10. IL COLLOQUIO

Il giorno seguente, rientrando in cabina dopo colazione, trovai una lettera di Snaut sul tavolo sotto la finestra. Diceva che Sartorius aveva sospeso il lavoro all’annichilitore e preparava degli esperimenti per sottoporre l’oceano a radiazioni dure.

— Amore — dissi — devo andare da Snaut.

Il sole rosso che si avviava al tramonto incendiava i vetri della finestra e tagliava la camera in due. Noi stavamo nella zona di ombra bluastra. Fuori dei suoi confini tutto era color rame, da far pensare che un libro, cadendo dallo scaffale, avrebbe mandato un rintocco.

— Si tratta del famoso esperimento, però non so come fare.

Preferirei, capisci…

— Non scusarti, Chris. Se non durasse troppo a lungo…

Vorrei tanto…

— Durerà un po’ — dissi. — E se tu venissi con me, ma restando nel corridoio?

— Bene. Ma se poi non resisto?

— Perché credi questo? — domandai, aggiungendo subito: —

Non te lo chiedo per curiosità, capisci; ma forse, indagando un po’ in te stessa, puoi trovare il modo di dominarti.

— E’ paura — disse. Era impallidita. — Non so dirti neanch’io che cosa temo, poiché non temo niente, in realtà; però… però mi smarrisco. All’ultimo istante provo una vergogna che non ti dico. Poi non più. Per questo pensavo di essere malata… — concluse piano, con un brivido.

— Forse è così soltanto in questa maledetta stazione — dissi.

— Farò di tutto perché possiamo andarcene al più presto.

— Credi che sia possibile? — Spalancò gli occhi.

— Perché no? In fin dei conti, non sono mica alla catena, qua… Dipende anche da quel che riuscirò a combinare con Snaut. Cosa ne pensi, saresti capace di stare sola un po’ a lungo?

— Forse — disse lentamente, abbassando la testa. — Se sento la tua voce, me la caverò.

— Preferirei che tu non sentissi di che cosa si parla. No, non ho niente da nasconderti; ma non so, non posso sapere quel che dirà Snaut.

— Taci. Capisco. Mi metterò a una certa distanza, così da udire solo il suono della tua voce. Mi basta.

— Adesso vado a telefonargli da lì, dal laboratorio. Lascerò la porta aperta.

Annuì. Attraversando la parete di raggi rossi del sole uscii nel corridoio; il brusco passaggio mi fece vedere tutto nero, nonostante le lampade fossero accese. La porta del piccolo laboratorio era aperta. I frammenti di vetro da thermos della bottiglia Dewar, brillanti come specchi, sotto la fila di grossi contenitori di ossigeno liquido, erano l’unica traccia degli avvenimenti notturni. Il piccolo video si accese quando alzai il ricevitore e composi il numero della cabina radio. Poi il velo di luce azzurrina che copriva l’interno del vetro opaco si diradò e Snaut, appollaiato di sbieco su un alto sgabello, mi guardò dritto negli occhi.

— Salve — disse.

— Ho letto il biglietto. Vorrei parlarti. Posso venire?

— Puoi. Subito?

— Sì.

— Scusa, vieni… in compagnia?

— No.

Affacciato di sghembo nel vetro convesso, col volto magro e abbronzato e la fronte solcata da rughe profonde, sembrava un pesce venuto a curiosare dietro l’oblò di un acquario. Mi diede un’occhiata molto significativa.

— Be’, be’ — disse. — Ti aspetto.

— Possiamo andare, amore — cominciai a dire con una vivacità non troppo naturale, entrando nella cabina e oltrepassando la striscia di luce rossa dietro la quale intravedevo la figura di Harey. Mi mancò la voce. Harey era seduta nella poltrona, con le braccia passate sotto i braccioli. Sia che avesse udito troppo tardi i miei passi, sia che non fosse stata in grado di sciogliere abbastanza rapidamente quella orribile contrazione, fatto sta che per un secondo ebbi modo di vederla alle prese con quella forza incomprensibile nascosta in lei, e un’ira cieca e furibonda, venata di compassione, mi strinse il cuore.

Percorremmo il lungo corridoio, oltrepassammo le varie sezioni verniciate con colori diversi, testimonianza dell’intento degli architetti di allietare e alleviare la nostra clausura in quel guscio corazzato. Vidi da lontano la porta socchiusa della cabina radio. Lasciava trapelare il sole dall’interno, e lì una lunga striscia rossa cadeva sullo sfondo del corridoio. La indicai con lo sguardo ad Harey, che non cercò neanche di sorridere; durante tutto il tragitto avevo visto che si preparava alla lotta con se stessa, quasi raccogliendo le forze, e aveva un visino pallido, smunto. A quindici passi dalla porta si fermò e mi voltai verso di lei, ma mi sospinse con la punta delle dita e dovetti proseguire. Di colpo i miei piani, Snaut, l’esperimento, l’intera stazione, tutto mi parve ridicolo di fronte al tormento che lei stava per affrontare. Mi sentivo come un vero manigoldo, e stavo per tornare indietro, ma l’ombra di un uomo s’interpose nella striscia di sole sulla parete del corridoio. Mi affrettai a entrare nella cabina. Snaut era vicino alla soglia, come se stesse per venirmi incontro.

Aveva proprio alle spalle il sole rosso, che aureolava di luce purpurea i suoi capelli bianchi. Ci guardammo per un po’ senza aprire bocca. Esaminava con attenzione il mio viso. Io invece non vedevo la sua espressione, che spariva nel barbaglio proveniente dalla finestra. Gli girai attorno, andando ad appoggiarmi a un leggio dal quale spuntavano i microfoni.

Ruotò su se stesso, là dov’era, lentamente, seguendomi con gli occhi e torcendo come sempre la bocca in quel modo che una volta pareva un sorriso e un’altra una smorfia di stanchezza. Senza staccarmi lo sguardo di dosso, e facendosi strada tra i mucchi di pezzi di ricambio radio, di attrezzi, di accumulatori termici accatastati alla meglio su entrambi i lati, raggiunse il grande armadio metallico a parete, tirò a sé uno sgabello e si sedette con le spalle appoggiate all’anta verniciata.

Il mutismo che avevamo mantenuto fino a quel momento stava diventando molto strano. Ascoltavo intensamente, concentrando l’attenzione sul silenzio che regnava nel corridoio dov’era rimasta Harey, ma non mi giungeva alcun rumore.

— Quando sarete pronti? — domandai.

— Si potrebbe cominciare anche oggi, ma questa registrazione richiederà un po’ di tempo.

— La registrazione? Vuoi dire l’encefalogramma?

— Be’, hai acconsentito, no? E allora? — Lasciò la frase in sospeso.

— No, niente.

— Parla. Ti ascolto — disse Snaut, quando il silenzio cominciò di nuovo a prolungarsi.

— Lei sa… di te. — Avevo abbassato la voce, quasi a un sussurro.

Inarcò le sopracciglia. — Sì?

Avevo l’impressione che non fosse affatto sorpreso. Allora, perché fingeva lo stupore? Per un istante mi passò la voglia di confidarmi, ma mi costrinsi. «In mancanza d’altro, deve regnare almeno la lealtà» pensai.

— Ha cominciato a sospettare dopo il nostro colloquio in biblioteca; mi ha spiato, ha messo insieme le cose, poi ha trovato il registratore di Gibarian e ha ascoltato il nastro…

Non cambiò posizione, sempre appoggiato all’armadio, ma gli occhi ebbero un barlume. In piedi davanti al leggio avevo di fronte la porta socchiusa sul corridoio. Abbassai ancora la voce: — Questa notte, mentre dormivo, ha tentato di uccidersi.

Con l’ossigeno liquido…

Un fruscio, come di carte smosse da una corrente d’aria.

Mi irrigidii cercando di sentire quel che accadeva nel corridoio; la fonte del rumore si era fatta più vicina. Uno scricchiolio, come se ci fosse un topo… Un topo! Assurdo. Non c’erano topi, alla stazione. Con la coda dell’occhio lo osservavo, seduto.

— Ti ascolto — disse tranquillamente.

— Beninteso, non c’è riuscita… A ogni modo, sa chi è.

— Perché me lo dici? — domandò di colpo.

Non trovavo una risposta. — Voglio che tu sappia la notizia… che tu sappia com’è la situazione — borbottai.

— Ti avevo avvisato.

— Vuoi dire che sapevi? — Alzai, senza volerlo, la voce.

— Naturalmente no. Ma ti ho spiegato com’è. Ogni «ospite», quando appare, è poco più di un fantoccio che, a parte un miscuglio di ricordi e di immagini, presi in prestito dal suo… Adamo, è quasi completamente… vuoto. Quanto più rimane con te, tanto più si umanizza. Fino a un certo limite, capisci, diventa indipendente. Perciò, più dura, più è difficile poi… — troncò la frase. Mi guardò di sottecchi, e aggiunse come se lo facesse suo malgrado: — Lei sa tutto?

— Sì, te l’ho già detto.

— Tutto? Che è già stata qui, e che tu…

— No!

Sorrise. — Kelvin, senti, se sei a questo punto… che cosa pensi di fare? Lasciare la stazione?

— Sì.

— Con lei?

— Sì.

Tacque, certo meditando la risposta; tuttavia c’era dell’altro, nel suo silenzio… Ma che cosa? Si udì di nuovo lo scricchiolio, come se fosse lì, dietro una parete sottilissima. Snaut si mosse sullo sgabello.

— Benissimo — disse. — Perché mi guardi? Pensavi che ti avrei messo i bastoni fra le ruote? Puoi fare quel che vuoi, mio caro. Sarebbe molto buffo che per di più, qui, cominciassimo a imporre delle costrizioni! Non ho alcuna intenzione di convincerti, posso solo dirti che in una situazione inumana cerchi di conservare un comportamento umano. Forse è bello, certamente inutile. Comunque, non sono persuaso che sia bello. Da quando in qua la stupidità è bella? Ma il punto non è questo. Tu rinunci a ulteriori esperimenti, e vuoi andartene, portandotela via. Sì?

— Sì.

— Ma anche questo è… un esperimento. Ci hai pensato?

— Che intendi dire? Se lei… potrà…? Se è insieme a me, non vedo… — Parlavo sempre più adagio, e infine m’interruppi. Snaut sospirò leggermente.

— Stiamo tutti facendo la politica dello struzzo, qui. Ma sappiamolo, almeno, e non recitiamo la commedia della nobiltà.

— Non recito niente.

— Bene, non volevo offenderti. Ritiro quel che ho detto sulla nobiltà, ma la politica dello struzzo rimane valida. Tu la pratichi in una forma particolarmente pericolosa. Menti a te stesso, a lei, e viceversa. Conosci le condizioni stabilizzatrici di una struttura costituita da neutrini?

— No, e neanche tu. Nessuno.

— Verissimo. Ma una cosa sappiamo, che è una struttura instabile e può sussistere solo in virtù di un continuo afflusso d’energia. Lo so da Sartorius. Questa energia crea un campo rotatorio stabilizzante. Ora: questi campi sono esterni, rispetto all’ ospite, oppure la fonte si trova nel suo corpo? Afferri la differenza?

— Sì — dissi lentamente. — Se è esterno, allora, lei… lei… la…

— Allora, allontanandosi da Solaris, la struttura si disintegra — concluse in mia vece. — Non possiamo prevederlo, ma hai già fatto l’esperimento. Quel piccolo razzo che hai lanciato…

Continua a circolare, sai. A tempo perso, ho anche calcolato i dati del suo movimento. Puoi volare, entrare in orbita e accertare che ne è stato della… passeggera.

— Sei impazzito! — sussurrai.

— Credi? Be’, e se… lo richiamassimo indietro, questo razzo? Si può farlo. E’ telecomandato. Possiamo toglierlo dall’orbita e…

— Piantala!

— No anche a questo? C’è un altro modo, molto semplice.

Non occorre nemmeno che il razzo atterri alla stazione. Continui pure a girare. Possiamo collegarci con lei via radio. Se è viva, risponderà e…

— Ma… ma l’ossigeno è esaurito da un pezzo! — balbettai.

— Forse può sopravvivere senza ossigeno. Proviamo?

— Snaut… Snaut…

— Kelvin… Kelvin… — mi fece il verso, irosamente. — Cerca un po’ di riflettere, o che razza d’uomo sei? Chi vuoi far contento? Chi vuoi salvare? Lei? Chi dei due? Questo o quella?

Ti manca il coraggio per entrambe le cose? Lo vedi tu stesso dove ti porta tutto ciò. Te lo ripeto per l’ultima volta: la situazione, qui, è amorale.

Udii di nuovo lo scricchiolio, come se qualcuno grattasse con l’unghia sulla parete. Non so perché, m’invase una calma pigra, apatica, e mi parve di vedere attraverso un binocolo alla rovescia tutta la situazione, lui, me: piccoli, un po’ comici, del tutto privi d’importanza.

— Bene, allora — dissi. — Che dovrei fare, secondo te? Toglierla di mezzo? Domani torna uguale, no? E dopodomani ricominciare? E così ogni giorno? Per quanto tempo? Perché? Che vantaggio me ne verrà? E a te? A Sartorius? Alla stazione?

— No, prima rispondimi. Parti con lei e sarai testimone della sua, diciamo così, metamorfosi. Dopo qualche minuto avrai dinanzi…

— Be’, che cosa? — dissi ironicamente. — Un mostro, un demonio? O che?

— No, un’agonia. Pura e semplice. Davvero li hai creduti immortali? Ti assicuro che muoiono… Che farai allora? Tornerai a fare… rifornimento?

— Sta’ zitto! — gridai, chiudendo il pugno.

Mi osservava a occhi chiusi con indulgente scherno. — Ah, dovrei stare zitto. Sai, al tuo posto taglierei corto questo colloquio. Hai di meglio da fare, per esempio vendicarti fustigando l’oceano con le verghe. Che cosa credi? Che quando tu… — Snaut fece un beffardo gesto d’addio con la mano e alzò la testa verso il soffitto, come seguendo una forma che sparisse in lontananza —… sei un mascalzone? E lo sei meno, così? Sorridere quando preferiresti urlare, mostrare gioia e calma quando ti morderesti le dita, lo chiami essere meno mascalzone? E se qui è impossibile non esserlo? Che fai, allora? Allora te la prendi con Snaut, che è colpevole di tutto, vero? Tutto sommato sei un idiota, mio caro.

— Parli per conto tuo — dissi con la testa bassa. — Io… l’amo.

— Chi? Il suo ricordo.

— No, lei. Ti ho detto quel che ha tentato di fare. Neanche un essere umano… autentico avrebbe agito così.

— Tu stesso confermi; dicendo…

— Non giocare sulle parole.

— Bene. Dunque lei ti ama a tal punto. E tu vuoi amarla.

Non è lo stesso.

— Ti sbagli.

— Kelvin, mi spiace, ma sei stato tu ad avviare il discorso sui tuoi problemi intimi. Non ami. Ami. Lei è pronta a dare la vita. Tu anche. Molto commovente, molto bello, sublime, tutto quel che vuoi. Ma per tutto ciò, qui, non c’è posto. Semplicemente non c’è. Capisci? No, non lo vuoi capire. Per l’azione di forze sulle quali non abbiamo alcun potere, sei preso in un processo ciclico di cui lei è una parte. Una fase. Un ritmo ricorrente. Se fosse… se ti perseguitasse una megera pronta a fare qualsiasi cosa per te, la toglieresti di mezzo senza batter ciglio, vero?

— Vero.

— Perciò, forse appunto perciò, essa non è una megera. Per questo motivo, ti senti le mani legate? Quindi è appunto così, per legarti le mani.

— E’ soltanto un’ipotesi di più fra milioni di altre nelle biblioteche.

— Bene. Sei stato tu a cominciare. Ricorda solo che lei è fondamentalmente uno specchio che riflette una parte del tuo cervello. E’ meravigliosa perché lo è il tuo ricordo. Tu hai fornito la ricetta. Un processo ciclico, non dimenticarlo!

— Dunque, cosa vuoi da me? Che la… che la tolga di mezzo? Te l’ho già chiesto: perché dovrei farlo? Non mi hai risposto.

— Allora ti risponderò. Non ho sollecitato io questo colloquio. Non ho cacciato il naso nelle tue faccende. Non ti ordino niente e non ti vieto niente, non lo farei neanche potendo.

Sei stato tu a venire e a spiattellare tutto, lo sai il perché?

No? Per liberartene. Per scaricartene. Conosco questo peso, mio caro! Sì, sì, non interrompermi adesso! Io non ti ostacolo in nulla, ma tu vuoi che io ti ostacoli. Saresti felice se mi mettessi di mezzo, così potresti rompermi la faccia, così almeno saresti alle prese con un uomo fatto della stessa carne e dello stesso sangue, e allora ti sentiresti uomo anche tu. Invece… non ne hai l’occasione, e perciò discuti con me… o meglio, con te stesso. Manca solo che tu mi dica che ti torceresti dal dolore se lei sparisse tutt’a un tratto… no, non dirmelo.

— Be’, sai! Sono venuto per pura lealtà a dirti che intendo abbandonare la stazione con lei. — Era un modo, a dire il vero un po’ fiacco, di contrattaccare.

— Molto probabilmente non cambierai parere. Ho messo bocca nella questione solo con la speranza di aiutarti a non cadere da un’altezza troppo grande. Potresti farti male, non credi…? Domattina verso le nove, da Sartorius… Verrai?

— Da Sartorius? — commentai stupito. — Mi hai detto che non fa entrare nessuno e non si può nemmeno telefonargli.

— Probabilmente si è cavato d’impaccio in qualche modo.

Fra noi non parliamo mai dell’argomento, sai. Con te è… diverso. Be’. Verrai, domattina?

— Verrò — mormorai. Guardavo Snaut. Con aria indifferente teneva la mano sinistra infilata dietro l’anta. Che era socchiusa: da quando? Forse da un po’, ma preso in quegli orribili discorsi non me n’ero accorto. Il gesto era innaturale… Come se… nascondesse qualcosa. O qualcuno lo tenesse per mano.

Mi inumidii le labbra.

— Snaut, che cosa…

— Esci — disse piano, molto tranquillamente. — Esci.

Andai fuori, accompagnato dal riverbero del crepuscolo rosso, e richiusi la porta alle mie spalle. Harey, a dieci passi di distanza, era seduta sul pavimento contro la stessa parete.

Nello scorgermi, si alzò di scatto.

— Hai visto? — disse, e le brillavano gli occhi. — Ci sono riuscita, Chris… sono così contenta. Forse… migliorerà sempre di più…

— Ma sì, certo — risposi distrattamente, e mentre tornavamo indietro continuai a rompermi il capo a proposito di quello stupido armadio. Dunque… dunque Snaut nascondeva lì… e tutti quei discorsi… Le guance mi cominciavano a bruciare talmente che le sfregai. Mio Dio, che assurdità! E che cosa ne avevo ricavato in conclusione? Un bel niente? Ah, sì, l’indomani mattina…

Mi colse di colpo la paura, esattamente come la notte prima. Il mio encefalogramma. La registrazione completa di tutti i miei processi cerebrali, trasportata dalle vibrazioni di un fascio di raggi, sarebbe stata spedita laggiù. Negli abissi di quel mostro smisurato e sconfinato. Come aveva detto Snaut? «Soffriresti in modo orribile se fosse tolta di mezzo, vero…?» L’encefalogramma è una registrazione completa.

Anche dei processi inconsci. «Se ora mi auguro che si tolga di mezzo, sparisce? Ma perché, allora, sarei così ansioso che sopravviva a questa orribile prova? Si può essere responsabili del proprio inconscio? Se io non lo sono, allora chi…? Che idiozia! Perché diavolo ho acconsentito a lasciare che proprio io, io… Ho modo di esaminare, prima, la registrazione, naturalmente; ma non di decifrarla. Nessuno è in grado di farlo. Gli specialisti riconoscono ciò che si nasconde nel paziente, ma solo a grandi linee: possono dire, per esempio, che è assorto nella soluzione di un problema matematico, ma non quale esso sia. Affermano che è impossibile, perché l’encefalogramma riproduce alla rinfusa una quantità di processi che si svolgono contemporaneamente e di cui solo una parte ha un «substrato» psichico… e il subconscio… Rifiutano addirittura di parlarne; come potrebbero dunque decifrare i ricordi altrui, repressi oppure no…? Ma perché tanta paura?

«Proprio stamane dicevo ad Harey che l’esperimento non avrà alcun esito. E’ ovvio; se i nostri neurofisiologi non sono capaci di decifrare la registrazione, come potrebbe questo gigante fluido e senza fondo, nero e alieno…

«Però è entrato, a mia insaputa, dentro di me, esplorando la mia memoria e individuando quell’atomo che ne è il punto più dolente. Impossibile dubitarne. Senza ausili di sorta, senza ‘raggi vettori’. Ha attraversato la doppia corazza ermetica, l’impenetrabile fasciame della stazione, nel suo interno ha individuato il mio corpo e se n’è andato col bottino…»

— Chris? — Sommessamente, Harey si fece udire. Stavo davanti alla finestra, con lo sguardo nel vuoto, fissando la notte che avanzava. A questa latitudine un velo delicato offuscava un po’ le stelle: uno strato molto sottile e uniforme di nubi così alte che il sole, dagli abissi oltre l’orizzonte, impregnava di un debole riflesso color rosa argento.

«… Se poi sparisce, ciò vorrà dire che l’ho voluto. Che l’ho uccisa. Non andarci? Non possono costringermi. Ma che cosa dirò? Questo no. Non posso. Sì, bisogna fingere. Bisogna mentire, ancora e sempre. Sì, esistono in me pensieri, intenzioni, speranze tremende, fantastiche, micidiali, e non ne so nulla. L’uomo si è mosso per andare alla scoperta di altri mondi, di altre civiltà, senza avere perlustrato a fondo, dentro di sé, i cortiletti, i camini, i pozzi, le porte sbarrate. Tradirla… per vergogna? Tradirla solo perché mi manca il coraggio?»

— Chris… — sussurrò Harey, ancora più piano di prima. Finsi di non udire, di non essermi accorto che si era avvicinata silenziosamente. In quel momento volevo essere solo. Dovevo essere solo. Non mi ero ancora deciso ad alcuna risoluzione, non avevo raggiunto alcuna conclusione. Immobile, lì, guardavo fisso il cielo invaso dalla notte, le stelle che erano come larve delle stelle terrestri e il vuoto in cui si era dissolto il corso precedente dei pensieri. Cresceva dentro di me, in sua vece, la muta e indifferente certezza di essermi già avviato verso quel luogo inaccessibile e di non avere nemmeno la forza di disprezzarmi.

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