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Al suo ingresso nel soggiorno il viso di Norman, in apparenza, era sereno. Tansy sedeva nella sua poltrona, china in avanti, con un’espressione triste negli occhi. Le sue dita giocherellavano distrattamente con un pezzo di spago.

Il marito accese lentamente una sigaretta.

«Vuoi che beviamo quell’aperitivo adesso?» egli chiese senza mostrare né troppo interesse né troppa vivacità.

«No, grazie. Bevi tu se vuoi.» Le sue mani continuavano a fare e disfare i nodi dello spago.

Norman sedette nella poltroncina e prese in mano il suo libro. Da quella posizione la poteva osservare senza che lei se ne accorgesse. Ora che non aveva né buca da scavare né altri lavori manuali da compiere non poteva più respingere i suoi pensieri, perlomeno poteva lasciarli girare in una limitata, isolata sfera all’interno del suo cranio, senza che questi influissero sulla sua espressione, o deviassero il corso di altri pensieri, concentrati sulla protezione di Tansy.

“La stregoneria esiste” proclamavano i pensieri costretti in quella cerchia. “Qualcosa è stato spinto giù da un tetto per mezzo di un incantesimo. Le donne sono streghe, e lottano per far trionfare i loro mariti. Tansy era una strega. Ti proteggeva. Ma tu l’hai obbligata a smettere.

“In questo caso” rispondeva subito l’altra parte della sua mente “perché Tansy non si accorge di ciò che sta accadendo? Non si può negare che si comporti come una persona sollevata e felice.

“Sei sicuro che non se ne sia accorta o stia per accorgersene?” ripresero i pensieri trattenuti nella cerchia. “Inoltre, perdendo gli strumenti della sua magia, ha probabilmente perso la sua sensibilità alla magia. Uno scienziato, per esempio, senza i suoi strumenti, il microscopio e il telescopio, al pari di un qualsiasi selvaggio non potrebbe vedere né i germi del tifo né le lune di Marte. Il suo naturale corredo sensorio potrebbe essere perfino inferiore a quello di un selvaggio”.

I pensieri imprigionati si agitarono violentemente, come le api che cercano impazzite un’uscita dall’alveare chiuso.

«Norman» disse Tansy improvvisamente senza guardarlo. «Hai trovato e bruciato quel talismano chiuso nel medaglione dell’orologio?»

Ci pensò un attimo. «Sì, l’ho bruciato» disse senza dar peso alle sue parole.

«Mi ero dimenticata di quello, ne avevo sparsi tanti in giro.»

Norman voltò una pagina, poi un’altra. Il tuono vibrò con violenza e la pioggia cominciò a tamburellare sul tetto. «Norman? Hai anche bruciato il diario, non è vero? Hai fatto bene, naturalmente. L’avevo tenuto perché non conteneva fatture già attuate, solo le formule, e così, molto illogicamente, pretendevo con me stessa che non contasse. Ma tu l’hai bruciato, vero?»

Era difficile poter rispondere. Gli pareva di giocare agli oggetti nascosti: “caldo, caldo — freddo, freddo” e che Tansy stesse per diventare pericolosamente “calda”. I pensieri chiusi nella sfera ronzavano trionfanti: vedi, ora la signora Gunnison possiede il diario; conosce tutti gli scongiuri protettivi di Tansy.

Ma riuscì a mentire. «Sì; l’ho bruciato. Mi dispiace; ma pensavo che…»

«È giusto» disse Tansy. «Hai fatto bene.» Le sue dita giocavano sempre più nervosamente con lo spago, ma senza guardarlo.

I lampi illuminavano tratti di strada e di alberi, attraverso la finestra. Il tamburellare dell’acqua sul tetto divenne una gragnuola di colpi. Ma attraverso quel rumore assordante gli pareva di udire il graffio delle zampe sul cemento del vialetto. Era ridicolo: la pioggia e il vento facevano troppo baccano.

I suoi occhi furono attratti dalla combinazione dei nodi che le dita impazienti di Tansy tessevano con lo spago. Era un insieme complicato di nodi strettissimi in apparenza che però si scioglievano d’un colpo tirando lo spago. Ricordò che Tansy aveva studiato assiduamente il gioco con un laccio degli indiani. Ricordò ugualmente che i popoli primitivi usavano i nodi per legare o sciogliere i venti, per legare a sé la persona amata, prendere al laccio nemici lontani, frenare o liberare ogni tipo di potere fisico o psichico. E che le Parche intrecciavano i fili dei destini umani. Gli parve elegante la disposizione dei nodi e il movimento ritmico che li produceva. Parevano significare sicurezza, fino al momento in cui si scioglievano di colpo.

«Norman…» la voce di Tansy era concitata e tesa. «Che cos’era quella fotografia che hai chiesto a Hulda Gunnison di mostrarti, ieri sera?»

Norman si sentì prendere dal panico. Tansy diventava “calda”; era arrivata a quel punto del gioco in cui si grida: “scotta!”.

Udì allora il pesante e inarrestabile pluf-pluf sulle assi del portico d’ingresso, che pareva muoversi lungo il muro in cerca di qualcosa. I pensieri costretti nella sua mente cominciavano a esercitare una irresistibile pressione centrifuga sul suo cranio. Sentì che la sua ragione era soffocata da una doppia aggressione, esterna e interna. Con molta lentezza fece cadere la cenere della sigaretta nel piattino.

«Era una fotografia del tetto di Estrey» disse casualmente. «Gunnison mi aveva detto che sua moglie aveva scattato un gran numero di fotografie di quel genere. Volevo vederne una.»

«E su quella figurava una creatura di un certo genere, non è vero?»

Lo spago si annodava e si snodava con incredibile rapidità. Gli sembrò improvvisamente che qualcosa di più di uno spago fosse manipolato e che legasse tutt’altra cosa che l’aria vuota. Era come se i nodi creassero una specie di influsso, al pari della corrente elettrica che in un filo ritorto crea un complesso campo magnetico.

«No» disse, e si sforzò di ridacchiare «salvo tener conto di uno o due draghi di cemento». Osservava lo spago nel suo ondeggiare. A momenti pareva che luccicasse, come se fosse stato intrecciato con un filo metallico. Se una corda comune, con dei nodi, usata a scopi di magia poteva comandare ai venti, una corda con dentro un filo metallico che cos’avrebbe comandato? I fulmini?

Il tuono brontolò e scoppiò, assordante. Il fulmine doveva essere caduto nelle vicinanze. Tansy non mosse ciglio. «Quello era il nonno dei fulmini» cominciò a dire Norman e poi, mentre il tuono si perdeva in lontani brontolii, la pioggia cessò per un secondo di cadere ed egli udì qualcosa che saltava pesantemente sotto il portico della facciata in direzione della finestra bassa situata alle sue spalle.

Si alzò e riuscì a fare un paio di passi verso la finestra, come se volesse guardare l’uragano. Passando vicino alla sedia di Tansy, vide che le sue dita sempre in moto stavano intrecciando un nodo strano che somigliava a un fiore, con intorno sette anelli che parevano sette petali. Tansy guardava fisso dinnanzi a sé, come una sonnambula. Norman si piazzò fra lei e la finestra, istintivamente, per proteggerla.

Il lampo succesivo gli mostrò ciò che già sapeva di dover trovare. Era accucciato di fronte alla finestra. La testa era sempre grezza e liscia, come un cranio appena abbozzato. Nel successivo attimo di oscurità la cerchia dei pensieri venuti da altrove si espanse con istantanea irruenza e occupò tutta la sua mente.

Si guardò alle spalle. Le mani di Tansy erano ferme, con in mezzo lo strano fiore dai sette petali.

Proprio mentre stava per voltarsi, vide le mani allargarsi d’un balzo, gli anelli di spago frustrarono l’aria come una trappola a sette lacci, poi s’irrigidirono. E nello stesso momento in cui si voltava vide la strada chiara come a giorno fatto, e un grande nastro di luce che spaccò l’olmo dirimpetto e si ramificò in molte braccia luminose che leccarono il selciato, lo attraversarono per raggiungere la sua finestra per finire sulla figura di pietra ritta contro di essa.

Poi… una luce accecante e una scossa, un’onda elettrica che gli attraversò il corpo.

Ma sulla sua retina era ancora impressa l’immagine del fulmine, i molteplici rami del quale, precipitandosi verso la figura di pietra, si erano concentrati su di essa come trascinati da una frusta a sette capi.

La cerchia dei pensieri ormai dilatatasi a velocità pazzesca fuori del suo cranio svanì.

Un riso incontrollabile, convulso si elevò al disopra dell’eco morente del terrificante scoppio di tuono.

Aprì la finestra con uno strattone, afferrò una lampada portatile, ne strappò il paralume affinché tutta la luce illuminasse la veranda.

«Guarda, Tansy» chiamò: le sue parole si mescolavano al riso nervoso. «Guarda che cosa mi hanno combinato quei pazzi dei miei studenti. Scommetto che sono quelli dell’associazione universitaria che ho preso in giro stamane. Guarda che cos’hanno staccato dall’edificio del collegio e portato davanti al nostro ingresso! Accidenti a quei pazzi, domani dovrò chiamare l’ufficio manutenzione fabbricati affinché lo portino via.»

La pioggia gli schizzava in faccia. Vi era nell’aria un odore metallico e solforoso. La mano di Tansy toccò la spalla di Norman. I suoi occhi guardavano nel vuoto, come insonnoliti.

L’oggetto era lì, appoggiato al muro, solido e inerte come solo le cose inorganiche riescono a esserlo. In alcuni punti il cemento era diventato scuro e fuso.

«E, per di più, il fulmine ha colpito proprio lui» disse.

Istintivamente stese una mano e lo toccò. Al contatto di quella superficie ruvida, ostile, ancora bollente dopo il fulmine, il suo riso cessò.

Eppur si muove, mormorò fra sé, così piano che nemmeno Tansy che gli stava accanto lo poté sentire. «Eppur si muove…»

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