11. I SAPIENTI

— Chris, è per quell’esperimento?

Quando parlò, trasalii. Da molte ore giacevo nelle tenebre senza dormire, senza udire nemmeno il suo respiro, e, smarrito nel confuso labirinto dei pensieri notturni quasi involontari, col loro allettamento di nuove dimensioni e nuovi significati, l’avevo dimenticata. — Che… come hai fatto a sapere che non dormivo…? — domandai. C’era della paura nella mia voce.

— Dal tuo modo di respirare — disse piano, come scusandosi. — Non ti avrei disturbato… se non puoi parlarmi, non parlare…

— Ma perché non dovrei? Sì, è per l’esperimento. Hai indovinato.

— Che cosa si aspettano?

— Non lo sanno neanche loro. Qualcosa. Qualsiasi cosa.

Questa non è l’operazione «Pensiero», ma «Disperazione».

Occorrerebbe che uno avesse il coraggio di assumersi la responsabilità della decisione. Ma questo tipo di coraggio, per gli altri, è semplice vigliaccheria, una ritirata, capisci, una rinuncia, una fuga, cose indegne dell’uomo. Come se fosse degno dell’uomo annaspare, impantanarsi e affogare in quel che non capisce e che non capirà mai!

M’interruppi, ma prima ancora di riprendere fiato una nuova ondata di rabbia mi fece salire alle labbra altre parole:

— Naturalmente, non mancano mai quelli che hanno il bernoccolo della pratica. Hanno sostenuto che anche se non si riesce a stabilire il contatto, lo studio di questo plasma, di queste pazzesche città viventi che emergono un giorno solo per poi sparire, ci rivela i segreti della materia; quasi non sapessero che è un modo d’ingannare se stessi, aggirandosi in mezzo a una biblioteca piena di libri scritti in una lingua incomprensibile, che si distinguono solo per il diverso colore delle rilegature…

— Non ci sono degli altri pianeti come questo?

— Forse. Non si sa… noi ne conosciamo uno solo. E comunque è un pianeta estremamente raro. Non come la Terra. Noi siamo comuni, siamo l’erba dell’universo, e di questa qualità comune così universale andiamo talmente orgogliosi che abbiamo creduto di potervi fare rientrare tutto. In questo stato d’animo ce ne siamo partiti, allegri e contenti, per lo spazio: per altri mondi! Che voleva mai dire, altri mondi? Li avremmo dominati o ci avrebbero dominato, non c’era altro nei nostri poveri cervelli, e non ha senso. Non ha alcun senso. — Mi alzai e, tentoni, cercai nell’armadietto dei medicinali l’involucro piatto delle compresse di sonnifero. — Dormirò, cara — dissi, rivolto al buio in cui il ventilatore emetteva un alto ronzio. — Devo dormire, altrimenti non so…

Sedetti sul letto e lei mi prese la mano. Strinsi la forma invisibile e rimasi immobile così, finché il sonno non sciolse la forza dell’abbraccio.

La mattina, svegliandomi fresco e riposato, mi parve che l’esperimento sarebbe stato una bazzecola; non capivo perché mai mi fosse sembrato così importante nella notte. Non mi davo pensiero neanche del fatto che Harey sarebbe venuta con me. A dispetto di qualsiasi sforzo, non ce la faceva a restare sola in camera per due minuti; le dissi perciò di smettere di provare (si faceva anche rinchiudere) e di accompagnarmi; le consigliai di portare con sé un libro da leggere.

Più che il procedimento, m’incuriosiva quel che avrei trovato nel laboratorio. Nella grande sala biancoazzurra, a parte un certo vuoto sugli scaffali e negli armadi delle provette (alcune antine mancanti, la lastra di vetro incrinata di una porta parlavano di una lotta recente le cui tracce erano state cancellate nel miglior modo possibile), non c’era niente di particolare. Snaut, che si dava da fare con le apparecchiature, si comportò molto correttamente, considerò la presenza di Harey come una cosa naturalissima e le fece un salutino da lontano; mentre mi bagnava la fronte e le tempie con il liquido fisiologico comparve Sartorius. Entrò dalla porticina della camera oscura. Indossava un camice bianco e su questo un grembiule antiradiazioni nero che gli scendeva fino alle caviglie. Mi fece un saluto sbrigativo e asciutto, come se fossi uno dei cento assistenti di un istituto e stessimo riprendendo un lavoro interrotto. Solo allora mi accorsi che l’inespressività del suo viso era dovuta alle lenti a contatto che portava al posto degli occhiali.

Con le braccia conserte, rimase a guardare Snaut che mi fasciava la testa con una benda sopra gli elettrodi, creando una specie di cuffia. Più volte girò lo sguardo per tutta la sala senza far mostra di vedere Harey che, appollaiata con aria infelice su uno sgabello contro una parete, fingeva di leggere.

Quando Snaut si scostò dalla poltrona, girai la testa coperta di metallo e cavi per osservarlo mentre attivava l’apparecchio, ma in modo del tutto inaspettato Sartorius alzò una mano e con sussiego attaccò: — Dottor Kelvin, le chiedo un istante di attenzione e di concentrazione! Non intendo forzarla in nulla. Ciò non avrebbe comunque alcun senso. Le domando però formalmente di non pensare a se stesso, a me, all’egregio collega Snaut, né a qualsiasi altra persona, per concentrarsi sulla questione che stiamo affrontando. La Terra e Solaris, le generazioni di scienziati che, al di là dei singoli la cui vita ha un principio e una fine, formano un corpo unico, la perseveranza della nostra aspirazione a stabilire un contatto, il lungo cammino storico dell’umanità, la certezza che proseguiremo in futuro sulla stessa strada, la determinazione di dedicare sacrifici e fatiche, senza personalismi, a questa nostra missione, ecco i temi di cui lei deve impregnare la sua coscienza. Le associazioni di idee non dipendono interamente dalla sua volontà, ma il fatto stesso che lei si trovi qui garantisce la bontà dell’intenzione. Se lei non sarà sicuro di avere assolto il compito appieno, voglia dircelo, e l’egregio collega Snaut ripeterà la registrazione. Abbiamo molto tempo…

Le ultime parole furono accompagnate da uno stentato sorrisetto che non dissipò l’espressione imbambolata del suo sguardo. Mi venne voglia di ridere, per quella farragine di frasi pompose pronunciate con tanto sentimento, ma per fortuna Snaut ruppe il silenzio che si prolungava.

— Possiamo cominciare, Chris? — domandò, appoggiato col gomito, in un gesto noncurante e familiare, al quadro di comando dell’encefalografo, come se fosse lo schienale di una sedia.

Gli fui molto grato d’avermi chiamato per nome. — Possiamo cominciare — dissi, chiudendo gli occhi. Snaut, fissati gli elettrodi, appoggiò il dito sull’interruttore e l’ansia che mi aveva svuotato l’intelletto mi abbandonò di colpo. Fra le ciglia, vidi sulla lastra nera dell’apparecchio il lampeggiamento rosso delle luci di controllo. Sparì contemporaneamente la sensazione spiacevole di umido degli elettrodi metallici che mi stringevano la testa in un cerchio di fredde medaglie. Mi trovai in un’arena grigia, non illuminata. Era un vuoto circondato da ogni lato da una folla di spettatori invisibili ammassati sulle gradinate, tutti avvolti da un silenzio che esprimeva un ironico disprezzo per Sartorius e la «nostra missione». La tensione rifluì, perché dinanzi a quegli spettatori interiori dovevo ora improvvisare. «Harey?» Pensai questo nome con esitazione, con inquietudine, pronto a revocarlo subito. Ma la mia platea invisibile e cieca non protestava. Per un po’ fui tutto sentimento schietto, pentimento sincero, pronto a lunghi e pazienti sacrifici. Harey mi colmava, senza forma, senza lineamenti, senza volto, con un respiro di tenerezza impersonale e disperata, e attraverso la sua presenza vidi a un tratto nella penombra, con tutta la dignità del suo aspetto dotto e professorale, il padre della solaristica e dei solaristi, Giese. Ma non pensavo all’eruzione limacciosa, all’abisso nauseabondo che aveva inghiottito i suoi occhiali d’oro e i suoi baffi bianchi ben curati; lo vedevo soltanto nell’incisione del frontespizio della monografia, sullo sfondo finemente tratteggiato che l’artista aveva creato come un’aureola intorno alla testa; e quell’immagine, non tanto per i lineamenti quanto per l’espressione di avita e onesta saggezza, somigliava talmente a mio padre che non sapevo più chi dei due mi stesse guardando. Entrambi non avevano avuto sepoltura, fatto comune, ai nostri tempi, e che non desta particolare emozione. L’immagine scomparve e per un po’, non so per quanto, dimenticai la stazione, l’esperimento, Harey, l’oceano scuro, tutto; galleggiavo sulla certezza fulminea e istintiva che quei due uomini da tempo morti, infinitamente piccoli e ritornati polvere, avevano affrontato con coraggio tutti gli eventi della loro vita, e la pace che mi provenne da questo pensiero annullò la folla informe assiepata intorno all’arena nell’attesa di assistere alla mia sconfitta. Gli interruttori dell’apparato scattarono, la luce mi penetrò negli occhi. Sbattei le palpebre. Sartorius, sempre nella stessa posa, mi scrutava attentamente, Snaut gli volgeva le spalle, affaccendato intorno alle apparecchiature, strusciando ostentatamente le ciabatte che gli scivolavano via.

— Lei pensa, dottor Kelvin, che sia riuscito? — interloquì Sartorius con voce chioccia e nasale.

— Sì — dissi.

— Ne è certo? — insistette Sartorius con una sfumatura di meraviglia o forse di sospetto.

— Sì.

La fermezza e il tono ruvido della mia risposta fecero vacillare per un momento la severa prosopopea di Sartorius.

— Ah, allora… bene — mormorò, e si guardò in giro come incerto sul da farsi. Snaut si avvicinò alla poltrona e cominciò a togliermi le bende.

Ero in piedi e camminavo su e giù per la sala, quando Sartorius, scomparso nella camera oscura, ne uscì con la pellicola già sviluppata e asciugata. Sulla striscia lunga una decina di metri, delle linee seghettate disegnavano in bianco cuspidi e ragnatele sul nero del nastro di celluloide. Personalmente non avevo più niente da fare, ma non me ne andai. Gli altri due inserirono la pellicola nella testata del modulatore e Sartorius ne guardò ancora l’estremità con diffidenza, come se tentasse di decifrare il contenuto di quelle linee vibranti.

Il resto dell’esperimento non fu visibile. So soltanto che essi si posero ai quadri di comando, sulla parete, e che misero in moto gli opportuni congegni. La corrente si destò con un sordo brontolio negli avvolgimenti delle bobine sotto il pavimento blindato, poi la luce scese verso il basso nei tubicini verticali dei rilevatori, segnalando che il grosso tubo del cannone Roentgen calava, nel suo pozzo di protezione, fino all’orifizio aperto. Le luci sulla scala graduata erano al minimo; Snaut cominciò ad aumentare il voltaggio, facendo fare alla lancetta, o meglio alle strisce bianche che la sostituivano, un mezzo giro verso destra. Il rumore della corrente era appena percettibile, i tamburi dei film giravano invisibili sotto i loro coperchi, il ticchettio del contatore metrico era silenzioso come quello d’un orologio. Harey mi guardava, da sopra il libro. Mi rivolse un’occhiata interrogativa, quando mi avvicinai a lei. L’esperimento era finito. Sartorius si accostò lentamente alla grande testata conica dell’apparecchiatura.

— Andiamo…? — mi chiese Harey muovendo appena le labbra. Acconsentii. Sì alzò e, senza salutare (sarebbe stata un’ostentazione), uscimmo sfiorando Sartorius.

Le alte finestre del corridoio superiore mostravano un tramonto di singolare bellezza. Invece del solito e tetro rosso, aveva tutte le sfumature di un rosa cangiante, tempestato qua e là d’argento. La superficie ondeggiante, densa e nera, assumeva lucentezze marrone e viola sotto quella dolce carezza.

Soltanto allo zenit il cielo era ancora color ruggine.

Al piano inferiore mi fermai in mezzo al corridoio. Non sopportavo l’idea di tornare a rinchiuderci in quella cella carceraria che era la cabina, aperta solo sull’oceano.

— Harey — dissi, — sai… vorrei fermarmi in biblioteca… non ti secca troppo?

— Oh, no! Cercherò qualche cosa da leggere — rispose con una vivacità artificiale.

Sentivo dal giorno prima che tra noi si era aperta una frattura, e che avrei dovuto mostrarmi più gentile, ma ero in preda a un’apatia completa. Non sapevo che fare per scuotermi.

Tornammo sui nostri passi e, attraverso un breve andito, raggiungemmo la piccola anticamera, con tre porte e, fra queste, alcune vetrinette in cui crescevano delle piante.

La porta della biblioteca era quella centrale, rivestita di finta pelle su entrambi i lati. Evitavo sempre di toccare l’imbottitura nell’aprirla. All’interno, nella sala rotonda dal soffitto chiaro, argenteo, con un sole nel mezzo, l’aria era più fresca.

Feci scorrere la mano lungo i dorsi dei classici di solaristica con l’intenzione di prendere il primo volume di Giese, quello col suo ritratto nell’incisione del frontespizio, sotto la velina della pagina di guardia, ma inaspettatamente mi cadde l’occhio sul libro di Gravinski, un volume in ottavo dalla rilegatura logora, che le altre volte era sfuggito alla mia attenzione. Mi misi comodo su una sedia imbottita. C’era un profondo silenzio. Harey, a un passo da me, sfogliava un libro; udivo quando ne girava le pagine. Il manuale di Gravinski era un prontuario delle ipotesi solaristiche in ordine alfabetico, da «abatologia» a «zoototemicità». Il compilatore, che non aveva mai visto Solaris, aveva spulciato monografie, verbali di spedizione, relazioni di viaggio, saggi, comunicazioni sommarie, andando perfino a pescare le citazioni nelle opere di planetologi che studiavano altri globi, e aveva così steso un catalogo ricco di definizioni semplicistiche che compendiavano grossolanamente le sottigliezze del pensiero originale. Quell’opera, concepita con intento enciclopedico, costituiva ormai poco più di una curiosità. Il volume aveva ormai vent’anni e nel frattempo, nel campo degli studi di solaristica, era cresciuta una montagna d’ipotesi. Un libro non sarebbe bastato a contenerle. Consultai l’indice dei nomi, che elencava alfabeticamente gli autori citati, ed era come scorrere un’anagrafe mortuaria; pochi erano ancora vivi e nessuno, fra questi, si dedicava più allo studio attivo di Solaris. Di fronte a quella profusione di pensiero, spesa in tutte le direzioni, si rimaneva impressionati; qualcuna delle ipotesi doveva certo contenere una briciola di verità: non era possibile che la realtà fosse completamente diversa.

Nella prefazione Gravinski divideva in periodi i sessant’anni iniziali di attività solaristica. Durante il primo, che cominciava con la ricognizione preliminare di Solaris, nessuno aveva formulato esplicitamente ipotesi. Sulla base del «buon senso», si riteneva allora, intuitivamente, che l’oceano fosse un conglomerato chimico senza vita, un’immane massa gelatinosa che circondava il globo, che produceva per attività «quasi vulcanica» creazioni stupefacenti e che stabilizzava la propria orbita instabile in virtù di un processo meccanico autogeno, così come il pendolo, una volta messo in moto, mantiene immutato il proprio piano di oscillazione. A dire il vero, già poco tempo dopo Magenon aveva fatto cenno alla natura di essere vivente della «macchina colloidale»; ma Gravinski faceva cominciare il periodo delle ipotesi biologiche nove anni dopo, quando il parere di Magenon, precedentemente disatteso, cominciava ad avere numerosi seguaci.

Gli anni successivi avevano conosciuto un’intensa fioritura di interpretazioni teoriche dell’oceano vivente suffragate da analisi biomatematiche. Il terzo periodo era quello del marasma delle opinioni scientifiche, fino ad allora più o meno unanimi.

Erano gli anni che avevano visto nascere una quantità di scuole in aspra lotta fra loro. Il tempo in cui furono attivi i Panmaller, gli Strobli, i Freyhousse, i Le Greuille, gli Osipowicz. Tutta l’eredità di Giese fu sottoposta a revisione. Nacquero i primi atlanti, i primi cataloghi, le prime stereografie degli asimmetriadi, ritenuti inesplorabili fino a poco prima (nel frattempo nuovi strumenti teleguidati erano stati introdotti all’interno di quegli spaventosi colossi che esplodevano da un momento all’altro). In margine alle tempestose discussioni si cominciarono a elaborare dei programmi minimali in un primo momento sdegnosamente scartati, fondati sull’idea che, se pure non si riusciva a stabilire il famoso «contatto» col «mostro raziocinante», valeva pur sempre la pena di studiare le città cartilaginose e le montagne gonfiate, create e subito distrutte e riassorbite dall’oceano, per l’ampliamento di conoscenze fisiche e chimiche che se ne sarebbero ricavate e per l’arricchimento delle esperienze nel campo delle macrocellule; ma con i sostenitori di questi surrogati di programma nessuno si abbassava a discutere. Era il periodo nel quale furono redatti i cataloghi, validi ancor oggi, delle metamorfosi tipiche. Frank sviluppò la sua teoria bioplasmatica sui mimoidi che, per quanto abbandonata in seguito perché riconosciuta erronea, continua a rappresentare uno stupendo esempio di arditezza intellettuale e di costruttività logica.

Questi «periodi gravinskiani» furono l’ingenua giovinezza, il romanticismo irresistibilmente ottimistico della solaristica, e finirono col primo annuncio dell’età matura, contrassegnata dallo scetticismo. Intorno ai venticinque anni dagli inizi degli studi, le lontane ipotesi colloidomeccanicistiche avevano trovato una progenie nella teoria sulla natura apsichica dell’oceano. Con opinione quasi unanime si ritenne aberrante la posizione di tutta una generazione di studiosi i quali avevano creduto di scorgere le manifestazioni di una volontà cosciente, dei processi teleologici, un’attività motivata da qualche necessità intima dell’oceano. Refutandone le tesi con grande zelo pubblicistico si preparò il terreno al gruppo Holden, Eonides e Stoliwa, le cui lucide speculazioni si concentravano, con solido fondamento analitico, su un esame minuzioso dei dati instancabilmente radunati; fu il tempo in cui si gonfiarono e sovraccaricarono a dismisura archivi e microfilmoteche, e in cui le spedizioni, composte talvolta da più di mille persone, partivano attrezzate di tutta la migliore strumentazione, registratori automatici, rilevatori, sonde, che la Terra potesse fornire. Tuttavia, mentre l’ammasso di materiale procedeva con ritmo sempre crescente, il vero spirito di ricerca andava disperdendosi; venne così il vero e proprio inizio della fine di quella fase eminentemente ottimistica delle esplorazioni solaristiche.

Era stata una fase caratterizzata da personalità grandissime e audaci sia nell’affermazione sia nella negazione di un concetto teorico, come quelle di Giese, di Strobel, di Sevada, l’ultimo dei grandi solaristi, scomparso in circostanze misteriose nei pressi del Polo Sud del pianeta, vittima apparentemente di un’imprudenza che nemmeno un novizio avrebbe commesso. Planava a bassa quota sull’oceano quando, sotto gli occhi di un centinaio di osservatori, aveva gettato il proprio apparecchio nella voragine di un agilante. Si parlò allora di improvvisa debolezza, di svenimento, di guasto ai congegni di guida; io credo che si trattò in realtà del primo suicidio, di uno scoppio improvviso di disperazione.

Non fu l’ultimo. Ma nell’opera di Gravinski non ce n’era traccia, ero io a supplire con dati, fatti e particolari che attingevo dalle mie conoscenze, mentre sfogliavo le pagine ingiallite.

Non c’erano più stati, in seguito, casi di attentati così patetici alla propria vita, ma è anche vero che si erano fatte rare le grandi personalità. Il reclutamento di studiosi che si dedicano a campi specifici della planetologia costituisce un fenomeno praticamente sconosciuto. La frequenza numerica con cui vengono al mondo individui dotati di grande ingegno e forza di carattere rimane invariata; variano invece le loro scelte. La loro presenza o assenza in un determinato campo di ricerca si può spiegare in relazione alle possibilità offerte dal campo stesso. Ora, comunque si giudichino gli studiosi dell’epoca classica della solaristica, nessuno potrà negare loro la grandezza del genio. Per una decina d’anni i migliori matematici e fisici, i più insigni specialisti di biofisica, informatica, elettrofisica erano stati attratti dal muto gigante di Solaris. Poi, da un momento all’altro, l’esercito di ricercatori sembrò senza capi. Rimaneva una schiera grigia e anonima di raccoglitori e compilatori, sia pure capaci di avviare talvolta esperimenti originali, ma le spedizioni massicce concepite su scala globale e le ipotesi ardite e stimolanti non c’erano più.

La solaristica cominciava a sgretolarsi e, parallelamente alla sua perdita di quota, cresceva una massa d’ipotesi, diversificate in quanto a particolari secondari, ma unanimi nell’insistere sul carattere degenerativo, regressivo, involutivo del mare di Solaris. Ogni tanto spiccava una concezione più ardita e interessante; tutte però giudicavano l’oceano negativamente, come prodotto finale d’uno sviluppo che da molto tempo, da millenni, aveva oltrepassato la fase di più alta organizzazione e che, ridotto a mera unità fisica, agonizzava producendo creazioni vane e senza senso. Un’agonia monumentale che durava da secoli: così si considerava Solaris.

Mimoidi e longhi erano tumori, tutti i processi osservati sulla superficie dell’enorme corpo fluido manifestazioni di caos e di anarchia; e a tal punto questa tendenza volse all’idea fissa che tutta la letteratura scientifica dei sette od otto anni successivi, sia pure nel velo di formulazioni misurate, si nutrì di affermazioni che in realtà erano soltanto un torrente d’ingiurie che un’intera generazione di solaristi derelitti, senza capi, riversava per vendetta contro l’oggetto stesso delle proprie cure, imperturbabile, indifferente, sordo alla loro assiduità.

Conoscevo i lavori originali, a mio parere ingiustamente esclusi da quella raccolta di classici «solaristici», di un gruppo d’una decina di psicologi europei che interessavano la solaristica solo in quanto avevano condotto su un arco di tempo notevolmente lungo un rilevamento delle reazioni dell’uomo comune, del profano. Era emersa in tal modo l’esistenza di una corrispondenza molto stretta fra le fluttuazioni dell’opinione pubblica e i contemporanei processi di cambiamento di rotta negli ambienti scientifici.

Anche in seno al comitato coordinatore degli Istituti planetologici, dove si prendevano le decisioni in merito all’appoggio da dare alle ricerche, era in atto un mutamento che si esprimeva nella riduzione graduale ma continua dei sostegni alle squadre che partivano per il pianeta.

Le mozioni sulla necessità di ridurre gli stanziamenti per le ricerche erano contrastate da alcune voci che richiedevano, al contrario, mezzi d’azione più energici; nessuno, in tal senso, superò il direttore amministrativo dell’Istituto cosmologico onniterrestre, il quale si spinse a sostenere con ostinazione che l’oceano vivente non già sdegnava d’occuparsi degli uomini, bensì non se ne accorgeva, non diversamente da un elefante che non sente le formiche a spasso sulla sua schiena. Per richiamare l’attenzione e far sì che si concentrasse sugli uomini, occorreva impiegare incentivi potenti e macchine gigantesche, di grandezza adeguata alla dimensione del pianeta. L’aspetto buffo della cosa, come la stampa non mancò di sottolineare con malizia, era che la proposta veniva dal direttore dell’Istituto cosmologico e non di quello planetologico, che finanziava le spedizioni su Solaris; ciò significava fare i generosi con le risorse altrui.

Proseguiva intanto il girotondo delle ipotesi, rinnovando le vecchie con l’aggiunta o la precisazione di un particolare o capovolgendone le ambiguità e le conclusioni. La solaristica, disciplina fino ad allora chiara nonostante la sua ampiezza, si trasformava in un labirinto pieno di vicoli ciechi. In un clima generale d’indifferenza, di ristagno e di scoraggiamento, un secondo oceano, di carta stampata, sembrava accompagnare nel tempo quello di Solaris.

Due anni prima che, da laureando, entrassi all’Istituto nel gruppo di lavoro di Gibarian, era sorta la Fondazione Metta e Irving, che prometteva alte ricompense a chi avesse trovato il sistema per sfruttare l’energia del magma oceanico. Si erano fatti dei tentativi, le navi spaziali avevano trasportato sulla Terra carichi interi di gelatina plasmatica. Erano stati elaborati dei metodi di conservazione a bassa e ad alta temperatura, con microatmosfere e microclimi che riproducevano quelli di Solaris, con fissazione per mezzo di radiazioni, con milioni di ricette chimiche, assistendo ogni volta, immancabilmente, a una decomposizione più o meno lenta, che era stata descritta con la massima precisione in tutte le successive fasi: autolisi, macerazione, liquefazione primaria, o precoce, e secondaria, o tardiva. I campioni prelevati sulle efflorescenze e sulle creazioni del plasma subivano sempre la medesima sorte. Cambiava solo il cammino verso la fine, che, dopo un processo di autofermentazione, lasciava una cenere leggera dai riflessi metallici. Qualsiasi solarista era in grado di riconoscerne a occhi chiusi la composizione e il rapporto fra gli elementi costitutivi.

Risoltosi in fiasco completo ogni tentativo di mantenere in vita, sia pure allo stato vegetativo e ibernante, una qualsiasi parte grande o piccola del mostro separata dal suo organismo planetario, nacque la convinzione (sviluppata dalla scuola di Meunier e Proroch) che per risolvere il mistero esistesse una sola strada: trovare la chiave giusta d’interpretazione, che avrebbe chiarito tutto…

Alla ricerca di questa chiave, di questa pietra filosofale solaristica, si era gettata con grande spreco di tempo e di energia una quantità di gente digiuna di studi. Il numero di menti malate, estranee all’ambiente scientifico, che si davano alla speculazione — maniaci che per fanatismo nulla avevano da invidiare ai ricercatori del moto perpetuo o della quadratura del cerchio — si moltiplicò come per il propagarsi di un’epidemia, tanto che se ne occupò anche la psicologia. Questa fiammata, tuttavia, si estinse nel giro di alcuni anni e all’epoca in cui mi preparavo a partire per Solaris non se ne parlava più, né sui giornali né nelle conversazioni, come non si parlava più, in genere, della questione dell’oceano.

Riponendo il libro di Gravinski al suo posto, trovai, fra i grossi volumi, un opuscolo sottile di Grattenstrom, scrittore fra i più singolari della letteratura solaristica. Questa era un’opera contro l’umanità stessa, un libello sulla nostra specie compilato con matematica aridità da un autodidatta che, dopo avere pubblicato alcuni contributi assai curiosi in campi marginali della fisica quantica, aveva voluto dimostrare in quelle poche pagine che le più alte conquiste scientifiche e teoretiche costituivano appena un passettino in avanti rispetto al concetto preistorico, grossolano, antropomorfico del mondo circostante. Attraverso l’indagine sulle eventuali corrispondenze tra il corpo umano (le proiezioni dei nostri sensi, della struttura del nostro organismo e delle limitazioni e imperfezioni della fisiologia umana) e le formule della teoria della relatività, il teorema dei campi magnetici, la parastatica e le teorie unificate del campo cosmico, Grattenstrom giungeva alla conclusione finale che il «contatto» dell’uomo con qualsiasi civiltà di natura non umana, aumanoide, non poteva né mai avrebbe potuto attuarsi. In questo libello, l’oceano vivente non veniva mai nominato; eppure la sua presenza, sotto forma di un trionfale silenzio, affiorava in ogni frase.

Questa era stata, comunque, la mia impressione nei confronti dell’opuscolo di Grattenstrom. Che era, in sostanza, una curiosità e non un solarianum nel vero senso del termine. Se si trovava nella biblioteca fra i classici, doveva avercelo messo certamente Gibarian, che a suo tempo me l’aveva segnalato.

Con uno strano sentimento, quasi reverenziale, rimisi anche questo al suo posto, fra i libri stretti sul ripiano. Sfiorai con la punta delle dita i dorsi rilegati, verde bronzo, dell’ Almanacco di Solaristica. Senza alcun dubbio, in seguito agli avvenimenti degli ultimi giorni, nonostante tutto il caos e tutte le miserie da cui eravamo attorniati, avevamo raggiunto alcune certezze su alcune questioni fondamentali che nel corso degli anni avevano fatto versare inutilmente fiumi d’inchiostro e alimentato discussioni rimaste sterili per mancanza di elementi determinanti.

Qualcuno, per amore del paradosso o per ostinazione, avrebbe potuto mettere ancora in dubbio che l’oceano fosse una creatura viva. Impossibile negare, però, l’esistenza di una sua «psichica», qualsiasi cosa s’intenda con tale parola. Era comunque ovvio che fosse influenzato dalla nostra presenza… e ciò eliminava definitivamente le teorie solaristiche sull’oceano come «mondo in se stesso» o «essere introverso» che, per processo involutivo, era rimasto privo di organi sensori e che, ignaro dell’esistenza di fenomeni e oggetti esterni, girava come un prigioniero in un circolo chiuso gigantesco di correnti di pensiero, di cui era sede, cornice e fonte.

Inoltre avevamo compreso che, a differenza di noi, egli riusciva a sintetizzare artificialmente i nostri corpi e addirittura a perfezionarli ai fini dei suoi incomprensibili intenti, introducendovi delle modifiche di struttura subatomica.

Esisteva, insomma. Viveva, pensava, agiva. La possibilità di ridurre il «problema Solaris» all’assurdo o allo zero, la tesi che non avessimo a che fare con un essere e che quindi la nostra sconfitta tale non fosse non era più sostenibile. Volente o nolente, l’umanità doveva ora prendere in considerazione un vicinato che, seppure distante mezzo miliardo di chilometri di spazio e molti anni luce, era compreso nella nostra zona di espansione; un vicinato che aveva maggior peso di tutto il resto dell’universo. «Forse siamo a un punto cruciale della storia» pensai. Poteva prevalere la decisione della ritirata, del dietrofront, subito o in un prossimo futuro; anche la liquidazione della stazione non era impossibile, o improbabile. Ma non credevo che in questo modo si fosse trovato un rimedio: l’esistenza del colosso pensante non avrebbe più dato requie alla gente. Anche se l’uomo avesse attraversato galassie, anche se si fosse messo in comunicazione con altre civiltà e con altri suoi simili, Solaris avrebbe eternamente rappresentato una sfida.

Un altro volumetto rilegato in pelle si era infilato fra le annate dell’ Almanacco. Prima di aprirlo rimasi un po’ a rimirarne la copertina rovinata. Era un vecchio libro, Introduzione alla solaristica di Muntius; ricordavo ancora la notte di sonno che mi aveva sottratto, il sorriso di Gibarian nel darmelo, il giorno terrestre che albeggiava dietro i vetri della mia finestra quando ero giunto alla parola «fine». «La solaristica» scriveva Muntius «è un succedaneo di religione dell’era cosmica, una fede che riveste i panni della scienza; il Contatto, suo fine supremo, è altrettanto oscuro e nebuloso quanto la Comunione dei Santi o la venuta del Messia. L’esplorazione pone in atto un sistema liturgico sotto la forma metodologica; l’umile laboriosità dei ricercatori è l’attesa di un Avvento, di un’Annunciazione, poiché tra Solaris e la Terra non esistono né possono esistere ponti. Ma questa verità evidente, come altre, come l’assenza di esperienze in comune e di concetti comunicabili, viene respinta dai solaristi nel modo in cui i credenti ricusano qualsiasi argomento che mini le basi della loro fede. Del resto, che cosa si aspetta l’uomo, che cosa si ripromette mai, stringendo ‘relazioni informative’ con un mare pensante? Un elenco delle vicissitudini di un’esistenza senza fine nel tempo, così antica da avere sicuramente perso memoria delle proprie origini? Una descrizione dei desideri, delle passioni, delle speranze, delle angosce che si liberano nel parto autogeno di montagne viventi, una trasmutazione esistenziale della matematica, una pienezza di solitudine e rassegnazione? Ma tutto ciò costituisce una conoscenza non tramandabile, e se proviamo a tradurla in una qualsiasi lingua terrestre, gli auspicati valori e significati vanno perduti, rimangono dall’altra parte. Del resto, i ‘credenti’ non aspirano alla percezione di cognizioni di questo tipo, tra l’altro pertinenti a un ordine poetico più che scientifico, ma aspettano la Rivelazione che spieghi il senso dell’esistenza umana! La solaristica è figlia postuma di miti da tempo defunti, una rifioritura di nostalgie mistiche che le labbra degli uomini non osano proferire apertamente ad alta voce, e il suo fondamento, profondamente nascosto, è la speranza della Redenzione…

«Ma i solaristi, incapaci di riconoscere questa verità, evitano prudentemente qualsiasi interpretazione del Contatto, che nei loro scritti è presentato come fine ultimo mentre nelle opinioni ancora serene dei primi tempi era visto solo come un inizio, come un avvio che, con l’andare degli anni, è stato invece santificato, fino a identificarsi con il Cielo e con l’Eternità…»

Semplice e amara è l’analisi di Muntius, questo «eretico» della planetologia, ma brillante nella negazione, che distrugge il mito di Solaris, o meglio della «missione dell’uomo».

Prima voce che ardisse levarsi in una fase di sviluppo della solaristica ancora piena di fiducia e d’ottimismo, cadde in un silenzio totale, fu ignorata. Ben si capisce, poiché l’accettazione del verbo di Muntius equivaleva alla cancellazione della solaristica così com’era. In quanto all’instaurazione di un’altra, più lucida e umile, l’attesa di un fondatore fu vana.

Cinque anni dopo la morte di Muntius, quando il suo libro era già una rarità bibliografica, introvabile nelle raccolte di solaristica come nelle biblioteche filosofiche, nacque una scuola, il circolo norvegese, che si richiamava a lui. Ma l’eredità di Muntius si disperse secondo la personalità del pensatore che se ne appropriava, e la serenità della sua lezione sfociò nell’ironia aggressiva e corrosiva di Erle Ennesson e nel contesto più triviale della solaristica pratica, o «utilitaristica», di Phaelang. Secondo le affermazioni di quest’ultimo, bisognava mirare ai concreti profitti che si potevano trarre dalle esplorazioni senza rincorrere vane chimere o disperdersi nelle false speranze di un contatto di civiltà, di una comunione intellettuale fra le due civiltà. Messi a confronto con l’implacabile chiarezza d’analisi di Muntius, tutti gli scritti di questi suoi discepoli non sembrano altro che lavori diligenti o addirittura di volgarizzazione, fatta eccezione per le opere di Ennesson e forse anche di Takata. Muntius stesso aveva detto proprio tutto, definendo la prima fase della solaristica come epoca «dei profeti», fra i quali includeva Giese, Holden e Sevada, chiamando la seconda fase «il grande scisma» (scissione della chiesa unica solaristica in una quantità di confessioni diverse e discordi), e prevedendo una terza fase, quella della fossilizzazione dogmatica e scolastica, che sarebbe sopraggiunta quando si fosse esplorato tutto quel che c’era da esplorare. Questo non si è avverato. A mio parere, Gibarian aveva ragione nel giudicare che l’argomentazione sbrigativa di Muntius fosse di un madornale semplicismo, avendo trascurato di considerare ciò che nella solaristica era tutt’altro che elemento di fede, poiché i lavori instancabilmente perseguiti prendevano in considerazione solo la realtà materiale di un globo che girava intorno a due soli.

Nel libro di Muntius era inserito, piegato in due, un estratto molto ingiallito della rassegna trimestrale Parerga Solariana, uno dei primi lavori di Gibarian, di quando non aveva ancora assunto la direzione dell’Istituto. Al titolo, Perché sono solarista, seguiva succintamente, quasi alla maniera di un promemoria, un elenco dei fenomeni concreti che suffragavano l’esistenza di reali possibilità di contatto. Gibarian era appartenuto a quell’ultima generazione di studiosi che avevano avuto il coraggio di riallacciarsi all’ottimismo della prima età d’oro e che quindi non avevano rinnegato una fede che specificamente oltrepassava i confini limitati della scienza, ma fede dichiaratamente materiale, poiché credeva al successo di sforzi perseveranti e dinamici.

Gibarian proveniva dalla scuola eurasiana di Cho En Min, Nygalla e Kavakadze, ben nota per le sue classiche ricerche bioelettroniche. Queste stabilivano degli elementi di somiglianza fra i diagrammi dell’attività elettrica del cervello e certe scariche che avvenivano nell’ambito del plasma, precedendo per esempio la creazione di polimorfi elementari. Gibarian respingeva le interpretazioni antropomorfiche, e tutte le tesi mistificatrici della scuola psichiatrica, di quella psicoanalitica e di quella neurofisiologica, che si sforzavano di scorgere nella massa oceanica i sintomi di malattie umane, fra cui l’epilessia (alla quale paragonavano le eruzioni spasmodiche degli asimmetriadi); egli era infatti fautore del contatto, ma era quant’altri mai cauto e lucido, e alieno soprattutto dagli aspetti sensazionali che accompagnavano talvolta (sempre più raramente, a dire il vero) le scoperte.

Un’ondata d’interesse di questo tipo era stata suscitata proprio dalla mia tesi di laurea. Anch’essa si trovava qui, non pubblicata, naturalmente, ma custodita da qualche parte nei contenitori dei microfilm. Ero partito dagli studi innovatori di Bergmann e Reynolds, i quali, attraverso una serie di processi molto diversificati, erano riusciti a individuare e a «filtrare» le componenti che accompagnavano le emozioni forti, quali la disperazione, il dolore, la voluttà; avevo poi messo sistematicamente a confronto queste registrazioni con scariche delle correnti oceaniche, avevo osservato delle oscillazioni e descritto delle curve (in determinate parti dei simmetriadi, alla base dei mimoidi in formazione eccetera) che rivelavano analogie degne di attenzione. Ciò era bastato per far apparire il mio nome, su certa stampa scandalistica, in relazione a titoli grotteschi come La gelatina si dispera oppure Pianeta in orgasmo. La cosa, in fin dei conti, mi giovò (così almeno avevo creduto), poiché Gibarian, che come ogni altro solarista non poteva leggere tutte le migliaia di lavori che comparivano soprattutto se si trattava di principianti, s’interessò a me e mi scrisse una lettera. Questa lettera chiuse un capitolo della mia vita e ne aprì un altro.

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