5. HAREY

Il muto accanimento nel fare i calcoli mi aveva tenuto sveglio. Adesso, completamente spossato dalla stanchezza, non ero più neanche capace di tirar giù il letto rialzabile; invece di sganciare i fermi superiori, mi appesi alla maniglia, col risultato che il letto mi venne addosso di colpo. Riuscito infine ad abbassarlo e sistemarlo, buttai vestiti e biancheria appallottolati sul pavimento e mi lasciai cadere semisvenuto sul cuscino; non l’avevo nemmeno gonfiato bene. Mi addormentai, senza accorgermene, con la luce accesa.

Nell’aprire gli occhi, ebbi l’impressione di avere dormito appena pochi minuti. La stanza era immersa in un tenue bagliore rossastro. Ero fresco e mi sentivo bene. Stavo sdraiato nudo e senza coperte. Di fronte a me, la tenda era scostata fino a metà, sulla finestra, e nella luce del sole rosso era seduto qualcuno. Era Harey, in un vestito bianco da spiaggia; teneva le gambe accavallate, aveva i piedi scalzi, i capelli neri pettinati all’indietro, e il tessuto dell’abito leggero si tendeva sui suoi seni. Lasciando penzolare le braccia abbronzate fino al gomito, mi guardava fisso, di sotto le lunghe ciglia.

La contemplai a lungo, tranquillo. Il mio pensiero fu:

«Com’è bello un sogno così, quando si sa di sognare». Ma avrei preferito che svanisse. Chiusi gli occhi, augurandomelo intensamente, ma quando li riaprii era seduta davanti a me come prima. Teneva, come suo solito, le labbra socchiuse, quasi fosse in procinto di mettersi a fischiettare, ma lo sguardo era senza sorriso. Rammentai tutte le mie elucubrazioni a proposito dei sogni, prima di addormentarmi. Era tale quale l’avevo veduta per l’ultima volta. Aveva solo diciannove anni in quel momento, adesso ne avrebbe avuti ventinove, ma non era cambiata per niente… i morti rimangono giovani. Aveva gli occhi che mi interrogavano.

«Adesso» pensai «le lancio addosso qualcosa»; ma, sebbene fosse solo un sogno, non potei risolvermi — neanche nel sonno — a buttare qualcosa contro una morta.

— Povera piccola — dissi — sei venuta a farmi una visita, vero?

M’impaurii. Il suono della mia voce era così autentico, la stanza e Harey, tutto pareva assolutamente vero. «Che sogno realistico, non solo, ma anche a colori, e sul pavimento vedo oggetti di cui ieri sera non mi sono accorto. Quando mi sveglierò» pensai, «dovrò controllare se ci sono veramente o se sono soltanto una fantasia del sogno come Harey…»

— Hai intenzione di stare a lungo seduta così? — domandai, e mi accorsi che avevo parlato piano, come per timore che qualcuno udisse… già, quasi fosse possibile che qualcuno potesse spiarmi nel sogno!

Il sole, intanto, era spuntato. Be’, meno male, buon segno anche quello. Mi ero coricato col sole rosso, dopo il quale veniva il giorno azzurro e poi ancora quello rosso. Poiché non potevo certo avere dormito per quindici ore di fila, era certamente un sogno.

Rassicurato, guardai bene Harey. Era in controluce, attraverso una fessura della tenda un raggio le illuminava la pelle vellutata della guancia sinistra e proiettava sul suo viso l’ombra delle ciglia. Era bellissima. «Ma guarda» mi dissi «come sono minuzioso, pur essendo fuori della realtà: controllo anche il movimento del sole, e, in più, quella fossetta che lei ha sotto gli angoli delle labbra.»

Però era meglio che tutto finisse presto, dovevo pur riprendere a lavorare. Chiusi le palpebre, cercando di svegliarmi, poi di colpo udii uno scricchiolio. Immediatamente aprii gli occhi. Si era seduta sul letto accanto a me e mi guardava, seria. Le sorrisi e lei mi sorrise, si chinò sopra di me; il primo bacio fu delicatissimo, come se fossimo due bambini.

La baciai a lungo. «Si può mai vivere un sogno fino a questo punto?» pensavo. Ma non tradivo il suo ricordo, poiché sognavo di lei, solo di lei. Non mi era mai capitato… Continuavamo a rimanere in silenzio. Restavo supino. Quando rialzò il viso, scorsi, sul lato illuminato dal sole, quella sua macchiolina della pelle che era un barometro dei suoi sentimenti; con la punta delle dita le sfiorai i lobi delle orecchie, arrossati per i miei baci, e non so se fu per questo che cominciai a essere inquieto; continuavo a ripetermi che era un sogno, ma provavo una stretta al cuore.

Feci per saltare fuori dal letto; ero preparato all’insuccesso, poiché nel sonno, molto spesso, non si riesce ad avere il controllo sul proprio corpo, che è come assente; contavo però che quel tentativo mi strappasse dal sonno. Comunque, non mi svegliai; mi sedetti, con i piedi posati sul pavimento.

«Niente da fare, devo smettere di sognare» mi dissi; ma il mio buon umore era svanito senza lasciare traccia. Avevo paura.

— Che cosa vuoi? — domandai. La mia voce era rauca e dovetti schiarirmi la gola.

Cercai meccanicamente, con i piedi nudi, le pantofole e, prima di ricordarmi che non le avevo, urtai l’alluce così malamente che imprecai. «Oh, adesso finirà!» pensai con soddisfazione.

Ma non accadde niente. Harey, quando mi ero alzato a sedere, si era scostata. Ora si appoggiava con la schiena sul letto. Il vestito palpitava delicatamente sotto il seno sinistro, al battito del cuore. Lei mi guardava con interesse, pacificamente. Pensai che era meglio fare una doccia; ma mi venne in mente che una doccia fatta in sogno non può svegliare.

— Da dove arrivi? — chiesi.

Sollevò la mia mano e, con un gesto che mi era familiare, si mise a battere contro di essa; mi prendeva sotto i polpastrelli e premeva.

— Non lo so — mi disse. E aggiunse: — E’ sbagliato?

Anche la voce era la stessa, bassa, con un accento un po’

assente. Harey aveva sempre parlato così, non badando alle parole che usava, come se avesse già in mente un’altra cosa; dava l’impressione di essere distratta e talvolta sfacciata, perché guardava tutti con quel blando stupore che adesso le si leggeva negli occhi.

— Chi… qualcuno ti ha vista?

— Non lo so. Sono arrivata, semplicemente. E’ importante, Chris?

Continuava a giocherellare con la mia mano, ma il viso non vi prendeva parte. Era imbronciato.

— Harey…

— Che cosa, caro?

— Come hai fatto a sapere dov’ero?

Ciò la fece riflettere. Quasi non si notava (aveva le labbra scure come se avesse mangiato amarene) che il sorriso le lasciava scoperti leggermente i denti.

— Non ne ho idea. E’ buffo, no? Dormivi, quando sono entrata, e non ti ho svegliato. Non volevo svegliarti, perché sei un collerico e un noioso. Collerico e noioso…

Dicendo queste parole mi sollevò energicamente la mano.

— Sei stata di sotto?

— Ci sono stata. Sono scappata da lì perché faceva freddo.

Lasciò andare il mio braccio e, sdraiandosi di fianco, gettò la testa indietro per mandare tutti i capelli da una parte; mi guardava con quel mezzo sorriso che aveva smesso di irritarmi quando avevo cominciato ad amarla.

— Ma… Harey… ma… — balbettai. Mi chinai su di lei e alzai la manica corta del suo vestito. Sotto la rosetta della cicatrice della vaccinazione antivaiolosa c’era il rosso di un piccolo segno che pareva provocato da una iniezione. Nonostante me lo aspettassi (poiché istintivamente cercavo vestigia di logica nell’irrealtà), mi venne la nausea.

Toccai col dito quel segno di puntura, lo stesso che vedevo in sogno da anni, e che mi faceva svegliare urlando fra le lenzuola sfatte, sempre nella stessa posizione, piegato quasi in due come era sdraiata lei quando l’avevo trovata, quasi fredda. Nei miei sogni cercavo di fare quel che aveva fatto lei, come se volessi chiedere perdono alla sua memoria o accompagnarla negli ultimi minuti, quando aveva già sentito l’effetto dell’iniezione e cominciava ad avere paura.

Harey aveva sempre avuto paura di ferirsi anche minimamente, non poteva sopportare il dolore e nemmeno la vista del sangue, ma di colpo aveva fatto quella cosa orribile, lasciandomi cinque parole su un foglietto. L’avevo tra le mie carte, lo portavo sempre con me, ormai gualcito e logoro lungo le piegature, senza avere mai avuto il coraggio di separarmene. Mille volte ero tornato a quel momento, quando lei lo aveva scritto, e a ciò che aveva potuto provare in quegli istanti. Cercavo di persuadermi che avesse voluto solo spaventarmi, ma che la dose fosse risultata — per caso — troppo forte.

Tutti avevano cercato di convincermi che era stata una decisione repentina, provocata da una depressione improvvisa.

Non sapevano quel che le avevo detto, cinque giorni prima, quando per ferirla e addolorarla mi ero portato via la mia roba, e lei, mentre facevo le valigie, mi aveva risposto, tranquillamente: «Sai cosa significa…?».

Avevo fatto finta di non capire; ma la credevo vile e anche questo gliel’avevo detto… e adesso era sdraiata nel letto e mi guardava attentamente, come se non sapesse che io l’avevo uccisa.

— Non sei capace d’altro? — domandò. La stanza era arrossata dal sole, nei suoi capelli ardeva l’alba; lei si guardò il braccio, che era diventato importante perché io l’avevo osservato a lungo; quando abbassai la mano, lei vi posò la guancia liscia.

— Harey — dissi con voce rauca — non può essere…

— Piantala!

Aveva gli occhi chiusi, vedevo il loro movimento sotto le palpebre, le lunghe ciglia nere toccavano le guance.

— Dove siamo, Harey?

— Da noi.

— Dove?

I suoi occhi si aprirono un attimo e si chiusero di nuovo.

Le sue ciglia mi accarezzarono la mano.

— Chris?

— Cosa?

— Sto bene.

Ero seduto, curvo sopra di lei, e non mi muovevo. Alzai la testa e vidi riflessi nello specchio sopra il lavandino i capelli di Harey spettinati e le mie ginocchia nude. Attirai col piede uno di quegli utensili a metà fusi che erano sparsi sul pavimento e lo sollevai con la mano libera. La punta era affilata.

L’appoggiai sulla pelle, là dove avevo una cicatrice rotonda e rossa, e lo conficcai nella carne. Il dolore era fastidioso.

Guardai il sangue che stillava a grandi gocce sulla superficie esterna della coscia e cadeva lentamente sul pavimento.

Era inutile. Ogni volta i pensieri atroci che mi passavano per la mente diventavano più espliciti. Da tempo non mi dicevo più: «E’ un sogno», non lo credevo più. Pensavo solo:

«Devo difendermi». Guardai la sua schiena che traspariva dal vestito bianco, la forma dei suoi fianchi, i suoi piedi scalzi penzolanti sopra il pavimento. Mi chinai, toccai leggermente la caviglia rosea, passai la mano sotto la pianta del piede.

Era delicata come quella di un neonato.

Seppi allora con certezza che non era Harey, e che quasi sicuramente lei stessa non lo sapeva. Il piede scalzo si mosse sotto le mani, le labbra scure di Harey ridevano senza far rumore.

— Piantala… — disse piano.

Liberai dolcemente la mano e mi alzai. Ero ancora nudo.

Mentre mi vestivo in fretta, vidi che si era seduta sul letto.

Mi guardava.

— Dov’è la tua roba? — domandai, e mi pentii subito.

— La mia roba?

— Ma hai solo questo vestito?

Ormai era un gioco. Mi comportavo apposta con noncuranza, con naturalezza, come se ci fossimo lasciati il giorno prima, no, come se non ci fossimo mai lasciati. Si alzò e con una leggera mossa diede un colpo alla gonna per lisciarla. Le mie parole l’avevano interessata, ma non disse nulla. Per la prima volta diede uno sguardo concreto all’ambiente, come cercando qualcosa, poi riportò gli occhi su di me, visibilmente stupita.

— Non so… — mi disse vaga. — Forse nell’armadio…? — aggiunse, e socchiuse la porta.

— No, lì ci sono solo le tute — risposi. Trovai di fianco al lavandino il rasoio elettrico e cominciai a farmi la barba. Preferivo non voltare le spalle a quella ragazza, chiunque fosse.

Camminava su e giù per la cabina, guardando in tutti gli angoli, e fuori dalla finestra; alla fine mi si avvicinò e disse:

— Chris, ho l’impressione che sia successo qualcosa…

S’interruppe. Aspettai, col rasoio in mano.

— E’ come se avessi scordato… è come se avessi scordato quasi tutto. Solo… ricordo te… E… e niente di più.

L’ascoltavo cercando di dominare la mia espressione.

— Sono… stata ammalata?

— No… ma si potrebbe dire così. Sì, per un certo tempo sei stata un po’ ammalata.

— Ah. Dev’essere per questo.

Cominciò a rasserenarsi.

Non so descrivere ciò che passai. Quando stava zitta, e camminava, e si sedeva, e sorrideva, ero convinto di avere davanti a me Harey. A farmi girare la testa era qualcosa di più forte della paura. Una Harey semplificata, limitata alle sue caratteristiche nei gesti e nelle risposte. Mi si avvicinò, mise i pugni sotto il mento e mi domandò: — Come andiamo?

Bene o male?

— Nel migliore dei modi. Sorrise impercettibilmente.

— Se lo dici così, direi che va male.

— Ma no, Harey carissima. Adesso devo uscire — dissi rapidamente. — Mi aspetterai, vero? Forse… hai fame — aggiunsi, poiché a un tratto sentivo anch’io crescere la fame.

— Fame? No.

Scosse la testa, e i capelli ondeggiarono.

— Devo aspettarti? Per molto?

— Un’oretta… — cominciai, ma m’interruppe.

— Vengo con te.

Era un’altra Harey: quella che conoscevo non era mai stata così invadente.

— Piccola, non è possibile.

Mi guardava dal basso e mi prese la mano. La toccai dal braccio alla spalla, il suo braccio era pieno e caldo, una carezza non intenzionale. Il mio corpo si riconosceva nel suo, lo desideravo, mi attraeva fino alla follia, al di là delle incertezze e della paura.

Cercando a tutti i costi di tranquillizzarla, ripetei: — Harey, è impossibile: devi rimanere.

— No.

Come risuonò nella cabina quella parola!

— Perché?

— N… non lo so.

Si guardò attorno e di nuovo alzò gli occhi.

— Non posso… — disse quasi sottovoce.

— Ma, perché?

— Non lo so. Non posso. Mi sembra che… mi sembra che…

Chiaramente, cercava una risposta. Quando la trovò, fu per lei quasi una scoperta.

— Mi sembra… che io non debba smettere di vederti.

L’intonazione concreta tolse alle parole ogni sentimento di fedeltà. Sotto questa impressione, il mio abbraccio cambiò…

anche se apparentemente non lo mostrai. Era rigida tra le mie mani; fissandola negli occhi, cominciai a piegarle le braccia all’indietro. Questo movimento, sebbene non premeditato, aveva uno scopo. Cercavo con gli occhi qualcosa con cui legarla. I suoi gomiti si toccarono e, contemporaneamente, si tesero con tale forza che annullarono la mia presa. Lottai per un secondo. Nemmeno un’atleta, piegata all’indietro come era Harey, toccando appena con i piedi il pavimento, sarebbe riuscita a liberarsi; lei, però, con un’espressione del tutto indifferente, senza modificare il suo lieve sorriso un po’ insicuro, spezzò il mio abbraccio, si raddrizzò e abbassò le mani.

I suoi occhi mi osservavano con la stessa tranquilla curiosità di prima, quando mi ero svegliato, come se non si fosse resa conto del mio disperato sforzo per immobilizzarla dettato da un accesso di paura. Era in piedi, inerte, sembrava che aspettasse qualcosa, indifferente e allo stesso tempo raccolta e leggermente stupita di tutto.

Mi caddero le braccia. La lasciai in mezzo alla stanza e mi diressi verso il piano del lavandino. Sentivo di essere in trappola e ne cercavo l’uscita, pensando convulsamente cosa fare. Se qualcuno mi avesse chiesto che cosa mi succedeva, che cosa significasse tutto quello, non sarei riuscito a dire neppure una parola, però mi rendevo conto che era qualcosa che succedeva a tutti nella stazione, ed era insieme tremendo e incomprensibile; eppure mi ostinavo a cercare una via d’uscita. Anche se ero di spalle, sentivo lo sguardo di Harey.

Sopra il ripiano, in una nicchia del muro, si trovava una cassetta di pronto soccorso. Vi guardai dentro rapidamente. Trovai un tubetto con dei sonniferi e buttai quattro pastiglie — la dose massima — nel bicchiere. Non cercavo di nascondere ad Harey quel che facevo. Mi era difficile dirne il perché. Non ci pensavo troppo. Versai nel bicchiere acqua calda, aspettai che si sciogliessero le pastiglie e mi avvicinai ad Harey che restava in mezzo alla stanza.

— Sei arrabbiato? — domandò in un bisbiglio.

— Bevi questo.

Non saprei spiegarne il motivo, ma ero certo che mi avrebbe obbedito. Ed effettivamente prese il bicchiere dalle mie mani e ne bevve il contenuto.

Appoggiai il bicchiere vuoto su un mobile e mi sedetti in un angolo tra l’armadio e la biblioteca. Harey mi si avvicinò lentamente, si accucciò per terra a fianco della poltrona, com’era solita fare, con le gambe sotto di sé, e, con un movimento a me ben noto, buttò i capelli all’indietro. Pur convinto che non fosse lei, ogni volta, riconoscendo questi particolari, qualcosa mi stringeva la gola. Era davvero una cosa incomprensibile e tremenda, e soprattutto terribile, per me, quel cercare di darle a intendere, contro la mia volontà, che la consideravo Harey, quando lei stessa, senza malizia, era convinta di esserlo. Non so come potevo essere arrivato a capirlo, ma ne ero sicuro, se di qualcosa si poteva essere sicuri…

Ero seduto, la ragazza appoggiava la schiena contro le mie ginocchia, i suoi capelli solleticavano la mia mano immobile, stavamo in quella posizione senza muoverci. Di tanto in tanto guardavo l’orologio. Era passata mezz’ora. Il sonnifero ormai avrebbe dovuto fare effetto. Harey sussurrò adagio qualcosa.

— Che cosa dici? — domandai, ma non mi rispose.

Presi questo per un segno di sonnolenza incipiente, sebbene, quant’è vero Dio, nel fondo della mia anima dubitassi che il barbiturico facesse effetto. Perché? A questa domanda non trovavo risposta, sicuramente perché il mio ragionamento era fin troppo semplice.

Pian piano la sua testa scivolò dalle mie ginocchia mentre i capelli neri le coprirono il viso; respirava regolarmente, come una persona addormentata. Mi chinai per adagiarla sul letto. Di colpo, senza aprire gli occhi, mi afferrò i capelli con la mano e scoppiò a ridere.

Rimasi paralizzato mentre lei rideva a più non posso. Gli occhi socchiusi, mi guardava con un’aria tra l’ingenuo e il furbo. Ero seduto in una posizione rigida, non naturale, intontito e smarrito. Harey rise ancora, avvicinò la sua faccia alla mia mano e rimase in silenzio.

— Perché ridi? — domandai con voce severa.

Un’espressione ferma e riflessiva apparve sul suo volto.

Vedevo che voleva essere sincera. Si toccò il naso con un dito e disse sospirando: — Non lo so. — Mi sembrava sorpresa.

— Mi comporto come un’idiota, vero? — continuò. — Ma mi viene spontaneo… Anche tu, però: te ne stai seduto lì, borioso come… Pelvis…

— Cosa? — domandai, credendo di avere udito male.

— Come Pelvis, sai, quello grasso…

Ora, fuor di ogni dubbio, Harey non poteva conoscere Pelvis, e nemmeno averne sentito parlare da me, per il semplice fatto che era tornato dalla sua spedizione tre anni dopo il suicidio. Anch’io non l’avevo conosciuto fino a quell’epoca e tanto meno sapevo che, quando presiedeva le riunioni dell’Istituto, aveva l’abitudine inveterata di prolungarle all’infinito.

Si chiamava Pelle Villis, e da questo era nato il nomignolo, che mi era però sconosciuto prima del suo ritorno.

Harey appoggiò i gomiti sulle mie ginocchia e mi guardò in faccia. Le posai le mani sulle spalle e risalii fino ad arrivare all’attaccatura del collo. Poteva credere che fosse una carezza, e dai suoi occhi si poteva pensare che non immaginasse altro. In realtà mi convinsi che il suo corpo, sotto il mio semplice contatto, era caldo e umano, e che sotto i muscoli si celavano ossa e articolazioni. Guardandola dritto negli occhi tranquilli mi venne un’orrenda voglia di stringere le dita con forza.

Stavo quasi per farlo, quando mi tornarono in mente le mani insanguinate di Snaut e la lasciai.

— Come mi guardi… — mi disse con calma.

Il mio cuore batteva così forte che non fui in grado di replicare. Abbassai per un momento le palpebre.

Di colpo articolai un piano d’azione, minuzioso, con tutti i particolari. Non volendo perdere tempo, mi alzai dalla poltrona.

— Harey, devo andarmene — dissi. — Se veramente vuoi, vieni con me.

— Bene.

Si alzò di colpo.

— Perché sei scalza? — domandai, avvicinandomi all’armadio e scegliendo due tute colorate, una per me e una per lei.

— Non lo so… devo aver perso le scarpe da qualche parte…

— disse incerta.

Finsi di non avere udito. — Sopra il tuo vestito non riuscirai a metterti questo. Devi togliertelo.

— La tuta…? E per che cosa? — chiese, cercando di togliersi il vestito. Ma succedeva una cosa strana: era impossibile sfilarlo, non aveva abbottonatura. I bottoni rossi, sul davanti, erano solo decorativi. Mancava qualsiasi tipo di chiusura, cerniera lampo o altro. Harey sorrideva impacciata.

Come se fosse la cosa più naturale del mondo, raccattai dal pavimento una specie di scalpello e tagliai il tessuto partendo dalla scollatura. Così riuscì a togliersi l’abito dalla testa. La tuta le stava un po’ grande.

— Dobbiamo volare…? Anche tu? — mi domandò mentre entrambi, già vestiti, lasciavamo la stanza. Annuii con la testa.

Avevo una paura tremenda di incontrare Snaut, ma il corridoio che andava verso il vano di arrivo era vuoto e la porta della cabina radio era chiusa.

Nella stazione spaziale perdurava un cupo silenzio. Harey stette a guardare mentre, con un piccolo carrello elettrico, indirizzavo il razzo dal box di mezzo a un binario libero.

Controllai, in successione, lo stato del microreattore, dei telecomandi dei diffusori, dopo di che, tolta la capsula ancora posata sulla piattaforma concava di lancio, sotto la volta a imbuto, spinsi sulla rampa il carrello col missile.

Era una navicella utilizzata per i viaggi tra la stazione e il satellite; soprattutto per il trasporto di merci o persone in casi eccezionali, poiché non si poteva aprirla dall’interno. Questo faceva parte del mio piano. Non pensavo certo di lanciare il piccolo missile, ma cercavo di farglielo credere, come se veramente mi stessi preparando a una partenza: Harey, che mi aveva accompagnato in parecchi viaggi, se ne intendeva un pochino. Controllai ancora una volta, all’interno della navicella, lo stato dell’apparecchio per l’ossigeno e il condizionatore; quando le luci di controllo si accesero, dopo aver inserito i circuiti automatici, uscii dal piccolo guscio e lo indicai ad Harey, che si trovava ai piedi della scaletta.

— Entra.

— E tu?

— Entrerò dopo di te, devo avvitare il portello dietro di noi.

Non mi sembrava che potesse scoprire il mio tranello.

Quando entrò attraverso la scaletta, affacciai la testa nell’apertura e chiesi se riusciva a sistemarsi comodamente; quando sentii il suo «sì», soffocato nel piccolo spazio, retrocessi e chiusi con forza il portello. Con due mosse tirai le leve; con la chiave già pronta mi accinsi a serrare le cinque viti di sicurezza. Quella specie di sigaro a punta era posizionato in verticale come se da un momento all’altro dovesse essere lanciato nello spazio. Sapevo che, chiusa lì dentro, non le sarebbe successo niente; nel missile c’era ossigeno a sufficienza e anche viveri. Non avevo affatto l’intenzione di lasciarla prigioniera per sempre, ma volevo a tutti i costi avere almeno un paio d’ore di libertà per elaborare qualche progetto, per parlare finalmente con Snaut in condizioni di parità. Mentre stringevo l’ultima vite, sentii che la struttura metallica, sulla quale il razzo era posato su tre punti, vibrava leggermente. Pensai di essere io a farla dondolare, lavorando con quelle enormi chiavi.

Quando mi allontanai di qualche passo, vidi una cosa a cui spero di non assistere mai più.

Tutto il razzo vibrava, sussultava sotto una serie di colpi che sembravano sferrati dall’interno: e che colpi!

Se, invece di una bruna fanciulla magrolina, avessi chiuso nel razzo un automa d’acciaio, sicuramente non sarebbe riuscito a scuotere in modo altrettanto violento quelle otto tonnellate di materiale. La luce dell’aeroporto assumeva riflessi cangianti per le vibrazioni della superficie levigata. Non udivo il rumore dei colpi, all’interno del missile c’era un assoluto silenzio, ma i montanti dell’ossatura metallica che lo sosteneva si deformavano vibrando come corde. La frequenza dei sussulti era tale da farmi temere per l’intera ossatura. Strinsi l’ultima vite con mani tremanti e, gettata lontano la chiave, saltai giù dalla scaletta. Allontanandomi, vidi che i supporti degli ammortizzatori, progettati per resistere a una pressione continua, ballavano nei loro zoccoli. Mi sembrò che l’involucro corazzato perdesse la sua compattezza. Come un pazzo corsi verso il quadro dei telecomandi, con tutt’e due le mani spinsi in alto la leva che attivava il reattore e le comunicazioni; all’istante, dall’altoparlante collegato con l’interno del razzo uscì un clamore lacerante: non un sibilo, non un fischio, e nemmeno pareva una voce umana, ma riuscii ugualmente a distinguere nell’urlo l’invocazione ripetuta: — Chris! Chris!

Chris!

Non udivo molto chiaramente. Mi colava il sangue dalle dita, contuse nei movimenti disordinati e violenti compiuti per maneggiare i comandi. Uno splendore azzurro, come un’alba livida, illuminò le pareti; sotto il foro del disco di lancio si levò una nube di polvere che si trasformò in un fascio di scintille e tutti i rumori furono coperti da un ruggito ininterrotto.

Il razzo, sollevandosi su tre vampe che subito si unirono in una colonna unica, partì attraverso la pista di lancio aperta, lasciando dietro di sé una scia infuocata che ricadeva mollemente. Le saracinesche si chiusero subito, e automaticamente si misero in azione i compressori che cominciarono a pulire l’aria della rimessa dal fumo soffocante che vi regnava.

Non mi rendevo conto di tutto quello che era successo. Appoggiato al quadro dei comandi, con la faccia ustionata dal fuoco vivo, con i capelli bruciacchiati e arricciati dallo sbalzo termico, cercavo, ansando, di respirare l’aria, acre per il fumo e pregna della caratteristica puzza di ozono della ionizzazione.

Nonostante avessi chiuso istintivamente gli occhi al momento del lancio, il bagliore della fiammata li aveva colpiti.

Per un po’ di tempo vidi tutto nero e rosso con dei cerchi gialli, che poco a poco sparirono. La polvere e la nebbia svanirono aspirati dai canali di ventilazione che funzionavano rumorosamente. La prima cosa che riuscii a scorgere fu lo schermo del radar che brillava di un colore verde. Cominciai a cercare il razzo, manovrando con l’indicatore. Quando finalmente lo raggiunsi, era già uscito dall’atmosfera. Non ho mai eseguito il lancio di un missile in modo così pazzo in vita mia, alla cieca, senza curarmi di quale accelerazione dargli e di dove dirigerlo. Pensai che la cosa più semplice fosse introdurlo nell’orbita circolare attorno a Solaris, più o meno all’altezza di mille chilometri, dove avrei avuto la possibilità di spegnere i propulsori, dei quali ignoravo la portata; se avessero continuato a funzionare, si sarebbero potute verificare conseguenze catastrofiche. L’orbita dei mille chilometri — come avevo rilevato dalla tabella — era stabile. Ma anche questo, per dire la verità, non garantiva niente.

Non avevo più il coraggio di accendere il microfono, che avevo disattivato subito dopo il lancio. Ero pronto a tutto pur di non sentire ancora quella orrenda voce, che non aveva più nulla di umano. Una cosa credevo di poter dire: che avevo sconfitto l’apparenza fallace, e che al volto modellato su quello di Harey si sostituiva il suo vero volto; se così non fosse accaduto, l’alternativa della pazzia sarebbe stata veramente una liberazione.

Quando lasciai l’aeroporto, era l’una.

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