14. IL VECCHIO MIMOIDE

Sedevo davanti a una grande finestra e guardavo l’oceano.

Non avevo niente da fare. Il rapporto era stato steso in cinque giorni, era adesso un fascio di raggi che attraversava il vuoto oltre la costellazione di Orione. Quando avesse raggiunto la nebulosa oscura che si estende su una superficie di dodicimila milioni di milioni di chilometri quadrati, e che assorbe ogni segnale e raggio di luce, si sarebbe imbattuto in una delle prime stazioni ripetitrici. Da qui, da una boa radio a un’altra, sarebbe saltato per milioni di chilometri, continuando lungo la curva dell’arco, e infine, l’ultimo trasmettitore, un blocco metallico pieno di strumenti di precisione, con la testa allungata per l’antenna direzionale, l’avrebbe concentrato e inoltrato nello spazio verso la Terra. Dopo parecchi mesi un uguale fascio di energie emesso dalla Terra, lasciando dietro di sé una scia di deformazioni nel campo gravitazionale della galassia, avrebbe raggiunto il fronte della nube cosmica, sarebbe scivolato rinforzandosi lungo il cordone libero delle boe, e con non minore velocità si sarebbe diretto verso i doppi soli di Solaris.

L’oceano, sotto il sole rosso in alto nel cielo, era più nero che mai. La nebbia color ruggine formava tutt’uno col cielo.

Era un giorno afoso, come se si preparasse una delle tempeste, rare, ma di una violenza inimmaginabile, che si scatenavano una o due volte all’anno. Secondo certe ipotesi, il clima e le tempeste del pianeta erano controllati dal suo unico abitante.

Ancora per qualche mese avrei dovuto guardare da quelle finestre le aurore di oro bianco, o di rosso cupo, che di tanto in tanto si rispecchiavano in qualche eruzione liquida, nel pallone argentato dei simmetriadi. Avrei contemplato la migrazione degli snelli agilanti trasportati dal vento e avrei indugiato a considerare i vecchi mimoidi semisgretolati. Un certo giorno, poi, tutte le spie luminose dei videotelefoni si sarebbero messe a lampeggiare, la segnaletica elettronica, da tempo inattiva, sarebbe stata avviata da impulsi trasmessi dalla distanza di centinaia di milioni di chilometri, annunciando l’avvicinarsi del colosso metallico che, col boato continuo dei gravitatori, sarebbe sceso verso l’oceano. Sarebbe stato l’Ulisse o il Prometheus, o un altro dei giganteschi incrociatori per lunghe distanze. Dal tetto della stazione sarei salito a bordo attraverso il boccaporto e avrei visto delle file di automi bianchi blindati, automi massicci, che non condividono con l’uomo il peccato originale, e sono così innocenti da eseguire fino in fondo il proprio compito, pronti a distruggersi o a distruggere ogni ostacolo che incontrano, obbedendo rigorosamente agli ordini, registrati dai cristalli della loro memoria. Poi la nave, più veloce del suono, si sarebbe alzata senza rumore, lasciando lontano dietro di sé un boato sulla superficie dell’oceano, mentre le facce della gente di bordo si sarebbero illuminate al pensiero del ritorno a casa.

Ma io non avevo una casa. La Terra? Pensavo alle sue grandi città popolose e rumorose nelle quali mi sarei smarrito, nelle quali sarei scomparso completamente, allo stesso modo che se mi fossi gettato, come avevo pensato di fare due o tre notti prima, nell’oceano che ondeggiava pesantemente nelle tenebre. Sarei annegato tra la gente. Sarei diventato un compagno solerte e silenzioso, benvoluto da amici e da donne, magari avrei avuto una donna per me. Durante un certo periodo avrei dovuto sforzarmi, per sorridere, per salutare, per alzarmi, per fare le mille piccole cose di cui è intessuta la vita terrestre, finché non mi sarei più accorto dello sforzo.

Avrei trovato altri interessi, nuovi lavori. Ma non mi sarei più dato a questi interamente. Non mi sarei dato interamente a nulla e a nessuno, mai più. E forse, di notte, avrei fissato lo sguardo là dove, nel cielo, una nebulosa di tenebre nasconde come una membrana nera lo splendore dei due soli, ricordando tutto, anche quello che stavo pensando adesso, e ricordandolo con un sorriso ironico misto a una stilla di rimpianto per le mie follie e le mie speranze. Non credevo che nel futuro ci sarebbe poi stato qualcosa di migliore del Kelvin che era stato pronto a tutto per un progetto chiamato «Contatto». E nessuno avrebbe avuto il diritto di giudicarlo.

Nella cabina entrò Snaut. Girò gli occhi all’intorno, poi mi guardò. Mi alzai e mi avvicinai al tavolo.

— Volevi qualcosa?

— Mi sembra che tu non abbia niente da fare… — disse con una smorfia. — Potrei darti, sai, certi calcoli; non ne ho bisogno subito, però…

— Ti ringrazio — sorrisi, — non occorre.

— Sei sicuro? — domandò, guardando fuori dalla finestra.

— Sì. Pensavo a varie cose, e…

— Preferirei che tu pensassi un po’ meno.

— Ah, ma non sai a che cosa. Dimmi, tu credi in Dio?

Mi osservò attentamente. — Come? Chi crede, oggi… — scorgevo nei suoi occhi l’inquietudine.

— Non è così semplice — dissi in tono volutamente leggero.

— Non riguarda il Dio tradizionale delle religioni terrestri.

Non sono uno specialista di storia delle religioni, e forse non invento niente. Ma sai, per caso, se ci sia stata mai una fede in un Dio… imperfetto?

— Imperfetto? — ripeté alzando le sopracciglia. — Come lo intendi? In un certo senso il Dio di ogni religione è imperfetto, poiché carico di attributi umani. Il Dio dell’Antico Testamento esigeva il servilismo, pretendeva il sacrificio di vittime, era geloso degli altri dei… Presso i greci gli dei, con le loro beghe e liti in famiglia, erano quasi altrettanto imperfetti degli uomini.

— No — l’interruppi. — A me interessa un Dio nel quale l’imperfezione non derivi dall’ingenuità dei suoi creatori umani, e ne sia invece la principale caratteristica immanente. Dev’essere un Dio, limitato nella sua onniscienza e onnipotenza, che sbaglia nel prevedere il futuro delle proprie opere, e crea un corso di fenomeni che può destare orrore. Questo è un Dio… invalido, che vuole sempre più di quanto può, e che non se ne rende conto subito. Crea gli orologi, ma non il tempo che essi debbono misurare. Sistemi o meccanismi che dovrebbero servire a certi precisi scopi e invece li oltrepassano e li tradiscono. Ha creato l’infinito, che doveva essere la misura della sua potenza, e invece è diventato il metro della sua immane sconfitta.

— Un tempo il manicheismo… — incominciò a dire, titubante, Snaut. Il diffidente riserbo con cui si era rivolto a me negli ultimi tempi era sparito.

— Niente in comune col principio del bene e del male — lo interruppi. — Questo Dio non esiste fuori della materia e non può liberarsi da questa, e non vuole altro…

— Una religione simile non la conosco — disse dopo un istante di silenzio. — Non è mai stata… necessaria. Se ti ho capito bene, come temo, tu pensi a un Dio che si evolve, che si sviluppa nel tempo, che cresce e aumenta di continuo la propria potenza prendendo coscienza della propria impotenza.

Questo tuo Dio è un essere inserito nella divinità come in una situazione senza uscita, e che, sapendolo, se ne dispera.

Sì. Però il Dio disperato non è forse l’uomo, mio caro? Stai parlandomi dell’uomo… E’ una filosofia che non vale granché e una mistica che vale ancora meno.

— No — risposi ostinatamente. — Non parlo dell’uomo. Forse, in qualche particolare, l’uomo corrisponderebbe a questa definizione sommaria, ma solo per il fatto che è piena di lacune. L’uomo, contrariamente alle apparenze, non si crea degli scopi. Glieli impone il periodo nel quale nasce, ed egli può servirli o ribellarvisi, ma l’oggetto del suo servizio o della sua rivolta gli è dato dall’esterno. Per cercare i propri scopi in libertà assoluta l’uomo dovrebbe essere solo, e non può riuscire, poiché l’uomo che non è educato tra la gente non può diventare uomo. Quello… mio non può esistere al plurale, capisci?

— Ah — disse, — allora… — E indicò con la mano la finestra.

— No — negai. — Lui no. Lui ha certo sfiorato nel suo sviluppo la possibilità di essere Dio, ma si è chiuso in se stesso troppo presto. E’ un anacoreta, un eremita del cosmo, e non il suo Dio… lui si ripete, Snaut, e quello che ho in mente non lo farebbe mai. Forse nasce da qualche parte, in qualche angolo della galassia, e a momenti incomincerà, con l’ebbrezza dell’adolescente, a spegnere certe stelle e ad accenderne altre, e lo noteremo solo fra qualche tempo…

— Lo abbiamo già notato — disse Snaut con acidità. — Novae e supernovae… sono secondo te delle candele del suo altare?

— Se prendi le mie parole alla lettera…

— O forse Solaris è la culla del tuo Dio bambino — aggiunse Snaut. Assieme al suo sorriso si accentuavano le rughe della sua faccia. — Forse, secondo il tuo ragionamento, è lo stadio primitivo, l’embrione del Dio disperato. Forse la vitalità della sua infanzia supera ancora di troppo la sua intelligenza, e tutto ciò che contengono le nostre biblioteche di solaristica costituisce il voluminoso catalogo dei suoi riflessi infantili…

— Noi per un periodo di tempo siamo stati i suoi giocattoli — aggiunsi. — Sì, è possibile. E sai in che cosa sei riuscito? Nel creare un’ipotesi nuova di zecca sull’argomento Solaris… E non dico poco! Con essa tutto va a posto e si spiega: l’impossibilità di allacciare il contatto, la mancanza di risposta, e certe… stravaganze nel comportamento con noi; tutto corrisponde a una psicologia accentuatamente infantile…

— Rinuncio alla paternità dell’opera — borbottò, rimanendo sempre vicino alla finestra. Per un bel po’ guardammo le onde nere. Si intravedeva una piccola macchia pallida e oblunga nelle nebbie dell’orizzonte, a est.

— Come ti è saltata in mente l’idea del Dio imperfetto? — domandò improvvisamente, senza staccare gli occhi dal deserto luccicante.

— Non lo so. Mi è sembrata molto verosimile, sai? E’ l’unico Dio al quale sarei capace di credere. La sua sofferenza non è una redenzione, non salva niente, non serve a niente: semplicemente, è.

— Un mimoide… — disse piano Snaut, con un altro tono di voce.

— Cosa dici? Ah, sì. L’avevo notato. E’ molto vecchio.

Entrambi guardavamo l’orizzonte rugginoso e annebbiato.

— Esco in volo — dissi improvvisamente. — Fino ad ora non mi sono mai allontanato dalla stazione, e questa è una buona occasione. Torno tra mezz’ora…

— Che cosa dici? — Snaut spalancò gli occhi. — In volo?

Dove?

— Là. — Additai la macchia corposa nella nebbia. — Che male c’è? Prenderò il piccolo elicottero. Sarebbe comico, sai, se sulla Terra dovessi un giorno dire di essere un solarista che non ha mai messo piede sul suolo di Solaris…

Mi avvicinai all’armadio e incominciai a smuovere le tute.

Snaut mi osservò in silenzio e infine disse: — Non mi va a genio.

— Cosa? — Mi girai con la tuta in mano. Da tempo non ero così eccitato. — Che c’è? Hai paura che…? E’ assurdo. Ti do la mia parola che no. Non ci avevo nemmeno pensato. No, veramente no.

— Vengo con te.

— Grazie, ma preferisco andare da solo. E’ qualcosa di nuovo per me, qualcosa di completamente nuovo — dissi, indossando rapidamente la tuta.

Snaut brontolò non so che; non lo ascoltavo, cercavo in fretta l’equipaggiamento che mi occorreva. Mi seguì fino all’aeroporto. Mi aiutò a far uscire l’apparecchio dal box e a portarlo in mezzo alla piattaforma di partenza. Mentre stavo per chiudere la tuta, mi domandò: — La parola d’onore ha qualche valore per te?

— Mio Dio, Snaut! Ancora? Te l’ho già data. Dove sono le bombole di riserva?

Non mi disse più niente. Quando chiusi la cupola trasparente, gli feci cenno con la mano. Mise in moto l’ascensore, che mi portò fuori, sulla parte superiore della stazione. Il motore si svegliò, rumoreggiò, la tripla elica girò e l’apparecchio si alzò, stranamente leggero, lasciando dietro di sé il disco argenteo, sempre più piccolo, della base spaziale.

Ero per la prima volta solo sopra l’oceano. L’impressione era diversa da quella che si aveva dalla finestra, forse per la bassa quota dell’apparecchio. Volavo a una distanza di appena qualche decina di metri sopra le onde. Solo ora capivo e sentivo che le increspature e gli avvallamenti della superficie si muovevano non come le onde del mare, o come le nuvole, ma come un animale. Pareva la contrazione continua ma straordinariamente lenta dei muscoli di un corpo che secerneva una schiuma scarlatta. Quando feci per dirigermi verso il mimoide simile a un’isola che andava lentamente alla deriva, il sole mi colpì dritto negli occhi, gettò sprazzi sanguigni sul vetro curvo, e l’oceano nero divenne di un azzurro scuro con delle macchioline di fuoco.

La manovra, compiuta con non troppa abilità, mi fece scadere sottovento, lontano dalla sagoma lunga e chiara del mimoide che si sollevava irregolarmente sull’oceano. Aveva perso il color rosa di cui si rivestiva nella nebbia, era giallastro come un osso essiccato; per un momento lo persi di vista e invece scorsi in lontananza la stazione, simile per forma a uno degli antichi dirigibili, che pareva posato sulla superficie oceanica. Ripetei la manovra con maggiore attenzione; la massa del mimoide, col suo rilievo tormentato e grottesco, crebbe rapidamente avvicinandosi. Per timore di urtare le protuberanze a bulbo raddrizzai l’apparecchio così bruscamente che, perdendo velocità, si mise a rollare; la precauzione era stata inutile, perché le cime arrotondate di quelle torri si abbassavano. Regolai il volo sulla deriva dell’isola e lentamente, un metro per volta, scesi fino a sfiorare le vette corrose. Non era enorme. Da un capo all’altro misurava poco più di un chilometro, su una larghezza di un paio di centinaia di metri. In certi punti mostrava un restringimento che annunciava che presto si sarebbe spaccato. Doveva essere un pezzo staccato di una formazione incomparabilmente più grande.

Sulla scala di Solaris era appena una scheggia, un residuo già vecchio di chissà quante settimane o mesi.

Tra gli scogli a strapiombo sull’oceano c’era un’apertura, una specie di spiaggia di qualche decina di metri quadrati, in pendio ma piatta. Diressi lì il velivolo. La discesa fu più difficile del previsto, andai a un pelo dal toccare con l’elica un dirupo che mi ero trovato improvvisamente dinanzi. Spensi il motore e aprii la cupola respingendola all’indietro. In piedi sull’alettone verificai che l’elicottero non rischiasse di scivolare verso il basso, nell’oceano; le onde lambivano la riva a pochi passi dal punto di discesa, ma l’apparecchio stava al sicuro sui suoi appoggi largamente divaricati. Saltai a… «terra». Quello che mi era parso un dirupo era una grandissima membrana sottile e traforata, una lastra pietrificata posata verticalmente e percorsa da rigonfiamenti. Una breccia larga alcuni metri fendeva di sbieco la parete e consentiva di esaminare l’interno dell’isola, già intravista attraverso le sue immense e irregolari aperture. Mi arrampicai con prudenza sulla sporgenza più vicina, ed ebbi la prova che le scarpe facevano presa, che la tuta non impacciava i miei movimenti.

Ora, trovandomi a un’altezza di quattro piani sopra l’oceano, in mezzo al paesaggio scheletrico, finalmente potevo vederlo per intero.

Assomigliava in modo sorprendente a un’arcaica città in rovina, una borgata esotica e secolare del Marocco, distrutta da un terremoto o da un altro cataclisma. Si vedeva chiaramente il labirinto di stradine tortuose, in parte coperte dalle macerie, con i vicoli in ripido pendio verso la riva, bagnati dalla massa gelatinosa; più in alto merlature intatte e bastioni dai contrafforti smussati, nelle pareti rigonfie le aperture buie erano come finestre e feritoie di una fortezza. Quest’isolacittà era tutta inclinata su un fianco, come una nave che affonda, e andava alla deriva, con un movimento senza senso né costanza, girando molto lentamente su se stessa, com’era confermato dal cambiamento di posizione del sole sull’orizzonte, che provocava anche lo spostarsi delle ombre tra i ruderi della città in rovina; di tanto in tanto una superficie levigata gettava il bagliore di un raggio di sole fin dove mi trovavo. Mi arrampicai più in alto, non senza rischio, finché dalle forme sospese sopra la mia testa cominciarono a cadere dei calcinacci; cadendo sollevavano parecchia polvere, tra le stradine e i burroni. Il mimoide non è roccia naturale, e la rassomiglianza sparisce quando se ne prende un pezzetto in mano: è una materia molto più leggera e porosa della pomice.

Da quell’altezza percepivo i suoi movimenti: non soltanto avanzava, spinto dalle contrazioni muscolari dell’oceano, ma anche s’inclinava, una volta su un lato, una volta sull’altro, sempre lentamente, un languido dondolio accompagnato dal fruscio della schiuma scura e gialla che scorreva e si riversava lungo il bordo emerso. Questa oscillazione durava in virtù della sua immensa massa: osservai dal mio luogo tutto ciò che potevo, e prudentemente scesi in basso. Allora — cosa strana — mi resi conto che il mimoide non m’interessava affatto, che non ero andato fin là per osservarlo, ma per guardare l’oceano.

Sedetti sulla superficie ruvida e screpolata; dietro di me, a una decina di passi, l’elicottero. Un’onda nera venne a coprire pesantemente la riva, spianandosi e nel contempo scolorando; quando si ritirò, dei fili di mucosa scivolarono via sul bordo della massa. Scesi ancora più in basso e tesi la mano verso la successiva. Si ripeté fedelmente il fenomeno sperimentato dalla gente un secolo prima: l’onda esitò, retrocesse, sommerse la mia mano, senza comunque toccarla, cosicché tra la superficie del guanto e l’interno della cavità, che di colpo cambiò consistenza diventando da liquida quasi solida, rimase come un filo d’aria. Alzai allora lentamente il braccio; l’onda, o meglio la sua esigua propaggine, lo seguì, continuando a coprire la mia mano come un sacco sempre più trasparente, verdastro. Dovetti alzarmi per poter sollevare il braccio più in su; la sostanza gelatinosa si allungò come un cordone teso, ma non si spezzò; la base dell’onda completamente appiattita sulla riva mi avvolgeva i piedi (senza nemmeno toccarli), come un essere in paziente attesa della fine dell’esperimento. Sembrava che dall’oceano fosse nato un fiore, il cui calice mi circondava le dita, diventandone l’esatto negativo. Retrocessi. Il gambo vibrò, vacillò e, come controvoglia, ricadde; l’onda lo riassorbì e sparì dietro il bordo della riva. Ripetei questo gioco finché non accadde, come cento anni prima, che un’onda arrivò e se ne andò indifferente, come sazia di questa nuova impressione, e sapevo che per ridestare la sua «curiosità» avrei dovuto aspettare ore. Sedetti di nuovo; ma, in un certo senso, mutato dal fenomeno che avevo provocato e che già conoscevo, per quanto solo in teoria; la teoria non può mai rendere la reale impressione della cosa reale.

Nello sbocciare, evolversi, allargarsi di questa creatura viva, in ogni singolo atto e nei suoi movimenti complessi si manifestava, come avevo sperimentato, una ingenuità cauta ma non selvatica, quando si abbandonava a cercare rapidamente di conoscere, di capire la forma nuova e inattesa; e quando con rincrescimento doveva ritirarsi, non oltrepassava i limiti imposti da una legge misteriosa. Quale contrasto inesprimibile fra quella curiosità agile e quella massa che raggiungeva tutti i punti dell’orizzonte! Non ne avevo mai sentito così acutamente la presenza immane che, nel suo silenzio potente e assoluto, respirava regolarmente con le onde. Con lo sguardo fisso, immobile, affondavo in un cerchio apparentemente inaccessibile e, nella crescente intensità dell’abbandono di me stesso, m’identificavo con il cieco colosso liquido come se, senza il minimo sforzo, senza parole, senza un pensiero avessi perdonato tutto.

Durante quell’ultima settimana mi ero comportato così assennatamente che il barlume di diffidenza nello sguardo di Snaut era sparito. Esternamente mi mantenevo calmo, nell’intimo non riuscivo a rendermi conto chiaramente se stessi aspettando qualcosa. Che cosa? Il suo ritorno? Come potevo? Ciascuno di noi sa che ogni essere materiale è sottomesso a precise leggi fisiologiche e fisiche, e che nemmeno la forza di tutti i nostri sentimenti può lottare contro queste leggi; possiamo solo odiarle. La secolare fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell’amore più duraturo della morte, la frase che ci perseguita da secoli, finis vitae sed non amoris, è una bugia. Una bugia inutile, e nemmeno divertente.

Dobbiamo dunque rassegnarci a essere un orologio che misura il tempo, alternativamente sgangherato e riparato, il cui meccanismo, appena il costruttore ne mette in moto gli ingranaggi, genera insieme l’amore e la disperazione, e anche a sapere di ripetere solo sofferenze antiche, più profondamente comiche quanto più spesso vengono ripetute? Ripetere l’esistenza umana va bene, ma dobbiamo farlo come un ubriaco ripete una canzone conosciuta mettendo le monete nel jukebox? Non avevo immaginato neppure per un istante che questo colosso liquido, che aveva causato la morte di centinaia di persone, col quale da decine d’anni la mia specie cercava di stabilire rapporti d’intesa, e che mi sorreggeva e mi portava con sé come fossi un granello di cenere, si sarebbe commosso per la tragedia di due persone. Ma la sua azione si indirizzava verso uno scopo. A dire il vero, non ero sicuro di questo. Andarmene, comunque, significava cancellare quella possibilità, forse minuscola, forse immaginaria, che si nascondeva nel futuro. Avrei dovuto allora passare su Solaris degli anni, tra mobili e oggetti che avevamo toccato insieme, nell’aria che ricordava ancora il suo respiro? In nome di che cosa? Nella speranza di un suo ritorno? Non avevo speranze.

Però viveva in me l’attesa, l’ultima cosa che mi fosse rimasta.

Che appagamenti, che beffe, che torture potevo ancora aspettarmi? Chissà, ma persistevo nella fede irremovibile che l’epoca dei miracoli crudeli non fosse ancora finita.

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