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Tansy era raggiante, più carina di quanto lo fosse stata da diversi mesi a questa parte. Due volte, mentre cenavano, Norman l’aveva sorpresa mentre sorrideva a se stessa.

Le diede il biglietto della signora Gunnison. «Anche la signora Carr mi ha chiesto di te. Mi è caduta addosso, molto elegantemente, naturalmente. Poi più tardi…» Stava per raccontarle l’incidente della sigaretta e della signora Carr che aveva fatto finta di non vederlo, nonché la storia di Margaret Van Nice; ma era inutile darle ora delle preoccupazioni, riferendole incidenti che potevano addebitarsi alla sfortuna. Senza contare ciò che lei avrebbe potuto costruirci sopra.

Tansy diede un’occhiata al biglietto e lo porse a Norman dicendo:

«Ha proprio tutto il sapore di Hempnell, non ti pare?»

Egli lesse:


“Cara Tansy, dove ti nascondi? Ti ho vista solo una o due volte al campus in tutto il mese. Se sei impegnata in qualcosa di interessante perché non lo dici anche a noi? Perché non vieni a prendere il tè questo sabato, e mi racconti tutto?

Hulda

P.S. Ricordati che devi portare quattro dozzine di pasticcini al ricevimento delle mogli dei professori, sabato l’altro.”


«Mi sembra un po’ confuso» disse Norman «ma avverto chiaramente l’aggressività della signora Gunnison. Mi sembrava particolarmente sciatta, oggi.»

Tansy rise. «Siamo stati davvero poco socievoli in queste ultime settimane. Penso di invitarli per un bridge domani sera. Capisco che il preavviso è breve, ma in genere sono sempre liberi al mercoledì. E anche i Sawtelle.»

«Dobbiamo proprio invitare anche loro? Quella rompiscatole…»

Tansy rise. «Non so come te la caveresti senza di me…» Si fermò di botto. «Temo tu debba proprio sorbirti Evelyn. Dopo tutto, tu e Hervey siete gli unici professori di sociologia, ed è logico che vi incontriate anche fuori scuola. Per fare due tavoli interi inviterò anche i Carr.»

«Tre donne spaventose» disse Norman. «Se queste rappresentano il tipo medio della moglie del professore, mi ritengo fortunato di aver scovato una donna come te.»

«Talvolta penso la stessa cosa dei mariti… delle mogli dei professori» disse Tansy.

Mentre bevevano il caffè fumando una sigaretta, Tansy gli disse un po’ esitante: «Norm, ti ho detto che non volevo parlare della faccenda di ieri. Ora però c’è qualcosa che ti voglio dire.»

Egli annuì.

«Ieri non te l’avevo detto, Norm, ma quando abbiamo bruciato quelle… cose io ho provato una tremenda paura. Mi è sembrato che noi buttavamo giù dei muri che mi erano costati anni di fatica a innalzare e che non vi era più nulla per tenere a bada i…»

Egli non disse nulla, rimase seduto, immobile.

«E difficile da spiegare; ma, fin dal giorno in cui ho cominciato a… giocare con quelle cose, ho avvertito una pressione dall’esterno, un impreciso timore nervoso, simile a ciò che provi tu quando senti passare un grosso camion. Sentivo che le cose cercavano di farsi strada per spingersi sino a noi. E io dovevo respingerle, combattere con il mio… È come una prova di forza, il braccio di ferro che gli uomini fanno talvolta. Ma non era questo che intendevo dire…

“Sono andata a letto ieri sera infelice e terrorizzata. La pressione esterna era sempre presente e continuava ad agire su di me, a stringermi e io non avevo alcun modo di difendermi perché avevo bruciato tutto. Poi, improvvisamente, mentre ero sdraiata nell’oscurità, circa un’ora dopo essere andata a letto, ho provato il più meraviglioso senso di sollievo. La pressioni esteriori erano scomparse, e io tornavo a galla dopo essermi quasi annegata. In quel momento ho saputo che… che avevo superato quella mia follia. È per questo che sono così felice.»

Norman faticò a non aprire bocca e a non dire a Tansy ciò che stava pensando in quel momento. Quella nuova coincidenza superava tutte le altre. Quasi al momento in cui aveva bruciato l’ultimo amuleto e aveva avvertito una sensazione di paura, Tansy aveva provato invece un gran sollievo. Questo gli avrebbe insegnato a costruire teorie sulle coincidenze!

«Perché vedi, caro, io in un senso ero pazza» gli stava dicendo Tansy. «Poche persone avrebbero preso la cosa come l’hai presa tu».

Le rispose: «Non era pazzia la tua. Pazzia è un termine labile, che si può applicare a chiunque. Eri soltanto preda della malignità delle cose».

«La malignità…?»

«Sì. Esempio: i chiodi che si ostinano a piegarsi quando tu li pianti nel muro, come se lo facessero di proposito. Oppure l’ostinazione delle cose meccaniche che rifiutano di funzionare. La materia è una cosa buffa. Collettivamente, obbedisce alle leggi della natura, ma se prendi l’atomo da solo, o l’elettrone, è tutta una questione di fortuna o di capriccio.» Quella conversazione non prendeva la strada che lui aveva inteso, e fu grato a Totem che balzò sul tavolo fornendogli un diversivo.

Finì che quella serata fu deliziosa, da anni non ne avevano trascorsa insieme una simile.

Ma al mattino successivo, arrivando a Morton, Norman avrebbe preferito non aver parlato della malignità delle cose. L’argomento si era fissato nella sua mente. Si accorse di notare le minime cose. Come, ad esempio, la posizione precisa di quel drago di cemento. Ricordava di aver notato ieri che esso occupava l’esatta metà dello spigolo discendente del tetto. Ora però costatava che si trovava ai due terzi della discesa, proprio accanto all’architrave che sormontava l’enorme e inutile portico di stile gotico che divideva il collegio di Estrey da quello di Morton. Perfino un semplice professore di sociologia avrebbe dovuto avere più spirito di osservazione di così.

Il telefono trillò in perfetta coincidenza con il campanello delle nove.

«Saylor?» era la voce melliflua di Thompson. «Mi spiace doverti disturbare ancora, ma ho appena ricevuto una telefonata da uno dei consiglieri, questa volta è Liddell. Si tratta del discorsetto (non ufficiale, certo) che hai pronunciato, a quanto pare, alla stessa epoca del… be’ di quel ricevimento, sul tema “Gli errori dell’educazione universitaria”.»

«E con questo? Non pretenderai che nell’educazione universitaria non vi sia niente di sbagliato? O l’argomento è tabù?»

«No, no di certo. Ma dal modo con cui mi parlava il consigliere pareva che tu avessi fatto la critica di Hempnell.»

«La critica dei piccoli colleghi del tipo di Hempnell, sì. Di Hempnell in particolare, no.»

«Pareva temesse gli effetti di questo discorso sulle iscrizioni dell’anno prossimo. Mi ha parlato di alcuni suoi amici con figli in età universitaria, che hanno sentito il tuo discorso e sono stati spiacevolmente impressionati.»

«Vuol dire che sono degli ipersensibili.»

«Inoltre pareva pensare che vi fosse nel tuo discorso un’allusione al preside Pollard… alle sue attività politiche.»

«Mi spiace, ma devo andare alla lezione.»

«Benissimo» disse Thompson, e riattaccò. Norman fece una smorfia. La malignità delle cose era nulla in confronto alla malignità della gente. Si alzò d’un balzo e si avviò alla sua lezione sulle società primitive.

Gracine Pollard era assente, lo notò reprimendo un sorriso e chiedendosi se la lezione del giorno prima non fosse stata troppo forte per il suo senso della rispettabilità. Ma era giusto che anche le figlie dei presidi sentissero di tanto in tanto una o due crude verità. Su altri alunni quella lezione aveva avuto un effetto stimolante. Alcuni studenti avevano scelto seduta stante argomenti affini per i loro componimenti trimestrali e il capo dell’associazione universitaria aveva sfruttato la sconfitta del giorno prima preparando un articolo umoristico destinato al giornale del collegio, Il Buffone, sul significato primitivo dell’iniziazione nelle confraternite. In complesso era stata una lezione molto brillante.

A un tratto Norman si sorprese a riflettere sull’incomprensione della gente verso gli studenti universitari. In generale li considerava dei ribelli pericolosi, scandalosamente portati alle esperienze sotto l’aspetto della moralità. In verità le classi lavoratrici li vedevano come folli mostri di insanità e di perversione, assassini di bambini, organizzatori di riti sacrileghi equivalenti alle messe nere. In realtà erano individui assai più convenzionali di molti alunni di liceo, e in quanto a esperienze sessuali, erano più ignoranti indubbiamente dei ragazzi la cui educazione terminava con le medie.

Invece di piantarsi coraggiosamente in mezzo alla classe e proclamare la loro ribellione, erano più propensi a mostrarsi servilmente ipocriti, ansiosi di dire solo quelle cose che più piacevano al professore. Nessun pericolo di vederseli sfuggire di mano. Al contrario, era necessario allettarli, trascinarli gradatamente verso la verità, allontanarli dai tabù e dalle idee meschine che fiorivano nelle loro famiglie. E come si facevano più complessi quei problemi, e sempre più bisognosi di soluzione, vivendo come si viveva oggi, in un’era di moralità transitoria, in cui la fedeltà a una nazione, l’amore per una sola famiglia, tendevano a fondersi in una più ampia fedeltà, in un più ampio amore, oppure a precipitare nel caos atomico, egoista e spietato. Bastava per questo che lo spirito umano fosse calpestato, avvilito, mutilato dall’egoismo e dai timori tradizionali.

I professori non godevano di miglior stima da parte del pubblico in generale. In realtà formavano un piccolo nucleo di individui timorosi, oltremodo sensibili al consenso pubblico. Che questi professori di tanto in tanto avessero il coraggio di parlare apertamente, era senz’altro cosa molto lodevole.

Tutto ciò rispettava la tendenza, dura a morire, di una società che non vedeva nel maestro un educatore bensì una specie di vergine vestale, un sacrificio vivente, immolato sull’altare della rispettabilità, costretto in abitazioni adeguatamente austere, giudicato secondo un codice morale assai più severo di quello col quale si misurava la moralità di una massaia o di un uomo d’affari. E in quella vergine vestale, la verginità contava assai più dello zelo a mantenere viva la debole fiamma della curiosità scientifica e dell’onesta ricerca intellettuale. Per quello che importava alla gente, la fiamma poteva anche spegnersi, purché gli insegnanti rimanessero legati al loro tempio, a testimoniare che in qualche parte del mondo si mantenevano alti i valori morali.

Norman pensò amaramente: in fin dei conti, ciò che vogliono da noi è un’opera di magia, di un tipo blando, ma sempre di magia. E io che ho costretto Tansy a smettere!

Lo colpì l’ironia della situazione, e sorrise.

Fu di buon umore sin dopo l’ultima lezione del pomeriggio, quando s’imbatté nei Sawtelle davanti a Morton Hall.

Evelyn Sawtelle era una donna snob e una falsa intellettuale. Voleva dare a intendere di avere sacrificato una grande carriera di attrice per sposare Hervey. In realtà non era mai riuscita a ottenere la direzione del gruppo filodrammatico di Hempnell e si era dovuta accontentare di un piccolo incarico nella classe di recitazione. Il suo portamento era studiato, la scelta dei suoi vestiti pretendeva di essere artistica, il che, aggiunto alle guance piatte, ai capelli di un nero spento, e agli occhi anch’essi neri e privi di vitalità, faceva pensare a quel tipo di donna che si vede talvolta mentre passeggia maestosamente nell’atrio di un teatro durante gli intervalli di un balletto o di un concerto.

Ma lungi dall’essere un tipo da bohème, Evelyn Sawtelle era più propensa della maggior parte delle mogli dei professori a tormentarsi su questioni di prestigio e di protocollo. Purtroppo, data la sua ignoranza generale, questa sua trepidazione non le infondeva il tatto necessario. Anzi!

Il marito le era totalmente sottomesso. Lo dirigeva come si dirige una ditta, con uno zelo un po’ goffo, ma anche con alacre efficienza.

«Ho fatto colazione con Henrietta, voglio dire con la signora Pollard» annunciò a Norman con l’aria compiaciuta di chi ha appena compiuto una visita a un principe di sangue reale.

«Di’ un po’, Norman» cominciò Hervey agitatissimo, brandendo la cartella.

«È stato un interessante colloquio» continuò sua moglie imperterrita. «E abbiamo anche parlato di lei, Norman. Sembra che Gracine Pollard abbia frainteso alcune cose che lei ha detto in classe. È una ragazza tanto sensibile.»

Un’oca giuliva, pensò Norman, ma disse invece: «Davvero?» per pura educazione.

«La cara Henrietta era un po’ sconcertata, non sapendo come spiegare certe cose a sua figlia. Certo, è una donna di larghe vedute, molto cosmopolita. Le ho detto questo, Norman, perché pensavo che la potesse interessare. È importante dopotutto che nessuno si faccia una brutta opinione del nostro ramo scientifico. Non sei d’accordo, Hervey?» terminò bruscamente.

«Che dici, cara? Ah, sì, naturalmente. Senti Norman, volevo dirti di quella tesi che ti ho mostrato ieri. Una faccenda davvero straordinaria. Gli argomenti principali sono quasi identici a quelli del tuo libro. Un caso stranissimo, due studiosi che arrivano, ognuno dal canto suo, alle stesse conclusioni! Proprio come Darwin e Wallace, o…»

«Caro, tu non mi hai mai parlato di questa faccenda» disse la moglie.

«Aspetta un secondo» intervenne Norman.

Detestava fornire spiegazioni in presenza della signora Sawtelle, ma lo doveva fare.

«Mi spiace Hervey doverti dare una spiegazione terra-terra anziché soddisfare una coincidenza scientifica. È successo quando ero assistente qui nel 1929, il primo anno. Un ragazzo che si laureava, un certo Cunningham, si impadronì della mia idea (eravamo amici) e la inserì nella sua tesi di laurea. Un po’ perché a quel tempo il mio lavoro sulla superstizione e la nevrosi era solamente una mia materia di riserva, un po’ perché stetti a letto due mesi con la polmonite, non lessi la sua tesi finché non fu laureato.»

Swatelle batté rapidamente le palpebre, il suo viso riprese la sua solita espressione preoccupata. Una certa delusione apparve nello sguardo a succhiello della signora Sawtelle. Come le sarebbe piaciuto leggere quella tesi, soffermarsi su ogni paragrafo e lasciar vagare i suoi sospetti prima di udire la spiegazione.

«Io ero tremendamente irritato» continuò Norman «e lo volevo denunciare, quando appresi che era morto e che forse si era suicidato. Era un ragazzo un po’ squilibrato. Come potesse pensare di farla franca, dopo avermi rubato quelle idee, non lo so. Comunque decisi di non far nulla in tal senso per non urtare la sua famiglia. Questo fatto nuovo avrebbe forse giocato in favore della tesi del suicidio.»

La signora Sawtelle pareva incredula.

«Ma Norman» commentò Sawtelle ansiosamente «ti pare sia stato saggio? Voglio dire, di non parlarne con nessuno? Non era un po’ rischioso, intendo per la tua reputazione accademica?»

Di colpo l’atteggiamento della signora Sawtelle cambiò.

«Rimetti quella roba in archivio e dimenticala» gli ordinò. Poi sorrise maliziosamente a Norman. «Mi scordavo di dirle che ho una sorpresa per lei, professor Saylor. Venga nell’auditorio e sentirà. Ci vorrà un minuto. Vieni Hervey.»

Norman non trovò scuse lì per lì e dovette accompagnare i Sawtelle nella sala dove si svolgevano le lezioni di recitazione, all’altra estremità di Morton, meravigliandosi che il reparto di recitazione potesse trovare impiego per una voce così nasale e così artificiale come quella di Evelyn Sawtelle, anche se si trattava della moglie di un professore e di un’attrice drammatica mancata.

La sala era scura e silenziosa, una specie di gran scatolone con i muri isolati acusticamente e doppie finestre. La signora Sawtelle, prese un dischetto dall’armadietto, lo inserì su uno dei tre giradischi, regolò un paio di quadranti. Norman sobbalzò: per un attimo ebbe l’impressione che un grosso camion si stesse avvicinando con un tremendo boato verso la sala acustica e che ne avrebbe sfondato i muri isolanti. Poi l’orrendo rumore che usciva dall’altoparlante divenne un gemito o un sospiro che pulsava stranamente, come il vento quando cerca di penetrare in casa. Questo secondo rumore non colpì Norman nella stessa maniera del primo. La signora Sawtelle tornò all’apparecchio e girò le manopole.

«Mi sono sbagliata» disse. «Questa dev’essere musica moderna o roba del genere. Hervey, accendi la luce. Ecco il disco che cercavo.»

Lo posò sul giradischi.

«Non so che cosa fosse, ma era orribile» disse suo marito.

Norman era riuscito a identificare il suo ricordo. Era stato un suo collega a fargli sentire uno strumento primitivo che gli aborigeni australiani usano talvolta per invocare la pioggia. Una specie di raganella, fatta di un pezzo di legno piatto appeso a uno spago, che fatto roteare emetteva quello stesso suono, un po’ simile al muggito di un toro.

“…Ma in quest’epoca di incomprensione e di violenza, noi volontariamente o negligentemente dimentichiamo che ogni parola e ogni pensiero devono riferirsi a qualcosa che esiste veramente. Se lasciamo penetrare nella nostra mente dei riferimenti all’irreale e al nonesistente…”

Norman trasalì nuovamente, perché ora era la sua voce che usciva dall’amplificatore ed ebbe l’impressione di fare un balzo indietro nel tempo.

«Sorpreso?» gli chiese Evelyn facendo la modesta. «È quella conferenza sulla semantica che lei ha tenuto la settimana scorsa. C’era un microfono sulla cattedra (lei credeva fosse destinato all’amplificazione del suono, vero?) e ne abbiamo fatto una registrazione di contrabbando, come le chiamiamo noi. Siamo arrivati fino a questo punto della lezione.»

Indicò il pesante giradischi posto su uno zoccolo di cemento che serviva alle registrazioni. Armeggiò con i quadranti e i pulsanti.

«Possiamo fare ogni sorta di cose con questi apparecchi. Mischiare i suoni, voci di sfondo sonoro, eccetera, eccetera.»

“…le parole possono ferirci, lo sapete. E, cosa più strana ancora, sono le parole che si riferiscono alle cose che non esistono a ferirci di più. Ebbene…”

Norman faticava a mostrarsi compiaciuto. Il perché della sua irritazione era irragionevole, come quella di un selvaggio che teme che qualcuno scopra il suo nome segreto. Gli dava fastidio l’idea che Evelyn Sawtelle potesse fare quello che voleva con la sua voce. Al pari del suo sguardo a succhiello, quell’azione indicava un desiderio di penetrare nella sua mente, di scoprire le sue debolezze segrete.

Per la terza volta Norman sobbalzò, perché improvvisamente usciva dall’amplificatore, mischiato però con la sua voce, il suono di quella raganella che ricordava il rombo atroce di un camion che vi viene addosso.

«Oh Dio! ho ancora rimesso quello» disse Evelyn Sawtelle rapidamente lanciandosi sui quadranti. «Come si fa ad avvilire una voce meravigliosa come la sua con quella tremenda musica?» Fece una smorfia. «Ma come ha detto lei, Norman, un momento fa? “I suoni non ci possono ferire”».

Norman non si diede la pena di correggere il tipico errore della citazione. La guardò un istante con curiosità mentre era in piedi di fronte a lui, le mani dietro la schiena. Suo marito, col naso arricciato, si era avvicinato al giradischi ancora in moto e tendeva verso di esso un dito incerto.

«No» disse Norman lentamente «non possono ferirci.» E prese bruscamente congedo dicendole: «Grazie per la dimostrazione.»

«Ci vediamo stasera!» gli gridò lei mentre usciva, come per dire: non ti puoi sbarazzare di me.

Come odio quella donna, pensò Norman, mentre si affrettava a scendere le scale buie e infilava il corridoio.

Di ritorno al suo studio, lavorò un’ora buona sui suoi appunti. Alzatosi per poi accendere la luce, l’occhio gli cadde sulla finestra.

Rimase brevemente a guardare, poi trasalì e si lanciò verso l’armadio per prendere il binocolo.

Colui che aveva attuato quello scherzo complicato doveva possedere un senso dell’humour molto misterioso. Scrutò attentamente il cemento nel punto dove si congiungevano l’orlo del tetto e le zampe dagli artigli prensili, cercando di scoprire delle crepe che avrebbero denunciato lo slittamento. Non se ne scoprì neanche una, ma era difficile farlo, data la poca luce del tramonto.

Il drago di cemento era ora aggrappato all’orlo della grondaia, come se stesse per scendere verso Morton strisciando sull’architrave del grande portico d’ingresso.

Alzò il binocolo verso la testa dell’animale, grezza e spoglia come un teschio abbozzato soltanto. Poi d’impulso l’abbassò a scrutare la sottostante fila dei busti scolpiti. Si fermò su quello di Galileo, mettendo a fuoco l’obiettivo, e lesse l’iscrizione piccola che non era riuscito a decifrare a occhio nudo.

Eppur si muove.

Erano le parole che si diceva Galileo avesse pronunciato dopo aver ritrattato davanti all’Inquisizione la sua teoria sulla rivoluzione della terra intorno al sole. Eppur si muove.

Un’asse del pavimento scricchiolò alle sue spalle, e Norman si voltò di botto. Un giovane pallido come la cera, con una folta chioma rossa stava in piedi accanto alla scrivania. I suoi occhi sporgenti parevano biglie lattescenti. Nella mano, dai tendini tesi e pronti a scattare, teneva una pistola calibro 22. Norman andò verso di lui, deviando leggermente sulla destra. La canna dell’arma si alzò.

«Ciao, Jennings» disse Norman. «Ti hanno reintegrato nei corsi, hai visto? E ti hanno alzato il punteggio sino al grado A.»

La canna della pistola si fermò un secondo.

Norman trattenne il respiro.

Il colpo partì, gli sfiorò il braccio sinistro e uscì dalla finestra bucandone il vetro.

La rivoltella cadde a terra. Il corpo di Jennings si afflosciò di colpo. Norman lo fece sedere nella poltrona e il ragazzo cominciò a singhiozzare convulsamente.

Norman raccolse la rivoltella afferrandola dalla canna. La ripose nel cassetto, chiuse il cassetto a chiave e si mise la chiave in tasca. Poi chiamò al telefono un numero interno del collegio. La comunicazione venne immediatamente.

«Gunnison?» chiese.

«Sì… stavo per uscire.»

«Senta, i genitori di Theodore Jennings abitano qui, vicino al collegio, non è vero? Lo sa, quel ragazzo che era stato bocciato nel semestre scorso?»

«Sì, stanno qui vicino. Perché, cos’è successo?»

«È meglio che li faccia venire qui subito. Che portino il dottore. Ha tentato in questo momento di uccidermi… Sì, il suo dottore. No, nessuno di noi è ferito. Ma fate presto.»

Norman ripose il telefono mentre Jennings continuava a singhiozzare disperatamente. Norman lo guardò con disgusto per un momento, poi gli batté sulla spalla.

Un’ora dopo Gunnison sedeva in quella stessa poltrona e mandava un lungo sospiro di sollievo.

«Sono ben contento che si siano convinti a chiedere il suo ricovero in un ospedale psichiatrico» disse. «È stato molto gentile da parte tua, Norman, non insistere per chiamare la polizia. Fatti come questi rovinano la reputazione di un collegio.»

Norman sorrise con stanchezza. «Ci vuol poco a rovinare la reputazione di un collegio. Ma quel ragazzo era ovviamente fuori di senno. Per di più, capisco che i Jennings, con le loro relazioni e influenze politiche, significhino molto per Pollard.»

Gunnison assentì, accesero una sigaretta e fumarono in silenzio. Norman pensava: “Com’è diversa la vita reale da un romanzo giallo, dove un tentativo di omicidio è generalmente considerato come una cosa seria, una causa di trambusto, con molte telefonate, l’intervento di poliziotti a decine, sia ufficiali sia ufficiosi… mentre qui, poiché la cosa è accaduta in un ambiente governato dal sentimento della rispettabilità anziché dalla cronaca, il fatto viene messo a tacere e dimenticato come se niente fosse”.

Gunnison guardò l’orologio «Devo sbrigarmi. Sono quasi le sette e veniamo a casa tua stasera alle otto». Ma si attardava, andava a guardare il vetro della finestra nel punto dove era uscito il proiettile.

«Posso chiederle di non parlare di questa faccenda a Tansy?» disse Norman «Non vorrei che s’impressionasse.»

Gunnison assentì. «Sarà meglio che non ne parliamo con nessuno.»

Indicò la finestra. «Quello è uno degli animali preferiti di mia moglie» osservò in tono divertito.

Norman vide che il suo dito indicava il drago di pietra ora illuminato dalla luce fredda dei lampioni stradali.

«Voglio dire» Gunnison continuò «che ne ha scattato decine e decine di fotografie. Hempnell è la sua specialità. Credo che abbia fotografato ogni sua stramberia architettonica. Quello è il suo beniamino.» Rise. «Generalmente sono i mariti che si chiudono nella camera oscura, ma in casa mia è il contrario. Eppure sono io il chimico.»

La mente tesa di Norman era balzata inspiegalmente al ricordo della raganella. Di colpo scopriva un’analogia fra il fatto di registrare quel rumore e quello di fotografare il drago. Ma frenò subito il desiderio di fare a Gunnison certe domande strane. Gli disse invece:

«Venga, è meglio che ci avviamo.» Gunnison notò, meravigliato, l’asprezza della voce. «Mi può dare un passaggio?» gli chiese Norman in tono più mite. «Ho lasciato la macchina a casa.»

«Naturalmente» rispose Gunnison.

Dopo avere spento le luci, Norman si fermò un momento a guardare dalla finestra. Gli tornarono in mente le parole: Eppur si muove!

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