1. L’ARRIVO

Alle diciannove, ora di bordo, passai in mezzo ai meccanici, fermi accanto al pozzo di lancio, e per la scaletta a mano scesi nella capsula. Ci stava giusto un uomo, con lo spazio appena sufficiente per muovere i gomiti. Una volta avvitata sulla paratia la bocchetta del mio sistema pneumatico antiaccelerazione, la tuta si gonfiò e da quell’istante non potei più fare neanche il minimo movimento. In posizione eretta, anzi, direi sospeso in un cuscino d’aria, ero tutt’uno con lo scafo.

Alzai gli occhi e vidi, attraverso il vetro dell’oblò, la parete del pozzo e, sopra, la faccia di Moddard. Subito quell’immagine sparì; scese il buio: si era chiuso lo schermo di protezione. Intanto gli inservienti stavano sistemando il cono antitermico. Udii otto volte il fischio degli avvitatori elettrici che stringevano i bulloni. Poi il sibilo dell’aria che sfuggiva dagli ammortizzatori, raggiunta la pressione di esercizio. La mia vista si stava adattando all’oscurità, cominciavo a intravedere il quadrante verdeazzurro dell’unico indicatore presente nell’abitacolo.

— Pronto, Kelvin? — risuonò negli auricolari.

— Pronto, Moddard — risposi.

— Non devi preoccuparti di niente. Della manovra si occuperà la stazione — disse. — Buon viaggio.

Prima che potessi replicare, udii uno scricchiolio e la capsula tremò. Tesi i muscoli, istintivamente, ma non accadde nulla.

— Quando si parte? — chiesi, mentre udivo un rumore simile a quello dei sassolini che colpiscono un tamburo.

— Sei in volo, Kelvin. Buona fortuna! — mi giunse chiara la voce di Moddard.

Prima che me ne rendessi conto, si aprì una fessura nello schermo di protezione, all’altezza dei miei occhi, e finalmente scorsi le stelle. Cercai di rintracciare l’Alfa dell’Acquario, verso cui si allontanava il Prometheus, ma non riconobbi alcuna costellazione. In quel settore della Galassia il cielo non mi diceva niente, quello che vedevo al di là del vetro era solo uno sciame di stelle sfavillanti ma anonime. Attesi che ne comparisse una più grande delle altre, ma presto non potei più distinguerle. A una a una tutte impallidivano fino a svanire, si confondevano in un’unica macchia rossiccia e luminosa, la sola indicazione del tratto che avevo già percorso.

Rigido, avvolto nel cuscino pneumatico, volavo nello spazio a una velocità vertiginosa, ma mi pareva di essere fermo. La sola sensazione che tradiva il passare del tempo era il calore che aumentava, lento, ma inesorabile.

Poi sentii un suono stridente, come di metallo che striscia contro un vetro bagnato. Il mio volo era finito, era iniziata la manovra d’attracco. Non avrei notato il cambiamento di direzione se non avessi visto le cifre che saltellavano sul quadro degli strumenti. Le stelle erano sparite da tempo, dal vetro scorgevo solo un chiarore debole e rossastro che pareva stendersi ininterrotto. Ogni rumore era cessato, sentivo solo il battito accelerato del mio polso. Il soffio fresco del condizionatore mi colpiva la nuca, ma la mia faccia scottava.

Rimpiangevo di non avere visto il Prometheus. Doveva essere già fuori campo quando era avvenuta l’apertura automatica dello schermo metallico che riparava l’oblò.

La capsula sobbalzò come per un forte urto. Due volte.

L’intera struttura vibrò e anche se filtrato dagli strati isolanti esterni e dal cuscino d’aria in cui ero avvolto, il fremito mi penetrò fin dentro il corpo; il contorno verdeazzurro delle cifre, sul quadro degli strumenti, parve tremare e moltiplicarsi, il suo chiarore allargarsi in tutte le direzioni. Ma io lo osservavo senza paura. Dopo un viaggio così lungo non ero certamente disposto a mancare il bersaglio!

— Stazione Solaris — chiamai. — Stazione Solaris, stazione Solaris! Mi pare di essere fuori rotta, correggete la direzione della capsula. Stazione Solaris, qui capsula in arrivo da Prometheus. Passo.

Mi era sfuggito di nuovo un momento importante, quando si vedono spuntare i pianeti. Solaris era già davanti a me, piatto, immenso. Eppure, dall’aspetto della superficie, stimavo di essere ancora molto lontano. O meglio, molto in alto, poiché avevo oltrepassato quell’inafferrabile linea di demarcazione a partire dalla quale vediamo come un’altezza la distanza che ci separa dalla superficie di un corpo celeste. Cadevo. E adesso ne avevo la sensazione, anche a occhi chiusi.

(Li aprii subito, volevo vedere quanto più possibile.) Aspettai in silenzio per qualche secondo, poi ripetei la chiamata. Anche questa volta non ottenni risposta. Negli auricolari si susseguivano i crepitii dell’elettricità statica. In sottofondo c’era un brusio così sordo e basso da parermi la voce stessa del pianeta. Poi il cielo color arancione venne coperto da un velo di nebbia, l’immagine dietro il vetro si oscurò. Istintivamente contrassi i muscoli, per quanto lo consentiva la tuta pneumatica, prima di capire che stavo semplicemente attraversando un banco di nubi; un attimo più tardi, la nebbia si sollevò, come aspirata verso l’alto. Continuai a planare, ora nel sole, ora nell’ombra perché la capsula girava sul proprio asse verticale, e infine, dietro il vetro, comparve l’enorme disco solare, che pareva arrivare da sinistra e allontanarsi a destra.

Finalmente mi giunse dagli altoparlanti una voce lontana, disturbata dal brusio e dalle scariche.

— Stazione Solaris a volo in arrivo, stazione Solaris a volo in arrivo. Prepararsi per l’atterraggio a tempo zero. Ripeto, prepararsi per l’atterraggio a tempo zero. Attenzione, comincio il conto alla rovescia. Duecentocinquanta, duecentoquarantanove, duecentoquarantotto…

Tra una parola e l’altra c’erano scatti e scricchiolii, segno che il messaggio veniva da un sistema automatico. La cosa era piuttosto strana. Di solito, nelle stazioni spaziali, tutti corrono a salutare i nuovi venuti, specialmente se arrivano dalla Terra. Non ebbi il tempo di riflettere, perché il sole, che fino a quel momento si era limitato a girare attorno a me, si spostò all’improvviso e comparve ora a destra ora a sinistra, come se danzasse sull’orizzonte del pianeta. Io dondolavo come un pendolo, mentre la superficie del pianeta, coperta di solchi violacei e neri, si alzava davanti a me come una muraglia. La testa mi girava, ma scorsi ancora un disegno a scacchi verdi e bianchi: il reticolo di avvicinamento alla stazione.

All’esterno della capsula si staccò con uno schiocco la lunga collana dei paracadute; si aprì con una serie di strattoni e il rumore che si accompagnò a quelle manovre mi ricordò in modo irresistibile qualcosa di assolutamente terrestre. Dopo tanti mesi udivo di nuovo il fischio del vento.

Da quel momento in poi, tutto si svolse molto in fretta.

Fino ad allora avevo avuto la sensazione di cadere, ma ora ne ebbi la prova visiva. La scacchiera verde e bianca si ingigantì di colpo; vidi che era dipinta su uno scafo argentato, scintillante, a dorso di balena, con i fianchi irti di sottili antenne radar. La colossale costruzione metallica, forata da varie file di portelli scuri, non posava sulla superficie del pianeta, ma rimaneva sospeso a mezz’aria e proiettava sullo sfondo scuro un’ombra ellittica, di un nero ancora più intenso. Al tempo stesso riuscii a distinguere i solchi marrone dell’oceano, che parevano in lieve movimento; le nubi si alzarono di colpo, contornate di un accecante bordo scarlatto, in un cielo che si mostrava negli interstizi lontano e piatto, grigio e livido; poi tutto sparì; la capsula rotolava su se stessa.

Con un ultimo strattone, tutto si raddrizzò. Dalla stretta apertura del mio oblò tornai a vedere l’oceano, e le creste delle onde mi parvero brillare come argento vivo. Con uno schiocco, i cavetti e gli anelli dei paracadute si staccarono e volarono via lontano, sopra le onde, portati dal vento; la capsula dondolò dolcemente, con il movimento al rallentatore che gli imponeva il campo magnetico artificiale attivo, e scivolò verso la stazione. L’ultima cosa che riuscii a vedere furono i ponti di lancio e le antenne paraboliche di due radiotelescopi, solidamente fissate ai tralicci d’acciaio.

Con un terrificante clangore metallico che riverberò a lungo attorno a me, la capsula si immobilizzò. Un portello si aprì e con un ultimo suono stridente il mio veicolo terminò il viaggio.

Dalla cabina di comando mi giunse la voce meccanica del sistema automatico di guida.

— Stazione Solaris. Zero, zero. Atterraggio della capsula compiuto. Fine.

A due mani (provavo una vaga oppressione al petto e sentivo gli intestini come un peso spiacevole) afferrai le manopole e staccai il contatto. Si accese in verde la scritta TERRA e il portello della capsula si aprì. Il cuscino pneumatico premette contro la mia schiena e mi spinse fuori, costringendomi a fare un passo in avanti per non cadere.

Con un leggero sibilo, simile a un sospiro di rassegnazione, la tuta espulse l’aria dei tubolari. Ero libero.

Mi trovavo entro un’enorme volta di metallo argenteo, alta quanto la navata di una cattedrale. Lungo le pareti scendevano fasci di tubazioni colorate, che poi sparivano in bocchettoni circolari. Sopra di me, i canali di ventilazione ruggivano per aspirare i residui velenosi dell’atmosfera del pianeta, filtrati durante l’atterraggio. Mi girai. Come un bozzolo vuoto, la capsula a forma di sigaro posava dritta in una coppa sorretta da un’intelaiatura d’acciaio. Lo scudo di protezione, che si era bruciato durante il volo, era adesso marrone scuro.

Scesi lungo una stretta rampa. Il pavimento era coperto di una plastica robusta e spessa, che però lasciava a nudo l’acciaio nei punti di maggiore passaggio dei carrelli che portavano i razzi.

Improvvisamente i ventilatori si fermarono e cadde un silenzio totale. Mi guardai in giro, attonito, aspettandomi di veder comparire qualcuno: ma non vidi segno di vita. Solo una freccia fluorescente accesa, che segnalava la corsia mobile. Era già in movimento: vi salii e mi lasciai portare via.

La volta della rimessa scendeva con una bella linea parabolica fino a un lungo corridoio. Nelle rientranze di questo erano accatastati mucchi di bombole di gas compresso, manometri, paracadute, casse e altri oggetti, sparsi in disordine, a mucchi.

Il nastro trasportatore finiva in una rotonda dove si aprivano numerose porte, in fondo alla galleria. Laggiù c’era un disordine ancora maggiore. Un liquido oleoso formava una pozzanghera sotto una catasta di bidoni. L’aria era impregnata di un odore forte e sgradevole. Le orme oleose di coloro che avevano evidentemente calpestato il liquido si allontanavano in varie direzioni. Fra i bidoni c’erano rulli bianchi di banda perforata, carta straccia e rifiuti di ogni genere.

Si accese di nuovo una segnalazione verde, che indicava la porta centrale. Al di là di questa partiva un corridoio stretto, in cui sarebbero passate a stento due persone affiancate. La luce scendeva da oblò circolari che guardavano il cielo. Ancora una porta, a scacchi bianchi e verdi. Era socchiusa. Entrai.

La cabina emisferica aveva un’unica grande finestra curva, panoramica, attraverso la quale si vedeva il cielo coperto di nuvole rossastre. In basso, le onde scure s’inseguivano in file silenziose. Alle pareti era fissato un gran numero di scaffalature piene di strumenti, di libri, di bicchieri con il fondo incrostato, di thermos polverosi. Cinque o sei tavolini metallici a rotelle poggiavano sul pavimento macchiato e, fra loro, alcune poltroncine afflosciate. Una sola era debitamente gonfia, con lo schienale inclinato all’indietro. Vi stava seduto un ometto magrissimo, con la faccia bruciata dal sole. La pelle si squamava sul naso e sugli zigomi. Lo riconobbi. Era Snaut, un cibernetico, assistente di Gibarian. A suo tempo aveva pubblicato, sull’ Annuario di Solaristica, alcuni articoli molto originali. Non l’avevo mai incontrato di persona. Indossava una canottiera di rete, dalla quale uscivano i radi peli bianchi del petto piatto, e un paio di calzoni di tela con molte tasche, da meccanico, che un tempo erano bianchi ma adesso erano macchiati e pieni di buchi di acido. Teneva in mano una pera di plastica, di quelle che si usano per bere nei mezzi speciali sprovvisti di gravità artificiale. Mi guardò fisso, come intontito; aprì le dita e la pera cadde, rimbalzando sul pavimento come una palla. Ne schizzò qualche goccia di un liquido incolore. Pian piano tutto il sangue si ritrasse dal suo volto. Ero troppo attonito per dire qualcosa e il suo terrore cominciò a contagiarmi impercettibilmente. Feci un passo in avanti. Lui si raggomitolò nella poltrona.

— Snaut… — sussurrai.

Sussultò, come se avesse ricevuto una sferzata e mi guardò con un ribrezzo indescrivibile.

— Non ti conosco — gracchiò — non ti conosco, che vuoi…?

Il liquido versato evaporava rapidamente. Riconobbi l’odore dell’alcol. Beveva? Era ubriaco? Perché si spaventava così? Ero ancora fermo al centro della cabina, ginocchia molli, orecchie che parevano tappate con il cotone, piedi con presa ancora poco salda al suolo. Dietro il vetro convesso della finestra l’oceano si muoveva ritmicamente. Snaut non mi staccava di dosso gli occhi arrossati. Dal suo volto svaniva la paura, ma non la ripugnanza.

— Che cos’hai? — chiesi a voce bassa. — Sei malato?

— Ti preoccupa…? — disse rauco. — Ma guarda! Di’ un po’, perché ti interessi a me? Non ti conosco.

— Dov’è Gibarian? — domandai.

Rimase per un attimo senza fiato, i suoi occhi divennero vitrei, qualcosa vi si accese e si spense.

— Gi… Giba… — balbettò. — No! No!

Fu scosso da un riso ebete, silenzioso, che s’interruppe di colpo.

— Sei venuto per Gibarian…? — disse, quasi tranquillo. — Per Gibarian? Povero vecchio. Che cosa vuoi fare di lui?

Mi guardava come se di colpo avessi cessato di rappresentare una minaccia; nelle sue parole, e ancora più nel tono, c’era qualcosa di sprezzante e di offensivo.

— Che cosa dici…? — balbettai sbigottito. — Lui dov’è?

S’irrigidì.

— Non sai…?

«E’ ubriaco» pensai, «ubriaco fradicio.» Cominciavo a innervosirmi. Avrei dovuto andarmene, in realtà, ma persi la pazienza.

— Sveglia! — gridai. — Come posso sapere dov’è se sono appena arrivato in volo! Che cosa ti prende, Snaut!

Rimase a bocca aperta, nuovamente senza fiato, e i suoi occhi furono percorsi da un lampo improvviso. Si alzò a fatica, appoggiandosi con mani tremanti ai braccioli della poltrona, facendo scricchiolare le articolazioni.

— Come? — disse quasi lucido. — Arrivato in volo? Da dove vieni?

— Dalla Terra — risposi con irritazione. — Ne hai mai sentito parlare? Si direbbe di no.

— Dalla Te… Santo cielo! Allora tu sei… Kelvin?

— Sì. Perché mi guardi così? Che cos’ho di strano?

— Niente — disse sbattendo le palpebre. — Niente.

Si passò la mano sulla fronte.

— Kelvin, scusami… vedi, è stata semplicemente la sorpresa. Non ti aspettavo.

— Come sarebbe a dire, non mi aspettavi? Se sono mesi che avete ricevuto la comunicazione, e anche oggi Moddard vi ha avvisato da bordo del Prometheus…

— Sì. Sì… Certo. Solo che, vedi, qui regna una specie di… disordine.

— Già — risposi seccamente. — E’ difficile non accorgersene.

Snaut mi girava attorno, come se volesse esaminare la mia tuta, una delle più semplici del mondo, con gli attacchi delle condutture pneumatiche e dei cavi elettrici sul petto. Tossì un po’. Si toccò il naso ossuto.

— Vuoi andare in bagno…? Ne avrai bisogno: la porta azzurra, qui di fronte.

— Ti ringrazio. Conosco la pianta della stazione.

— Avrai fame…

— No. Dov’è Gibarian?

Andò verso la finestra come se non avesse udito la domanda. Di schiena sembrava più vecchio: i capelli, molto corti, erano bianchi, e la nuca abbronzata era segnata da rughe profonde come tagli.

Oltre il vetro della finestra brillavano di tanto in tanto le immense creste delle onde, che si alzavano e ricadevano lentamente come se l’oceano fosse rappreso. Guardando fuori si aveva l’impressione che la stazione si spostasse leggermente di lato, slittando su un basamento invisibile. Poi riprendeva la sua posizione e si inclinava dall’altra parte. Però credo fosse solo un’illusione ottica. Brandelli di densa schiuma color sangue si raccoglievano negli avvallamenti fra le onde.

Per un istante la nausea mi strinse la gola. L’ordine rigoroso che regnava a bordo del Prometheus mi parve un bene prezioso perduto per sempre.

— Senti… — disse improvvisamente Snaut — per il momento ci sono solo io… — si girò. Si fregò nervosamente le mani. —

Dovrai accontentarti della mia compagnia. Per ora. Chiamami Topo. Mi hai conosciuto solo in fotografia, ma non fa niente, tutti mi chiamano così. Credo che non ci sia rimedio.

Quando si è stati allevati, come me, da genitori con ambizioni cosmiche… Topo è giusto…

— Dov’è Gibarian? — insistetti ancora una volta.

Socchiuse gli occhi. — Scusami per l’accoglienza, non… non è solo colpa mia. Mi ero completamente dimenticato.

Sai, qui sono successe molte cose…

— Va bene — dissi esasperato — lascia perdere. Allora, che cos’è successo con Gibarian? Non è alla stazione? E’ in missione da qualche parte?

— No — rispose. Fissava un angolo ingombro di rotoli di cavi elettrici. — Da nessuna parte. E non andrà da nessuna parte, mai più. Perciò… tra l’altro…

— Come dici? — risposi. Avevo come un ronzio alle orecchie e pensai di avere udito male. — Che significa? Dov’è?

— Lo sai già — disse con un altro tono. Mi guardò negli occhi freddamente, e provai un brivido. Forse era ubriaco, ma sapeva quel che diceva.

— E’…

— Un incidente?

Annuì con il capo. Oltre a confermare con vigore, spiava la mia reazione.

— Quando?

— Oggi, all’alba.

Strano, ma non provai alcun turbamento. In un certo modo, con la sua concretezza, quello scambio di domande e risposte a monosillabi mi aveva rassicurato. Mi illusi che potesse spiegare l’atteggiamento incomprensibile di prima.

— Come è successo?

— Va’ a cambiarti e a mettere in ordine la tua roba — disse lui, senza rispondere. — Torna qui… tra… diciamo, un’ora.

Esitai un momento. Poi lasciai perdere. — Bene.

— Aspetta — soggiunse, mentre mi giravo verso la porta. Mi guardava in modo strano; evidentemente le parole che intendeva dirmi non volevano uscirgli dalla bocca.

— Eravamo in tre e adesso, con te, siamo di nuovo in tre.

Conosci Sartorius?

— Come conoscevo te, dalle fotografie.

— E’ sopra, nel laboratorio, e non credo che ne uscirà prima di sera, però lo riconoscerai. Ma se tu dovessi vedere qualcuno… voglio dire, non me e non Sartorius, capisci, allora…

— Allora che cosa? — chiesi.

Credevo di sognare. Sullo sfondo delle onde rilucenti sotto i raggi del sole al tramonto, Snaut si sedette nella poltrona, con la testa abbassata, fissando l’angolo dove c’erano le bobine dei cavi elettrici.

— Allora… non fare niente — concluse.

— E chi dovrei vedere? Un fantasma? — esplosi.

— Capisco. Tu credi che io sia impazzito. No, non sono impazzito. Non riuscirei a spiegartelo in un altro modo… per ora. Del resto, forse… non accadrà niente. Comunque, ricorda, io ti ho messo in guardia.

— Da chi?

— Dòminati — disse cocciutamente. — Comportati come se… fossi preparato al peggio. E’ impossibile, lo so, però prova a farlo. E’ l’unico rimedio. Non ne conosco altri.

— Ma «che cosa» dovrei vedere? — quasi urlai. A stento mi trattenni dall’agguantare per le spalle e scuotere quell’uomo dalla faccia stanca e bruciata, che, immobile, fissava un angolo e si lasciava sfuggire con visibile sforzo frasi inarticolate.

— Non so. In un certo qual modo dipende da te.

— Allucinazioni?

— No. E’ realtà. Non… aggredire. Ricordatelo.

— Che cosa dici? — risposi con una voce che quasi non riconoscevo.

— Non siamo sulla Terra.

— Un aspetto che riguarda il pianeta? Ma è qualcosa di completamente diverso da noi! — gridai. Non sapevo come distoglierlo da quella fissità incantata, che pareva dipendere da qualche sua agghiacciante assurdità.

— Perciò è ancor più terribile — confermò a bassa voce. — Ricorda: sta’ attento.

— Che cosa è successo a Gibarian?

Anche ora non rispose.

— Che cosa fa Sartorius? — insistetti.

— Tu torna tra un’ora.

Mi voltai e uscii. Aprendo la porta, lo guardai ancora una volta. Sedeva raggomitolato, col viso tra le mani, con i pantaloni macchiati, immobile. Soltanto allora mi accorsi che sulle nocche delle mani aveva del sangue raggrumato.

Загрузка...