si muovevano col ritmo delle onde. Rapidamente esse si allargarono, si fusero fino a estendersi su tutto l’orizzonte. L’intensità della luce aumentò per quindici minuti, poi il fenomeno finì in modo sorprendente: l’oceano cominciò a spegnersi, da ovest si avvicinò una zona di buio su un fronte di un centinaio di chilometri, che raggiunse la stazione e la oltrepassò, mentre il chiarore fosforescente dell’oceano fuggiva dinanzi a quello spegnitoio gigantesco, verso est. Raggiunto l’orizzonte, divenne come una immensa aurora boreale e sparì improvvisamente. Quando si levò il sole, una superficie vuota e morta, appena segnata dalle onde, mandò riflessi di argento verso le finestre della stazione di Solaris. La fosforescenza dell’oceano era un fenomeno già catalogato: certe volte si manifestava poco prima dello scoppio degli asimmetriadi; a parte ciò, era un tipico sintomo di aumento d’attività del plasma. Comunque, nelle due settimane seguenti non successe niente, né fuori né all’interno della stazione.

Solo una volta, in piena notte, udii come un urlo lontano proveniente da ogni parte e da nessuna, straordinariamente alto, acuto e prolungato, simile a un vagito sovrumano; destandomi da un incubo, giacqui a lungo tendendo l’orecchio: era un sogno…? Il giorno prima, dal laboratorio, che stava in parte sopra la nostra cabina, erano giunti dei rumori come se venissero spostati dei grossi pesi o degli apparecchi; mi sembrava che anche questo grido venisse da sopra, cosa in realtà impossibile, poiché gli ambienti erano divisi da soffitti insonorizzati. Questa voce di agonia continuò quasi per mezz’ora.

Bagnato dal sudore, semimpazzito, volevo correre su, tanto mi scuoteva i nervi. Improvvisamente tacque. Continuai a udire solo il rumore degli spostamenti di pesi.

Due giorni dopo, di sera, ero seduto con Harey nella piccola cucina, quando tutt’a un tratto entrò Snaut. Indossava un vestito, un vero vestito terrestre da città, che lo faceva apparire diverso. Sembrava più alto e più vecchio. Quasi senza rivolgerci uno sguardo si avvicinò al tavolo, si chinò su di esso e senza sedersi cominciò a mangiare della carne fredda direttamente dalla scatola, col pane. Intingeva il polso della manica nella scatola, macchiandosi di grasso.

— Ti ungi — dissi.

— Uhm — mugolò a bocca piena.

Mangiava come se non avesse messo niente nello stomaco da giorni, si versò mezzo bicchiere di vino, lo bevve d’un sorso, si pulì le labbra e, prendendo fiato, girò intorno gli occhi arrossati. Mi guardò e borbottò: — Ti sei lasciato crescere la barba…? Be’, be’…

Harey ammucchiava le stoviglie nel lavandino con fracasso. Snaut cominciò a dondolarsi sui tacchi, a fare smorfie succhiando con rumore per pulirsi i denti. Ebbi quasi l’impressione che lo facesse apposta.

— Non hai voglia di raderti, vero? — domandò, guardandomi insistentemente.

Non risposi.

— Stai attento! — aggiunse dopo un momento. — Ti avverto.

Anche lui aveva incominciato a non radersi.

— Va’ a dormire — borbottai.

— Cosa? Perché non possiamo chiacchierare un po’?

Ascolta, Kelvin, non può darsi che ci auguri solo del bene?

Che voglia farci contenti, però non sa come? Forse indovina i nostri desideri dal nostro cervello, e solo il due per cento dei processi nervosi sono coscienti. Forse ci conosce meglio di noi stessi. Bisognerebbe intendersi con lui. Mettersi d’accordo. Che ne pensi? Non vuoi? Perché… — la sua voce fu rotta da una specie di singhiozzo — perché non ti radi?

— Piantala! — brontolai. — Sei ubriaco.

— Cosa? Ubriaco? Io? Ebbene? L’uomo che ha portato il peso del suo sterco da una parte all’altra della galassia per sapere quanto vale non può ubriacarsi? Perché? Tu credi nella missione umana, eh, Kelvin? Gibarian mi ha parlato di te, quando non si lasciava ancora crescere la barba… Sei proprio come ti aveva descritto… Non andare nel laboratorio, perderesti la fede… Lì è all’opera Sartorius, il nostro dottor Faust à rebours: cerca un rimedio contro l’immortalità, sai? E’ l’ultimo cavaliere del Santo Contatto, tutto quel che, nel genere, possiamo avere… la sua ultima invenzione non era mica male… prolungamento dell’agonia. Buona questa, eh? «Agonia perpetua»… Un filo di paglia… un cappelluccio di paglia… Come puoi non bere, Kelvin? — I suoi occhi quasi non si vedevano sotto le palpebre gonfie. Guardò Harey, che stava immobile contro la parete. — «Oh, Afrodite bianca, nata dall’oceano, toccata da Dio, la tua mano…» — cominciò a declamare, e scoppiò a ridere. — Quasi perfetto… eh Kel… vin…? — borbottò tossendo.

Conservai la calma, ma questa tranquillità cominciava a trasformarsi in fredda ira.

— Finiscila! — urlai. — Finiscila e vattene!

— Mi sbatti fuori? Anche tu? Ti lasci crescere la barba e mi sbatti fuori? Non vuoi che ti avverta e ti consigli, come un vero compagno stellare? Kelvin, apriamo i portellini sul fondo, mettiamoci a chiamare, a chiamarlo, là sotto, forse ci udrà! Ma che nome ha? Ci pensi, che abbiamo dato un nome a stelle e pianeti che forse ne avevano già uno per conto loro? Che usurpazione! Senti, andiamo giù. Ci metteremo a urlare e… gli diremo che tiro ci ha giocato, fino a che sia sconvolto… allora ci costruirà un simmetriade argentato e pregherà per noi con la sua matematica e ci inonderà dei suoi angeli insanguinati, e il suo dolore sarà il nostro, la sua paura diventerà anche la nostra e ci supplicherà di aiutarlo a finirla.

Perché non ridi? Sto solo scherzando. Forse, se come razza avessimo un senso dell’umorismo più spiccato, non saremmo a questo punto. Lo sai che cosa vuole fare, lui? Vuole punirlo, questo oceano, vuole costringerlo a urlare con tutte le sue montagne insieme… Pensi che non avrà il coraggio di presentare un simile piano all’approvazione di quello sclerotico areopago che ci ha mandati qua per la redenzione delle altrui colpe? Hai ragione, avrà paura… ma solo per il cappelluccio.

Il cappelluccio non sarà rivelato a nessuno, non è coraggioso, a questo punto, il nostro Faust…

Tacevo. Snaut continuava a barcollare sulle gambe. Le lacrime scendevano dalla sua faccia bagnando il vestito.

— Chi ha fatto questo? Chi di noi ha fatto questo?

Gibarian? Giese? Einstein? Platone? Tutti delinquenti, sai!

Pensa che in un razzo l’uomo può scoppiare come un pallone o restare pietrificato, o andare arrosto, e poi rimangono solo gli ossicini, a ballonzolare fra le pareti di latta, sulle orbite del progresso! Noi abbiamo seguito, con gioia, questa stupenda via… e siamo arrivati, e in queste celle, sopra questi piatti, tra immortali lavandini, con una schiera di armadi fedeli, di gabinetti affezionati, qua c’è la nostra realizzazione…

Guarda, Kelvin. Se non fossi ubriaco non avrei parlato in questo modo, ma qualcuno, alla fine, deve parlare. Qualcuno, alla fine, deve parlare! Te ne stai seduto, come un bambino in un mattatoio, e ti cresce il pelo… Di chi è la colpa? Risponditi da solo…

Lentamente si girò e uscì, sulla soglia si aggrappò allo stipite per non cadere. Si udiva ancora l’eco dei suoi passi che risuonavano nel corridoio. Evitai di guardare Harey, però i nostri occhi si incrociarono. Avrei voluto avvicinarmi a lei, accarezzarle i capelli, ma non potevo. Non potevo.

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