18

Entrando nello studio del professor Carr, si aveva l’impressione di trovarsi davanti a un tentativo di ridurre il mondo materiale e sensibile alla purezza virginale della geometria. Le anguste pareti erano ornate di tre stampe incorniciate che rappresentavano le sezioni coniche. In cima alla libreria, piena di libri di matematica rilegati in pelle con titoli in oro, vi erano due modelli di superfici curve, fatte di argentone e filo metallico. L’ombrello con le pieghe non schiacciate, in un angolo, avrebbe potuto simulare un modello geometrico e la superficie della piccola scrivania che separava Norman dal professor Carr era anch’essa nuda, tranne alcuni fogli di carta coperti di simboli. Le dita pallide, sottili di Carr riposavano su uno di questi fogli.

«Sì» gli disse «queste sono equazioni possibili di logica simbolica.»

Norman ne era quasi sicuro, ma fu felice di sentirselo confermare da un matematico. L’affrettato riferimento che Norman aveva fatto al Principia Matematica non aveva pienamente soddisfatto il professor Carr.

«Le maiuscole rappresentano le classi di entità, le minuscole sono i rapporti» disse Norman per aiutarlo.

«Ah, sì» Carr fregò il mento scuro sotto la barbetta a punta. «Ma di che tipo di entità e di rapporti si tratta?»

«Lei può risolvere l’equazione anche se ignora il significato dei simboli, non è vero?» ribatté Norman.

«Certamente. E i risultati delle operazioni saranno altrettanto validi sia che si tratti di mele, di incrociatori, di temi poetici o di segni dello zodiaco. Sempreché, naturalmente, i riferimenti originali fra entità e simboli siano stati assunti correttamente.»

«Ed ecco il mio problema» disse Norman rapidamente. Vi sono diciassette equazioni sul primo foglio. A prima vista sembrano molto diverse, fra loro. Ora mi chiedo se, da queste diciassette equazioni, non traspare una semplice, fondamentale equazione, mescolata a un mucchio di termini non essenziali. Ognuno degli altri fogli presenta un analogo problema.»

«Hm…» Il professor Carr cominciò a scarabocchiare con una matita, e il suo sguardo stava per tornare sul foglio, ma si trattenne.

«Devo confessare che sono molto curioso di sapere a quali entità si riferiscono questi problemi» aggiunse ingenuamente. «Non sapevo che fossero stati fatti dei tentativi di applicare la logica simbolica alla sociologia.»

Norman aveva previsto questa osservazione. «Sarò sincero, Linthicum» gli disse. «Mi è venuta una vaga idea di una certa teoria poco ortodossa e mi sono ripromesso di non parlarne finché non sarò sicuro che essa sia effettivamente valida.»

Il viso di Carr si illuminò di un largo sorriso di comprensione. «Posso capire i tuoi sentimenti» gli disse. «Ricordo ancora le tristi conseguenze di un mio affrettato annuncio, un tempo in cui avevo creduto di aver trovato la soluzione della trisezione dell’angolo. Naturalmente» aggiunse subito «ero ancora al ginnasio a quei tempi. Comunque ho fatto passare un brutto quarto d’ora al mio professore» disse con una sfumatura di soddisfazione.

Quando riprese a parlare gli era tornata la giovanile, timida curiosità. «Tuttavia… questi simboli mi stuzzicano molto. Così come sono potrebbero riferirsi… Be’, a qualsiasi cosa.»

«Mi spiace» disse Norman. «Lo so che le chiedo troppo…»

«Niente affatto, niente affatto.» Gingillandosi con la matita diede un’altra occhiata al foglio. Qualcosa lo colpì. «Ma, questo è molto intessante, non lo avevo notato prima» disse. E la sua matita cominciò a volare sulla carta, cancellando alcune cifre, formulando nuove equazioni. Il solco verticale fra le sue sopracciglia si fece più profondo. In un momento fu totalmente assorbito dal problema.

Con un senso di sollievo Norman si adagiò nella poltrona. Si sentiva esausto, gli occhi gli bruciavano. Quei cinque fogli rappresentavano venti ore di lavoro ininterrotto: martedì notte, mercoledì mattina e parte di mercoledì pomeriggio. Anche in questa occasione non aveva potuto fare a meno dell’aiuto di Tansy alla quale dettava appunti. Si era accorto di poter contare sulla sua automatica, inconscia precisione di robot.

Seguiva ora, semi ipnotizzato, quelle dita agili, anche se vecchie, che riempivano un foglio nuovo di equazioni derivate. I loro rapidi ma ordinati movimenti rendevano più intensa la serena, monastica quiete del piccolo studio.

Una stranezza appresso l’altra, pensava Norman come in un sogno. Non soltanto doveva far finta di credere alla magia nera, per sopraffare tre vecchie superstiziose e psicopatiche che si erano impadronite della mente di sua moglie, ma doveva anche rivolgersi alla scienza moderna della logica simbolica per servire quella pretesa fede. La logica simbolica usata per districare le contraddizioni e l’ambiguità delle formule magiche… Cos’avrebbe detto il vecchio Carr se avesse saputo a quali “entità” si riferivano i simboli?

Soltanto perché aveva invocato il prestigio dell’alta matematica, Norman era stato in grado di convincere Tansy che lui poteva escogitare una magia abbastanza forte da sconfiggere quella usata dalle sue nemiche. Mossa d’altronde conforme alle migliori tradizioni della stregoneria, a pensarci bene. Gli stregoni cercano sempre di incorporare le ultime scoperte nei loro sistemi, per guadagnare prestigio. Che cos’era in fondo la stregoneria se non una lotta per il prestigio nell’ambito del misticismo, e che cos’era uno stregone se non un individuo che si era illecitamente innalzato al di sopra dei suoi simili?

Che immagine grottesca era quella (ogni cosa cominciava a diventare istericamente ridicola nella sua mente stanca): una donna che credeva parzialmente alla magia, spinta sull’orlo della pazzia da tre donne che probabilmente vi credevano in pieno, o forse non ci credevano affatto, e i loro piani venivano ostacolati da un marito che non credeva a nulla ma che faceva finta di credere fino in fondo, ed era deciso ad agire in ogni cosa conformemente a questa credenza.

Oppure, pensò Norman (il suo sogno ad occhi aperti tendeva a farlo scivolare nel sonno, e la delicata, matematica semplicità dell’ambiente spingeva la sua mente verso visioni di spazio assoluto nel quale contemplava, davanti a sé, l’infinito) perché non abbandonare questo ragionamento artificiale ed ammettere che Tansy possedeva una cosa chiamata anima, e che questa cosa le era stata rubata dalla strega magra Evelyn Sawtelle, indi rubata ad Evelyn dalla strega grassa, Hulda Gunnison, e che in quello stesso momento egli cercava con quale magia avrebbe potuto…

Si scosse il sonno di dosso e tornò nel mondo raziocinante.

Carr aveva spinto davanti a sé un foglio di carta e aveva subito cominciato a lavorare su un altro dei cinque fogli che Norman gli aveva dato.

«Lei ha già trovato la prima equazione fondamentale?» gli chiese Norman incredulo.

Carr parve seccato per l’interruzione. «Certo, naturalmente.» La sua matita correva di nuovo, poi si fermò e guardò Norman. «Sì, è l’ultima equazione, quella più breve, in basso. A dire il vero non ero certo di trovarne una quando ho cominciato, ma le tue entità e i tuoi rapporti sembrano possedere un significato, qualunque esso sia.» E tornò con la matita al suo lavoro.

Norman rabbrividì e guardò allibito l’equazione risultante, chiedendosi quale fosse il suo significato. Per poterlo dire doveva consultare i riferimenti del suo codice e certamente non voleva esibire quel codice in quel luogo.

«Mi spiace darle tutto quel lavoro» disse malinconicamente. Carr riuscì a guardarlo un attimo. «Niente affatto, mi diverte. In verità ho sempre avuto il pallino per questo tipo di problema.»

Le ombre del pomeriggio si allungavano. Norman accese la luce di mezzo e Carr lo ringraziò con un rapido cenno del capo. La matita volava. Tre altri fogli erano stati spinti verso Norman, e Carr terminava l’ultimo quando la porta si aprì.

«Linthicum» fece la voce, senza neppure una traccia di rimprovero. «Cosa fai? È mezz’ora che ti aspetto di sotto.»

«Mi spiace, cara» disse il vecchio, guardando prima l’orologio poi la moglie «ma ero così impegnato…»

Lei vide Norman. «Ah, non sapevo che tu avessi una visita. Cosa penserà di me il professor Saylor. Temo di avergli dato l’impressione che io ti tiranneggi.»

Accompagnò queste parole con un così strano sorriso, che Norman si trovò a dire, nello stesso attimo del professor Carr: «Ma niente affatto.»

«Il professor Saylor mi sembra stanco morto» disse lei guadando Norman ansiosamente. «Spero che tu non lo abbia affaticato, Linthicum.»

«Oh, no, cara. Sono io che ho fatto tutto il suo lavoro» disse il marito.

Flora fece il giro del tavolo e guardò oltre la spalla del marito.

«Che cos’è?» chiese con gentilezza.

«Non lo so» disse Carr. Si raddrizzò e strizzò l’occhio a Norman. Poi proseguì: «Credo che dietro questi simboli, il professor Saylor stia rivoluzionando la scienza della sociologia. Ma è un segreto assoluto. E in ogni caso non ho la minima idea del significato di questi simboli. Io gli faccio solo da cervello elettronico.»

Con un cenno educato, come per dire: «Mi permette?» La signora Carr prese uno dei fogli e lo studiò attraverso le sue spesse lenti. Ma apparentemente la vista di quella serie di simboli la sconcertò e ripose il foglio.

«La matematica non è il mio forte» spiegò. «Sono sempre stata mediocre in scienze.»

«Sciocchezze, Flora» disse Carr. «Quando andiamo insieme a fare acquisti tu sei sempre stata più svelta di me a calcolare mentalmente i prezzi. Eppure ce la metto tutta per batterti.»

«Questo non conta» disse la signora Carr deliziata.

«Un momento e ho finito» disse il marito tornando ai suoi calcoli.

La signora Carr si rivolse a Norman, di là dal tavolo, parlando sottovoce. «Professor Saylor, sia così gentile di fare a Tansy questa mia ambasciata. Vorrei invitarla per il bridge domani sera, cioè giovedì, con Hulda Gunnison e Evelyn Sawtelle. Linthicum ha una riunione.»

«Con piacere» disse Norman con entusiasmo «ma temo che non possa farcela». E spiegò la faccenda dell’intossicazione.

«Ma è terribile, proprio terribile!» osservò la signora Carr. «Non vuole che venga ad assisterla?»

«Grazie» mentì Norman «abbiamo fatto venire qualcuno.»

«Molto, molto saggio» disse la signora Carr e guardò attentamente Norman, come per scoprire in lui la fonte di tanta saggezza. Il suo sguardo fisso lo mise a disagio. Era nello stesso tempo ingenuo e predatorio. Non lo avrebbe sorpreso, uno sguardo simile, in una delle sue alunne, ma in quella vecchia signora…

Carr depose la penna. «Ecco» disse «ho finito.»

Ringraziandolo ancora Norman raccolse i suoi fogli.

«Non è affatto un disturbo» lo assicurò Carr «mi hai procurato un pomeriggio molto, molto interessante. Devo confessare che hai provocato la mia curiosità.»

«Linthicum va pazzo per qualsiasi gioco matematico, specialmente quando si presenta come un rebus» disse la signora Carr. «Lo sa che una volta ha perfino compilato tutta una serie di tabelle sulle corse dei cavalli

«Ah… sì, è vero. Ma era solo per dare un esempio concreto del calcolo delle probabilità» corresse Carr, pronto. Ma il suo sorriso era ugualmente indulgente.

Lei aveva messo la mano sulla spalla del marito, e questi la coprì con la sua. Fragili e vivaci, invecchiati ma ancora freschi, quei due offrivano l’esempio perfetto della coppia che invecchia bene.

«Le prometto» Norman gli disse «che se un giorno sconvolgerò la scienza della sociologia, lei sarà il primo a saperlo. Buona sera» e uscì con un leggero inchino.

Appena giunto a casa tirò fuori il suo codice. “W” era la lettera che contrassegnava il primo foglio. Ne ricordava il significato ma preferì assicurarsene.

W — sortilegio per fare uscire l’anima dal corpo.

Sì, era proprio quello. Si mise a studiare il foglio aggiunto da Carr, con lo svolgimento dei calcoli, e decifrò accuratamente l’equazione finale: C — nastro di rame con intaccature. Annuì. T — attorcigliare da Est a Ovest. Aveva pensato che questo elemento si sarebbe annullato. Per fortuna si era rivolto a un matematico per semplificare le diciassette equazioni, ognuna delle quali rappresentava la formula del sortilegio usato da gente di varie razze per fare uscire l’anima dal corpo: arabi, zulù, polinesiani, americani, indo-americani, negro-americani, ecc. C’erano tutte: le formule più recenti e quelle in uso da molto tempo.

A — Òvolo velenoso. Capperi! Avrebbe scommesso che questo termine si sarebbe annullato. Ci voleva del tempo per scovare il fungo micidiale. Ma forse si poteva fare a meno di quella formula se fosse stato necessario. Prese due altri fogli.

V — sortilegio per dominare l’anima di un’altra persona.

Z sortilegio per immergere nel sonno gli abitanti di una casa.

Si mise a decifrare uno di essi. In pochi minuti si era assicurato che il reperimento degli ingredienti non offriva particolari difficoltà salvo che la formula del foglio “Z” richiedeva una mano mozza e della terra di cimitero da lanciare sul tetto della casa dove si voleva imporre il sonno. Ma non doveva essere difficile rubare una mano di morto dal laboratorio d’anatomia, e quindi se…

Conscio di un’improvvisa stanchezza e di una repulsione per quelle formule che persistevano ad apparire più ignobili che ridicole, si spinse indietro con la sedia. Per la prima volta da quando era tornato in casa, guardò la figura vicino alla finestra. Sedeva sulla sedia a dondolo, col viso voltato verso le tende abbassate. Quand’era stato che aveva cominciato a dondolarsi? Norman non lo ricordava, ma una volta dato il via, i muscoli del suo corpo proseguivano automaticamente nello slancio ritmico.

Con la fulmineità di uno scoppio, gli venne un desiderio struggente di Tansy, delle sue intonazioni, dei suoi gesti, delle sue moine, delle sue trovate bislacche, di tutte quelle piccole cose che contribuiscono a rendere reale, umana e adorabile una donna. Quelle cose lui le voleva subito, all’istante, e la presenza di quell’imitazione di morta-viva, quella spoglia di Tansy, gli rendeva questo desiderio ancora più crudele. Ma che razza d’uomo egli era mai per gingillarsi con formule di occultismo mentre in quel momento…

“Ci sono cose che si possono fare a un’anima”, aveva detto Tansy. E anche: “Le domestiche dei Gunnison hanno raccontato certe cose…”. Doveva recarsi subito dai Gunnison, bloccare Hulda e obbligarla ad agire.

Si sforzò di calmare la sua ira. Un gesto del genere avrebbe rovinato ogni cosa. Come si fa ad usare apertamente la forza con qualcuno che trattiene in sé, quale ostaggio, la mente, la coscienza stessa della persona amata? No, aveva già valutato questa eventualità e la sua linea di condotta era già decisa, avrebbe combattuto contro quelle donne usando le loro stesse armi. Le formule segrete che tanto gli ripugnavano erano la sua speranza migliore. Era stato castigato per aver commesso il solito errore di guardare quel volto. Deliberatamente sedette dall’altra parte del tavolo, voltando le spalle alla sedia a dondolo.

Ma si sentiva irrequieto, i muscoli gli dolevano per la stanchezza e doveva smettere per un po’ di lavorare.

A un tratto le chiese: «Cos’è secondo te che ha mutato tutti i rapporti in un odio così implacabile e micidiale?»

«L’equilibrio è stato spezzato» rispose.

«Com’è successo?» Istintivamente stava per voltarsi ma si trattenne.

«È accaduto quanto io ho smesso di praticare la magia.» Quel dondolio era di una esasperante monotonia.

«Ma perché questo fatto ha dato luogo a tanto odio?»

«Perché ha spezzato l’equilibrio.»

«Va bene, ma come si può spiegare la repentinità del mutamento, il passare brusco da mosse aggressive piuttosto blande a una malvagità omicida?»

Il dondolio era cessato. Non vi fu alcuna risposta. Ma, come si disse Norman, sapeva già la risposta che quella mente informe dietro di lui stava preparando. Questo conflitto fra streghe, lui lo paragonava alla guerra di trincea, a una battaglia fra due linee fortificate, o a uno stato d’assedio. Nello stesso modo in cui il cemento o le armature di metallo sminuiscono l’azione dei proiettili, così i contro-amuleti, gli anti-sortilegi e i processi protettivi rendevano relativamente futili i più violenti attacchi. Ma una volta spariti, il cemento e le armature, e che la strega avesse rinnegato la stregoneria, essa si trovava in una specie di terra di nessuno e…

Anche il timore di violenti contrattacchi lanciati da posizioni così altamente fortificate, scoraggiava ogni aggressione diretta. L’unica cosa da fare in quelle circostanze era di acquattarsi nell’ombra, attendere senza muoversi, sparare da una posizione coperta ed attaccare il nemico soltanto se esso si fosse imprudentemente scoperto. Inoltre vi doveva essere tutto un freno alla violenza.

Questa idea spiegava forse perché l’atteggiamento di Tansy, con la sua apparenza pacifica, aveva rotto l’equilibrio. Come avrebbe reagito una nazione se nel bel mezzo di una guerra il suo nemico avesse disarmato tutte le sue navi da guerra, demolito gli aerei, mettendosi apparentemente alla sua mercé? Ragionando realisticamente, la risposta poteva essere una sola, cioè che il nemico avesse escogitato un’arma molto più potente delle navi da guerra e degli aerei, e che avrebbe presto proposto un armistizio, il quale si sarebbe poi rivelato un tranello. Quindi l’unica mossa da fare era di colpire immediatamente e fortissimo, prima che l’arma segreta si fosse potuta adoperare.

«Io credo che…» cominciò a dire.

In quel momento, forse un leggero sibilo nell’aria o uno scricchiolio del pavimento sotto la pesante moquette, o una sensazione meno tangibile, lo costrinse a voltarsi.

Con un balzo fulmineo da una parte riuscì, ma riuscì appena, a spostare il capo fuori della traiettoria di ciò che in quel momento gli parve un oggetto metallico. Con un atroce sibilo esso si piantò sullo schienale della poltrona, e la forza del colpo si attuti. Ma la sua spalla che aveva ricevuto il colpo già attutito s’intorpidì immediatamente.

Aggrappandosi al tavolo con il braccio sano si gettò contro il tavolo e ne fece il giro.

Quel che vide lo fece indietreggiare come se avesse ricevuto un altro colpo: cercò appoggio dietro di sé con la mano per non cadere.

Quell’essere inumano era in piedi nel centro della stanza dov’era tornata d’un balzo indietro, come quello d’un gatto, dopo aver fallito il primo colpo. Le gambe erano quasi rigide ma il peso del corpo era portato in avanti. Era senza scarpe, le pantofole che avrebbero fatto rumore erano rimaste accanto alla sedia a dondolo. Brandiva le molle di ferro che aveva preso senza farsi sentire dal loro supporto vicino al camino.

Nel viso c’era ora una certa vitalità. Ma era una vitalità che le faceva stringere la mascella e sbavare, una vitalità che le dilatava le narici ad ogni respiro, che allontanava la ciocca di capelli sugli occhi con gesti rapidi, febbrili, una vitalità che infuocava il suo sguardo.

Con un riso diabolico la figura alzò l’attizzatoio e non colpì Norman, bensì il lampadario che pendeva sul suo capo. L’oscurità invase la stanza che egli aveva chiuso accuratamente con le tende per evitare che si potesse curiosare dall’esterno.

Udì una serie di passi affrettati e smorzati. Si accucciò, ma un sibilo gli passò molto vicino. Udì un rumore come se essa fosse caduta in avanti o fosse rotolata sul tavolo dopo che lui aveva parato il colpo. Si udivano le carte che scivolavano e il loro leggero fruscio quando cadevano in terra. Poi tutto fu silenzio salvo quell’ansare rapido, il respiro di una bestia.

Si accucciò sul tappeto e cercò di non muovere un muscolo, tendendo l’orecchio per localizzare la direzione di quel respiro.

È atroce, pensò, l’inefficacia dell’udito umano per localizzare un suono. Sulle prime gli parve che quell’ansare venisse da una direzione poi da un’altra, sebbene non vi fosse il minimo fruscio di movimenti. Finì poi col perdere il senso dell’orientamento all’interno della stanza. Cercò di ricordare esattamente i suoi movimenti da quando si era allontanato dal tavolo con un balzo. Quando era caduto in terra era rotolato su se stesso. Ma fin dove?

Per evitare che si potesse spiare in casa aveva oscurato il soggiorno e la stanza da letto. Il buio era totale. Nemmeno un filo di luce filtrava dall’esterno. E lui si trovava in un punto ignoto di una illimitata espansione di moquette, un infinito senza muri e dal soffitto basso.

E in un certo punto di questo infinito vi era quella creatura. Forse vedeva e udiva meglio di lui? Forse nella sua retina si imprimevano delle forme che per i sensi di una Tansy dall’animo sano sarebbero state solamente oscurità? Cosa s’aspettava? Tese l’orecchio ma il respiro affannoso non si sentiva più.

Quell’oscurità poteva essere la stessa di una giungla, con un tetto di liane fittamente intrecciate. Civiltà è sinonimo di luce. Quando la luce scompare, la civiltà viene soffocata. Norman fu presto ridotto allo stesso livello di quell’essere. Era forse questo che lei aveva sperato quando aveva mandato il lampadario in frantumi. Quella stanza poteva raffigurare ora la camera più interna di una caverna preistorica, e lui era ora uno di quegli uomini primitivi, dal cervello annebbiato, che fuggiva, pieno di terrore, dall’ira della sua compagna nell’adorata forma della quale una strega aveva introdotto un demonio, la robusta strega grassa dalle labbra cadenti e dagli occhi crudeli, dagli ornamenti di rame intrecciati nella chioma rossa ingarbugliata. Che cosa doveva fare, prendere l’ascia e tentare di cacciare il demonio dal cranio che l’ospitava? O cercare la strega e soffocarla finché facesse uscire il demonio? E come avrebbe potuto, nel frattempo, nascondere la moglie? Se la tribù l’avesse scoperta, l’avrebbe uccisa immediatamente, era la legge. Anche in quel momento il demonio era in lei e cercava di uccidere lui, Norman.

Con la mente confusa e tenebrosa come quella di un ipotetico primitivo antenato, Norman cercò di risolvere il problema, e a un tratto capì che cosa attendeva da lui quell’essere inumano.

Già sentiva che i suoi muscoli si intorpidivano mentre la spalla lanciava fitte dolorose man mano che tornava la sensibilità. Avrebbe fatto, presto o tardi, un movimento involontario. E a quel momento l’essere armato di attizzatoio gli sarebbe venuto addosso.

Allungò la mano con molta prudenza. Lentamente, molto lentamente, descrisse un cerchio finché trovò a tastoni un tavolino sul quale era posato un libro. Lo afferrò fra il pollice e le altre dita nel punto ove sporgeva dal tavolo, lo alzò e lo avvicinò a sé. I suoi muscoli tremavano per lo sforzo di mantenere un silenzio assoluto.

Con un gesto lento egli lanciò il libro verso il centro della stanza affinché colpisse il pavimento ad alcuni passi da lui. Quel suono ottenne immediatamente la risposta scontata. Attese mezzo secondo e si lanciò in avanti, tentando di immobilizzarla al tappeto. Ma la furbizia di quell’essere superava le previsioni di Norman. Le sue braccia si richiusero su un grosso cuscino che era stato scagliato verso il libro e fu solo per fortuna che si salvò dai colpi d’attizzatoio che gli piovevano intorno al capo.

Protese le mani ed afferrò alla cieca la sbarra di metallo. Ci fu un movimento di tira e molla per divincolarsi dalla sua presa. Poi Norman cadde all’indietro con l’attizzatoio in mano, mentre i passi si allontanavano verso la parte posteriore della casa.

Egli la seguì in cucina. Un cassetto tirato con troppa energia cadde in terra ed egli udì il rumore agghiacciante di posate e di coltelli mossi.

Ma in cucina la luce era sufficiente a indicare la sagoma di lei. Balzò sulla mano alzata che brandiva il lungo coltello, la strinse al polso. Lei si buttò su di lui e caddero insieme sul pavimento.

Egli sentì contro di sé il calore del suo corpo, animato da furore omicida sino al limite estremo della sua forza. Per un attimo sentì il freddo della lama sulla sua guancia e allontanò con forza l’arma da sé. Piegò le gambe verso lo stomaco per difendersi dai colpi delle sue ginocchia. Lei allora si avventò su di lui convulsamente, e le sue mascelle gli si strinsero sul braccio che teneva lontano il coltello. I denti cercavano con un movimento a sega di penetrare nella stoffa della giacca. Il tessuto si strappò ed egli cercò con la mano libera di allontanare da sé quel corpo. Poi trovò i capelli, le tirò indietro la testa e lei abbandonò il morso. Il coltello cadde a terra e lei si mise a graffiargli il viso. Norman afferrò le dita che cercavano gli occhi, le narici. L’essere innominabile urlò e gli sputò sul viso. Con pressione costante egli piegò le sue braccia fin dietro la schiena di lei, e con sforzo supremo si mise in ginocchio. Urli soffocati, rabbiosi, uscivano da quella gola.

Fin troppo conscio dello sfinimento e del tremore che stava per sopraffare i suoi muscoli, cambiò presa, in modo da tenere con una mano sola, i polsi di lei. Con l’altra cercò a tastoni la porta dell’armadietto, aprì con un movimento brusco e trovò un cordone.

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