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Mentre Norman, il giorno dopo, si avviava a Hempnell, notò in maniera insolitamente intensa quanto fosse “pseudo” lo stile gotico del collegio. Com’era scarso il pensiero scientifico che si nascondeva sotto quell’architettura troppo ornata, e quanta preoccupazione vi si celava, per gli stipendi troppo bassi, per le spese amministrative troppo alte. E fra gli stessi studenti, scarsa era la passione per gli studi, e molta la passione, punto e basta… anche se si trattava di una passione timida, derivata dalla pubblicità e stimolata dal cinema.

Ma forse i simboli di quell’architettura tetra volevano simboleggiare proprio questo, anche in quei tempi monastici i chiostri ed i contrafforti avevano un loro ruolo funzionale.

I viali ora erano vuoti, tranne poche persone che procedevano frettolosamente. Entro pochi minuti tutto il corpo studentesco sarebbe uscito dalla cappella, una marea di bluse e golfini.

Un camion sgusciò all’angolo della strada nell’attimo in cui Norman stava per attraversare. Egli indietreggiò tornando sul marciapiede, con un moto di disgusto. Nel nostro mondo condizionato dal motore a scoppio tollerava le automobili comuni; ma i camion, chissà perché, gli suggerivano un malsano gigantismo, provocando in lui una ripugnanza irrazionale.

Guardandosi rapidamente intorno prima di riattraversare, vide con la coda dell’occhio una figura che pareva quella di una studentessa. Era fortemente in ritardo per il servizio religioso, oppure l’aveva saltato del tutto. Dopo un attimo si rese conto che quella figura era la signora Carr, e rallentò il passo per attenderla.

L’errore era naturale. A dispetto dei settant’anni certamente compiuti, la preside delle professoresse, una donna dai capelli candidissimi, aveva una figura e un portamento molto giovanili. Il passo era vivace e quasi elastico. Osservandola attentamente si notava però il collo troppo scuro solcato da mille rughe e era chiaro che quel corpo era sottile a causa degli anni e non della giovinezza. I modi giovanili della signora Carr non erano dovuti ad affettazione, o a uno struggente aggrapparsi alla vita sessuale; anche se lo fosse stato, non lo dava ad intendere. Ma questa falsa giovinezza era dovuta a una famelica infatuazione di gioventù, di freschezza, tale da influenzare perfino le cellule e la tensione elettrica del suo corpo.

Addirittura il culto della giovinezza, fra i professori dei nostri collegi universitari, pensò Norman, una forma particolare del grande culto americano della giovinezza, un impulso quasi vampirico a nutrirsi dei sentimenti e dell’entusiasmo giovanili.

L’arrivo della signora Carr interruppe il filo dei suoi pensieri.

«E come sta Tansy?» chiese lei con una sollecitudine così affabile che per un attimo Norman si chiese se la preside delle professoresse non possedesse qualcosa di più di quell’intuitivo filo diretto con la vita privata dei colleghi, che generalmente le si attribuiva. Fu solo un attimo. Dopo tutto, l’affabile sollecitudine era una necessità professionale, per la preside.

«Abbiamo sentito la sua mancanza all’ultima riunione delle signore» continuò la signora Carr. «Ha un carattere così allegro. E francamente abbiamo bisogno di allegria, oggigiorno.» I freddi raggi del sole mattutino brillavano sulle sue spesse lenti e luccicavano sulle sue guance luminose come la brina su una mela rossa. Posò la mano sul braccio di Norman. «Hempnell ha molta stima di Tansy, professor Saylor.»

Norman stava per dire: «E perché non dovrebbe?» Invece rispose: «Il che dimostra il suo buon senso…» e ricordò con ironia come, dieci anni prima la signora Carr fosse fra le più accanite a tacciare i Saylor di “coppia con un’influenza demoralizzante, disfattista”.

Il riso argentino della signora Carr squillò nell’aria fresca.

«Bisogna che mi affretti, ho un colloquio con gli studenti» disse. «Ma voglio farle sapere, professor Saylor, che Hempnell ha molta stima anche di lei.»

La guardò mentre si allontanava rapidamente e si chiese se quest’ultima frase significasse che le sue probabilità di ottenere la cattedra di sociologia si erano accresciute. Voltò e si diresse a Morton.

Entrando nel suo studio udì suonare il telefono. Era Thompson, l’incaricato delle relazioni pubbliche di Hempnell, l’unico compito amministrativo che non era stato affidato a un semplice professore, data la sua vitale importanza.

Il saluto di Thompson fu particolarmente affabile. Come le altre volte, Norman vide nel suo interlocutore un uomo che aveva sbagliato professione e che sarebbe stato certamente più felice a vendere saponette. Ci sarebbe voluto uno psicoanalista, pensò Norman, per scoprire quale intima costrizione spingeva Thompson ad aggrapparsi ai margini del mondo accademico. Si sa soltanto che tale impulso si ritrova in un piccolo numero di questi potenziali venditori.

«Si tratta di un argomento un po’ delicato…» diceva Thompson. Gli argomenti delicati erano la sua specialità. «Un momento fa uno dei nostri consiglieri mi ha telefonato in merito a una strana storia che gli è stata riferita, non mi ha voluto dire da chi. La cosa concerne te e tua moglie. A quanto pare, durante le vacanze di Natale a New York avete partecipato a un ricevimento offerto da gente di teatro, molto in vista e molto… allegra. Non ha saputo dirmi dove si siano svolte le cose, ma pare che tutto il gruppo degli invitati abbia vagato qua e là per New York. A dirti il vero non mi è parsa una cosa molto verosimile. Comunque si trattava di una specie di spettacolo improvvisato in un night-club, con una toga professorale indossata da… insomma… da una spogliarellista. Gli ho risposto che avrei indagato, ho appunto pensato che… insomma, mi stavo chiedendo se tu…»

«Se io avrei opposto un diniego formale? Spiacente, ma mi sembrerebbe disonesto. L’informazione è sostanzialmente esatta.»

«Ah, capisco… Ebbene, non c’è altro da dire» Thompson rispose coraggiosamente dopo un paio di secondi. «Comunque, ritenevo giusto informarti. Il Consigliere Fenner… era molto… agitato per questo incidente. Mi ha inchiodato un’ora al telefono con i suoi commenti su quella coppia di attori, nota soprattutto per la sua facilità a ubriacarsi e a divorziare…»

«Il primo particolare è esatto, il secondo no. Mona e Welby Utell sono due sposi fedelissimi, alla loro maniera s’intende. Gente simpatica, te li farò conoscere uno di questi giorni.»

«Ne sarò lieto, certamente» rispose Thompson. «Addio.»

Il campanello delle lezioni trillò. Norman smise di giocherellare con il piccolo coltello di ossidiana che usava per aprire le buste, fece ruotare la sua poltrona, la spinse indietro e si adagiò sullo schienale, divertito e irritato da quest’ennesima manifestazione della politica silenziatrice e sussurrante di Hempnell. Non aveva mosso un dito per nascondere il ricevimento degli Utell, che era stato in verità un pochino più matto del previsto; ma non ne aveva neppure parlato ad alcuno, qui in collegio. Purtroppo era inutile illudersi; dopo tanti mesi, la cosa veniva a galla.

Dal punto dov’era seduto, l’orlo del tetto di Estrey Hall tagliava in diagonale la finestra del suo studio. Vi si vedeva una figura di pietra, un drago scolpito nell’atto di discendere dal tetto.

Per la decima volta nella stessa mattinata gli tornarono in mente i fatti della notte precedente e si chiese se tutto ciò fosse realmente accaduto. Gli era difficile ammetterlo. Eppure a pensarci bene l’incursione di Tansy nel mondo medioevale non era certo più strana dell’architettura gotica di Hempnell, con quell’abbondanza di grondoni e altri mostri favolosi intesi ad allontanare gli spiriti maligni. Il secondo campanello squillò e Norman si alzò.

La lezione d’oggi verteva sulle società primitive. La classe fece silenzio. Al suo ingresso Norman chiese a uno studente di spiegargli il ruolo della consanguineità come fattore dell’organizzazione tribale, ed ebbe tempo, nei cinque minuti successivi, di raggruppare le sue idee e segnare gli ultimi arrivati e gli assenti. Quando la spiegazione, corredata sulla lavagna dai diagrammi dei matrimoni fra gruppi diventò così complicata che Bronstein, il migliore alunno, si agitava e moriva dalla voglia d’intervenire, Norman chiese ai suoi alunni commenti e critiche, riuscendo a stimolare una discussione di grande interesse.

Alla fine, il presidente dell’associazione studentesca, che sedeva in seconda fila, disse: «Ma tutti quei principi di organizzazione sociale erano in fin dei conti fondati sull’ignoranza, la tradizione e la superstizione. Tutto l’opposto della società moderna.»

Era l’esca prevista da Norman. Egli prese brillantemente la parola, polverizzò il difensore della società moderna, paragonando punto per punto le confraternite universitarie di oggi alle “case dei giovani”, con tutti i particolari delle cerimonie di iniziazione che egli analizzò con delizia scientifica; si lanciò infine in una larga analisi delle usanze contemporanee come apparirebbero a un ipotetico etnologo marziano. Abbozzò passando una umoristica analogia fra le associazioni femminili e la primitiva clausura delle ragazze giunte alla pubertà. I minuti passavano veloci e piacevoli, mentre sfornava esempi di arretratezza culturale in tutto, dal comportamento a tavola sino ai sistemi di misurazione. Perfino il dormiglione solitario dell’ultima fila si era risvegliato ed ascoltava con attenzione.

«Certamente, abbiamo fatto innovazioni importanti, la maggiore delle quali è l’uso sistematico del metodo scientifico» disse a un certo punto. «Ma la base primitiva esiste tuttora e domina il ritmo della nostra vita. Siamo scimmie antropoidi modificate che vivono nei night-club e nelle corazzate. Che altro potremmo essere?»

Il matrimonio e il periodo di corteggiamento furono anch’essi presi in esame. Bronstein sorrideva beato, e Norman abbozzò un parallelo fra matrimonio per acquisto, matrimonio per rapimento e matrimonio simbolico a una divinità. Dimostrò che il matrimonio in prova non è un concetto moderno bensì un’usanza antica solidamente impiantata e praticata con successo dai polinesiani e da altri popoli.

Fu a questo punto che si accorse della presenza in fondo all’aula di un viso rosso brace, dall’espressione irritata. Era quello di Gracine Pollard, la figlia del preside di Hempnell. Lo guardava furente, ignorando volutamente l’interesse che questo suo rossore suscitava fra i compagni.

Pensò meccanicamente: ora quella piccola nevrotica andrà a raccontare a papà che il professor Saylor sta perorando la causa del libero amore. Cacciò dalla mente quel pensiero e continuò la lezione senza modificarla. Fu interrotto dal suono del campanello finale.

Norman era irritato con se stesso. Ascoltò senza prestare attenzione i commenti entusiasti e le domande di Bronstein e d’un paio d’altri studenti.

Tornato nel suo studio trovò una nota del preside Harold Gunnison. E siccome non aveva altre lezioni nell’ora successiva, si recò nell’edificio amministrativo, con Bronstein alla calcagna, che gli esponeva una sua teoria.

Norman si chiedeva perché si fosse lasciato andare. Indubbiamente alcune delle sue osservazioni erano state un po’ crude. Da tempo aveva imparato ad adeguare il suo comportamento in aula al clima di Hempnell, senza menomare la sua integrità intellettuale. Le poche deviazioni che si era permesso quella mattina (sconsigliabili, anche se leggere) lo infastidivano.

La signora Carr gli passò accanto senza dire una parola, col viso leggermente voltato dall’altra parte, evitando di salutarlo. Ci volle un po’ per capire la ragione di quel comportamento. Distrattamente aveva acceso una sigaretta, e Bronstein che lo seguiva aveva fatto altrettanto, ovviamente felice di questo strappo al ferreo regolamento universitario. Si tollerava che i professori fumassero nella loro sala di riunione o nell’isolamento del proprio studio, ma basta.

Aggrottò la fronte e continuò a fumare. Ovviamente gli eventi di quella notte avevano turbato la sua mente più di quanto sospettasse. Schiacciò il mozzicone sui gradini dell’edificio amministrativo.

Nel vano della porta esterna si scontrò quasi con la elegante ma tarchiata figura della signora Gunnison.

«Per fortuna che reggevo saldamente la mia macchina fotografica» borbottò lei, mentre egli si chinava a raccogliere la borsa rigonfia della signora. «Mi sarebbe molto spiaciuto dover sostituire quell’obiettivo.» Respinse poi con la mano una ciocca di capelli rossi che le ricadeva sulla fronte: «Lei mi sembra preoccupato. Come sta Tansy?»

Norman rispose brevemente e proseguì. Quella donna sì che avrebbe potuto essere una strega! Vestiti costosi indossati come una stracciona; prepotente, brontolona, bonaria in maniera truculenta, ma capace di calpestare gli impulsi di chiunque. Era l’unica persona in presenza della quale l’autorità del marito preside pareva assolutamente ridicola.

Harold Gunnison si affrettò a terminare la sua conversazione telefonica e fece cenno a Norman di entrare e di chiudere la porta.

«Norman» cominciò Gunnison con un tono di rimprovero «si tratta di una faccenda molto delicata.»

Norman si fece attento. Quand’era Harold Gunnison a dirlo anziché Thompson, si trattava veramente di una faccenda delicata. Gunnison e Norman usavano giocare insieme a squash e andavano molto d’accordo. L’unica cosa di Gunnison che a Norman non piaceva era l’ammirazione che lui e il preside Pollard nutrivano l’uno per l’altro. Pertanto l’inneggiare alle idee politiche di Pollard e sottolineare alcune delle sue amicizie politiche di importanza nazionale, era un atto ben visto nell’ambito dei professori.

Harold aveva detto “una faccenda delicata”.

Norman si preparò a sentire un’osservazione sul comportamento eccentrico, indiscreto o forse dilettuoso di Tansy. Gli era sembrata a un tratto l’unica spiegazione logica di questa chiamata.

«C’è una ragazza, all’agenzia di collocamento studenti, che lavora per te, una certa Margaret Van Nice?»

Fulmineamente Norman capì che era stata lei l’autrice della seconda telefonata anonima notturna. Nascondendo la sua scoperta attese un momento e disse: «Sì, una ragazza quieta. Fa le tirature al ciclostile.» E gli venne l’ispirazione di aggiungere: «Parla sempre sottovoce.»

«Ebbene, poco fa ha avuto una crisi isterica nello studio della professoressa Carr. Pretende che tu l’abbia sedotta. La signora Carr ha immediatamente scaricato la patata bollente nelle mie mani.»

Norman frenò l’impulso di raccontare la storia della telefonata e si accontentò di dire: «Ebbene?»

Gunnison aggrottò la fronte e lo guardò di traverso. Norman disse allora: «Lo so che fatti come questi, anche qui a Hempnell, sono già accaduti. Ma questa volta… no.»

«Naturalmente, Norman.»

«Certo che non sono mancate le occasioni, abbiamo lavorato fin tardi la sera molte volte, a Morton.»

Gunnison prese in mano una pratica. «Per fortuna ho qui con me gli esami psichici della ragazza. Per quanto riguarda il sistema nervoso il suo indice è molto alto. È tutta un groviglio di complessi. Tratteremo questo incidente con molto tatto.»

«Vorrei proprio sentirla con le mie orecchie, mentre mi accusa del misfatto» disse Norman «e al più presto possibile.»

«Naturalmente. Ho provveduto a organizzare un incontro nello studio della signora Carr, alle quattro, oggi pomeriggio. Nel frattempo la faccio visitare dal dottor Gardner. Il che dovrebbe calmarla un po’.»

«Alle quattro, allora» ripeté Norman alzandosi. «Ci sarà anche lei, Harold?»

«Certamente. La cosa mi spiace, Norman. Ma, detto fra noi, credo che la signora Carr abbia esagerato le cose. È stata presa dal panico; sai, è una vecchia signora, dopo tutto.»

Nell’ufficio antistante lo studio del preside, Norman si fermò a osservare una piccola vetrina piena di oggetti relativi agli studi di chimica-fisica che Gunnison proseguiva. Nell’attuale mostra si vedevano alcune gocce di Rupert ed altre stramberie relative alla tensione molecolare. Guardò malinconicamente i piccoli globuli rossi con il loro gambo rigido e ritorto e notò distrattamente le etichette sulle quali era descritto come si ottenevano, facendo cadere gocce di vetro fuso nell’olio bollente. Gli parve a quel momento che Hempnell fosse proprio come una di quelle gocce di Rupert. Picchiando con un martello sulla sfera non succedeva nulla, ma bastava sfiorare con l’unghia il delicato filamento che chiudeva la goccia e questa vi esplodeva in faccia.

Estroso.

Osservò gli altri oggetti, fra i quali un piccolo specchio che, secondo la sottostante legenda, si sarebbe polverizzato solo a sfiorarlo, o sottoponendolo a un repentino cambiamento di temperatura.

Eppure non era così estroso, a pensarci bene. Qualsiasi collettività un po’ artificiale, superorganizzata e tesa, come ad esempio quella di un piccolo collegio, tende a produrre punti critici di tensione. Lo stesso dicasi di una persona o di una carriera. Lo sfioramento più leggero, se colpisce il punto delicato della mente di una ragazza nevrotica, la fa esplodere in accuse atroci. Con un individuo più sano, lui ad esempio, se qualcuno si mettesse a studiarlo segretamente cercando di individuare il filamento vulnerabile col dito pronto a scattare…

Ma questo esercizio diventava troppo estroso. Si affrettò a raggiungere l’aula per l’ultima lezione del mattino.

Sulla soglia incontrò Hervey Sawtelle che gli attaccò un bottone. Il suo collega dello stesso ramo scientifico somigliava a una caricatura poco indulgente del professore universitario. Un po’ più anziano di Norman, aveva la personalità di un settantenne o di un adolescente timido. Aveva sempre fretta, era così nervoso che un nonnulla lo faceva trasalire. Portava sempre due cartelle. Norman vedeva in lui la vittima assai comune della vanità intellettuale. Molto probabilmente ai tempi degli studi universitari, era stato convinto, da insegnanti presuntuosi, che doveva saper tutto in modo da poterne discutere con qualsiasi specialista su qualsiasi argomento, comprese la musica medievale, le equazioni differenziali e la poesia moderna, e fornire una immediata risposta a qualsiasi osservazione, anche se formulata in una lingua morta o straniera. E soprattutto non fare mai domande. Non riuscendo, a dispetto dei suoi perseveranti sforzi, a diventare un moderno Pico della Mirandola, Hervey Sawtelle si era probabilmente convinto della sua mediocrità intellettuale e tentava di porvi rimedio o forse di dimenticarla, dando un’eccessiva, rabbiosa attenzione ai dettagli.

Lo si leggeva senza difficoltà sul suo viso stretto, raggrinzito dalle labbra serrate, sottili, dalla fronte sempre aggrottata. Le preoccupazioni quotidiane si davano incessantemente la caccia su e giù per quel viso.

Al momento era in preda a una delle sue agitazioni preferite.

«Senti Norman, una cosa interessantissima! Ero giù in archivio stamane, e che cosa mi capita fra le mani? Una vecchia tesi di laurea del 1930 scritta da un tale di cui non ho mai sentito parlare, dal titolo Superstizioni e nevrosi.» Tirò fuori dalla cartella un dattiloscritto rilegato che dall’aspetto pareva ingiallito senza che nessuno l’avesse mai aperto. «Quasi lo stesso titolo del tuo libro Parallelismi fra superstizioni e nevrosi. Che strana coincidenza, non trovi? Stasera me lo leggo.»

Si dirigevano entrambi alla mensa, affrettandosi per il viale gremito di studenti che ridevano, ciarlavano e li salutavano con un breve cenno del capo sorridendo. Norman studiava di soppiatto il viso di Sawtelle. Quel pazzo cretino ricordava certamente che il suo Parallelismo era stato pubblicato nel 1931, e aveva voluto insinuare l’idea di plagio da parte sua. Ma il riso nervoso di Sawtelle, un riso che mostrava i denti, era senza malignità.

Desiderò tirare da parte Sawtelle e dirgli che vi era più di una coincidenza, in quel fatto; e che non riguardava minimamente la sua onestà di studioso. Ma non gli sembrò il posto adatto.

L’incidente lo scocciava. Questo era innegabile. Da anni non aveva ripensato a questa stupida faccenda della tesi di laurea di Cunningham. Era rimasta sepolta nel passato, un punto vulnerabile ben nascosto, in attesa del colpetto d’unghia che lo facesse scoppiare.

Immaginazione asinina! Tutto si poteva spiegare, a questo mondo, a Sawtelle come a chiunque; ma in un momento più adatto.

La mente di Sawtelle era tornata alle sue preoccupazioni abituali.

«Lo sai, dovremmo deciderci a tenere la nostra conferenza sul programma di scienze sociali per l’anno prossimo. D’altra parte, credo sia preferibile attendere sino al momento in cui…» si fermò imbarazzato.

«…In cui abbiano deciso di attribuire la cattedra di questa specialità sia a te sia a me?» finì Norman per lui. «Non vedo perché. Comunque, dovremo pur sempre lavorare insieme.»

«Sì, naturalmente, non intendevo insinuare…»

Li raggiunsero altri colleghi sui gradini che portavano alla mensa. Il rumore di stoviglie che proveniva dal reparto studenti, calò d’un tono quando i professori entrarono nel santuario della facoltà.

Le conversazioni si svolsero sui vecchi, soliti temi, con qualche interrogativo sulla riorganizzazione e l’ampliamento del corpo insegnante, previsto per l’anno dopo ad Hempnell.

Vi fu qualche discreta allusione alle ambizioni politiche del preside Pollard. Harold Gunnison confidò che un certo gruppo politicamente potente cercava di convincere Pollard a porre la sua candidatura quale governatore dello stato. Discreti silenzi fra gli astanti sostituirono i pareri contrari a questa eventualità. Il pomo d’adamo di Sawtelle andava su e giù nervosamente in previsione di un possibile riferimento alla cattedra presto vacante di sociologia.

Norman riuscì a tenere una conversazione interessante con Holstrom, il professore di psicologia. Per fortuna era occupato con le lezioni e le conferenze di studenti fino alle quattro. Sapeva di poter lavorare una volta e mezzo più di Sawtelle; ma se avesse dovuto preoccuparsi anche di un quarto solo delle cose che preoccupavano Sawtelle…

Eppure la riunione delle quattro si svolse in maniera diametralmente opposta al previsto. Norman aveva la mano sul pomolo della porta che immetteva nello studio della signora Carr quando (come se questo gesto avesse provocato il necessario stimolo) una voce acuta, singhiozzante, scoppiò a dire:

«È tutta una bugia, sono io che ho inventato tutto.»

Gunnison sedeva vicino alla finestra, col viso leggermente voltato, le braccia conserte. Pareva un elefante un po’ annoiato, un po’ imbarazzato. In una poltrona al centro della stanza, stava raggomitolata una ragazza bionda, delicata. Le lacrime le scendevano sulle guance piatte e dei singhiozzi isterici le scuotevano le spalle. La signora Carr cercava di calmarla agitandola ancora di più.

«Non so perché l’abbia fatto» piagnucolava la ragazza. «Ero innamorata di lui e lui non mi guardava neppure. L’altra notte volevo uccidermi. Invece pensai ch’era meglio rovinarlo, fargli del male…»

«Margaret, ora ti devi calmare, riprendi il controllo di te stessa» ammonì la signora Carr, e le sue mani accarezzavano velocemente le spalle della ragazza.

«Un momento» disse Norman. «Signorina Van Nice…»

Lei si guardò attorno, poi lo fissò, come se a un tratto si rendesse conto della sua presenza.

Norman attese un secondo. Nessuno dei due si mosse. Infine disse: «Signorina Van Nice, l’altra notte… fra il momento in cui si voleva uccidere e quello in cui ha deciso di… rovinarmi in questa maniera, lei non ha fatto null’altro? Per esempio una telefonata?»

La ragazza non rispose, ma dopo alcuni minuti il suo viso solcato dalle lacrime si fece di brace, anche il collo divenne rosso e probabilmente tutto il corpo era rosso, perché anche le braccia dopo alcuni minuti divennero paonazze.

Gunnison osservava la scena più o meno incuriosito.

La signora Carr scrutava la ragazza con occhio critico, china su di lei. A Norman parve ci fosse qualcosa di innegabilmente maligno in quello sguardo indagatore. Ma era forse dovuto allo spessore delle lenti che ingrandivano gli occhi della signora Carr sino a farli somigliare agli occhi tondi dei pesci.

La ragazza non reagì quando le mani della signora Carr si posarono sulle sue spalle. Ora guardava Norman con un’espressione di supplica e di profondo imbarazzo.

«Va bene» disse Norman con gentilezza «non parliamone più.» E sorrise con indulgenza.

Di colpo l’espressione della ragazza mutò. Liberandosi dalle mani della signora Carr, fece un balzo in avanti, ponendosi di fronte a Norman.

«Io la odio» strillò «la odio!»

Gunnison seguì Norman fuori dall’ufficio. Sbadigliò, scosse il capo e commentò: «Sono contento che sia finita. Fra l’altro, il dottor Gardner mi ha detto che non le… era successo niente.»

«Figuriamoci se…» rispose Norman assente.

«A proposito» disse Gunnison, traendo dal taschino una busta rigida. «Ho qui un biglietto per tua moglie. Hulda mi ha chiesto di dartelo. Me n’ero dimenticato un momento fa.»

«Ho incontrato Hulda mentre veniva fuori dal suo ufficio, stamane» disse Norman pensando ad altro.

Un po’ più tardi, di ritorno a Morton, Norman cercò di riafferrare questi suoi pensieri, ma li trovò particolarmente sfuggevoli. Il drago di pietra sull’orlo del tetto di Estrey Hall sviò i suoi pensieri. Strane queste piccole cose. Non le noti per anni e un bel giorno improvvisamente non vedi che quelle. Quante persone avrebbero potuto riferire una sola cosa ben precisa a proposito degli ornamenti architettonici dell’edificio nel quale lavoravano? Nemmeno una su dieci, probabilmente. E neanche lui, se ieri gli avessero chiesto qualcosa a proposito di quel drago, sarebbe stato in grado di ricordare se ce n’era uno.

Si appoggiò sul davanzale della finestra, osservando quella sagoma simile a una grossa lucertola, eppure con qualcosa di grottescamente antropoide, illuminata dal tramonto incandescente che si diceva fosse il simbolo delle anime dei defunti che entravano o uscivano dal mondo dell’ai di là. Sporgeva dal cornicione, proprio sotto il drago, un busto scolpito appartenente alla serie dei grandi scienziati e matematici che ornavano la tavolatura. Riuscì a scorgere la parola “Galileo” che sovrastava una breve iscrizione non leggibile.

Quando si voltò per rispondere al telefono lo studio gli sembrò improvvisamente oscuro.

«Saylor… le volevo dire… Ecco, le do tempo fino a domattina…»

«Senti, Jennìngs,» disse Norman secco «ieri sera ho riattaccato il telefono perché continuavi a urlare. La tua politica di minacce non ti gioverà…»

La voce all’altro capo del telefono proseguì dal punto in cui era stata interrotta, ma crescendo d’intensità. «… Fino a domani per ritirare le sue accuse e farmi riammettere a Hempnell.»

Dopodiché irruppe in un torrente di insulti e di oscenità, pronunciate a voce così squillante che Norman le sentiva chiaramente mentre riponeva il telefono sul supporto.

Un paranoico, ecco l’effetto che gli faceva.

Si lasciò cadere sulla poltrona e rimase immobile, a pensare.

Alle otto, la sera prima, egli aveva bruciato un talismano probabilmente inteso ad allontanare da lui ogni influenza maligna, l’ultima delle manie di Tansy.

Alla stessa ora circa, Margaret Van Nice aveva deciso di confessargli la sua folle passione, e Theodore Jennings aveva deciso di renderlo responsabile di un immaginario complotto a suo danno. Il mattino successivo, il puritanissimo consigliere Fenner aveva chiamato Thompson al telefono per riferirgli del ricevimento degli Utell e Hervey Sawtelle, frugando nell’archivio aveva scoperto…

Sciocchezze.

Con un riso rabbioso come per burlarsi della propria credulità, prese il cappello e si diresse verso casa.

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