Era già notte quando si avviarono su per la collina. Norman guidava con prudenza, rallentando agli incroci. L’allegria di Tansy riusciva a tener desta solo una metà dei suoi pensieri.
Lei sorrideva con fare misterioso. Si era cambiata e indossava ora un vestito bianco, sportivo. Sembrava una delle sue alunne.
«E potrei anche essere una strega, che ti trascina a un convegno in cima alla collina. Un nostro piccolo privato Sabba.»
Norman trasalì, si disse che Tansy, quando scherzava a quel modo, faceva una coraggiosa caricatura del suo comportamento precedente. Non doveva a nessun costo lasciarle vedere l’altra metà dei suoi pensieri. Non le avrebbe giovato scoprire quanto suo marito si preoccupasse di se stesso.
Si lasciarono alle spalle le luci della città. Dopo aver percorso quasi un paio di chilometri voltarono e presero la strada della collina. Il fondo stradale era in uno stato peggiore di come lo ricordavano dall’ultima volta che vi erano andati (quand’era stato, dieci anni fa?). E gli alberi erano più folti. I loro rami spazzavano il parabrezza della macchina.
Quando emersero nella radura, in cima al colle, una luna rossa al suo secondo giorno di plenilunio, stava sorgendo.
Tansy la indicò col dito dicendo: «Hai visto? Ho organizzato tutto a puntino. Ma dove sono gli altri? Un tempo vi erano sempre due o tre macchine, quassù. Con una notte come questa, poi!»
Norman fermò la macchina sul ciglio della piazzetta. «La moda, nelle migrazioni degli innamorati, cambia come tutto il resto» le disse. «Siamo su una rotta in disuso.»
«Sempre il sociologo che torna a galla!»
«Penso di sì. Forse la signora Carr ha scoperto anche lei questo posticino, e gli studenti sono fuggiti più in basso, nei campi.»
Tansy appoggiò la testa alla sua spalla. Norman spense le luci: la luna rendeva soffici le ombre.
«Ti ricordi? Facevamo così a Gorham» mormorò Tansy «quando io seguivo i tuoi corsi e tu eri un giovane e austero assistente. Fino al giorno in cui scoprii che non eri diverso dagli altri ragazzi, solo un po’ più in gamba. Ti ricordi?»
Annuì e le prese la mano. Guardò la città, in basso; vide le luci che delimitavano il collegio a causa dei fari posti sul perimetro del parco e destinati a snidare le coppiette. Gli edifici gotici inondati di luce parevano in quel momento simboleggiare tutto un mondo di spietata concorrenza intellettuale e di tradizionalismo geloso, un mondo al quale Norman, in questo momento, si sentiva infinitamente estraneo.
«Io mi chiedo perché ci odino tanto» fece lui quasi senza pensarci.
«Cosa vai dicendo?» disse Tansy, ma era una domanda oziosa.
«Voglio dire tutti gli altri professori, o la maggior parte di essi. È forse perché facciamo cose come questa, di adesso?»
Tansy rise. «Finalmente ti sei svegliato. Ma, caro, cose come questa le facciamo piuttosto di rado!»
Norman andava avanti con il suo ragionamento. «È un mondo diabolico, fatto di concorrenza e di gelosia. La concorrenza, all’interno di una istituzione, può essere più malefica che altrove, perché è circoscritta, non credi?»
«Io l’ho tollerata per anni» rispose Tansy con semplicità.
«Naturalmente è un sentimento meschino. Ma i sentimenti meschini finiscono per sopraffare gli altri. La loro dimensione si adatta alla mente umana.»
Guardò di nuovo Hempnell e cercò di valutare la quantità di ostilità e di gelosia che gli si era inevitabilmente accumulata sul capo. Sentì un brivido gelato corrergli sulla pelle. Comprese dove lo avrebbe portato quel giro di pensieri. La metà più oscura della sua mente si rianimò.
«Senti, caro filosofo» disse Tansy. «Bevi un sorso di questo.»
Gli porgeva una piccola fiasca d’argento.
Norman la riconobbe. «Non mi sarei mai immaginato che tu l’avessi conservata tutti questi anni.»
«Ti ricordi la prima volta che ti offrii da bere da questa fiaschetta? Penso che tu sia stato un po’ scandalizzato.»
«Però accettai di bere.»
Sapeva di spezie. Ricordava tante cose. Lo riportava a quei buffi anni della proibizione, gli anni di Gorham e della Nuova Inghilterra.
«Che cos’è, cognac?»
«Greco. Dammene un po’.»
I ricordi sommersero la metà oscura della sua mente che sparì sotto l’ondata delle reminiscenze. Guardò i capelli lisci di Tansy, i suoi occhi dai riflessi di luna. “Certo è una strega” pensò con leggerezza. “È Lilith, Ishtar. Glielo dirò.”
«Ti ricordi di quella notte» le disse «in cui dovemmo lasciarci scivolare giù per l’argine per non farci scoprire dal guardiano notturno di Gorham? Che scandalo, se ci avessero colto sul fatto!»
«Ah, sì! e quella volta…»
Ridiscero la collina. La luna, dopo un’ora, era già alta nel cielo. Egli guidava lentamente. Non c’era bisogno di imitare le pazze abitudini degli anni del proibizionismo. Un camion gli passò accanto, scoppiettando. “Non prima di due settimane” gli aveva detto la voce. Accidenti! Chi si credeva di essere? Giovanna d’Arco, che udiva le voci?
Si sentì esilarato. Voleva raccontare a Tansy tutte le cose ridicole che gli avevano attraversato la mente in quegli ultimi giorni. Ne sarebbe venuta fuori una bella storia di fantasmi. Non gliel’aveva voluta dire prima e c’era stato un motivo. Ma ora questo motivo gli pareva insignificante, faceva parte integrale della vita di Hempnell, stipata, corrotta, supercauta, dalla quale avrebbero dovuto evadere più spesso. Che gusto c’era a vivere, se a ogni momento ci si doveva ricordare di non dir questo, di non menzionare quello, per non turbare Tizio, Caio o Sempronio?
Tornato a casa, appena entrato nella stanza di soggiorno e mentre Tansy si lasciava cadere di peso sul divano, egli cominciò a dire:
«Senti Tansy, a proposito di quella faccenda della magia… ti volevo dire…»
Fu un colpo inatteso e fulmineo. Una forza, reale o irreale, lo investì. E un momento dopo si trovò seduto in poltrona, lucidissimo di mente. Il mondo esteriore era come una gelida pressione sui suoi sensi, il mondo interiore una spirale vorticante di pensieri incoerenti, il futuro una oscura galleria lunga due settimane. Era come se una mano enorme, callosa, gli avesse tappato la bocca e un’altra mano contemporaneamente l’avesse afferrato alle spalle, scosso e scaraventato sulla poltrona di cuoio.
Come se?
Si guardò intorno con disagio.
Erano poi state delle mani?
Apparentemente Tansy non aveva notato nulla. Il suo viso era un ovale chiaro nella penombra. Non gli chiese cosa stava per dirle.
Egli si alzò, andò titubante sino alla stanza da pranzo e si avvicinò alla credenza versandosi un whisky. Cammin facendo aveva acceso la luce.
Ma allora, non poteva dir nulla a Tansy né parlare con chicchessia di queste cose, anche se l’avesse voluto? Ecco perché nessuno sentiva mai parlare di vittime della magia, disse tra sé. E anche perché queste non riuscivano mai a liberarsi dall’incubo, anche se i mezzi d’evasione erano a portata di mano. Non era per debolezza, mancanza di volontà. Erano sorvegliati continuamente. Erano come il gangster che qualcuno viene a prelevare in un locale notturno con l’apparente scusa di fare un giro in macchina. Chiede permesso ai suoi rumorosi compagni di tavolo, ride cordialmente con loro, si ferma cammin facendo per scambiare due parole con gli amici, adocchiare le ragazze carine, e questo perché dietro di lui vi è la scorta delle rivoltelle facili, i gangster dalla sciarpa di seta bianca, con la mano infilata nella tasca destra del soprabito nero dal colletto di velluto. Inutile morire subito. Meglio stare al gioco. Vi può essere ancora una possibilità di cavarsela.
Ma era roba da film giallo, da romanzo giallo!
Anche le mani callose.
Si guardò nello specchio della credenza, inchinandosi alla sua immagine.
«Vi presento il professor Saylor, distinto etnologo e assertore convinto di scienze occulte.»
Il viso riflesso nello specchio esprimeva più terrore che ribrezzo.
Si versò un’altra volta da bere, versò del whisky per Tansy e portò i bicchieri nel soggiorno.
«Facciamo un brindisi alla cattiveria» disse Tansy. «Ti rendi conto che non ti sei più ubriacato da Natale?»
Sorrise. Ubriacarsi, ecco proprio ciò che avrebbe fatto un gangster del cinema, per godersi un momento d’oblio dopo che il Capo lo aveva mostrato a dito. Non era una cattiva idea.
Lentamente, e sulle prime con timidezza un po’ malinconica, tornò l’euforia provata sulla collina. Chiacchierarono, suonarono dei vecchi dischi, si raccontarono barzellette così vecchie da parere nuove. Tansy strimpellò qualcosa sul pianoforte, inni religiosi, inni patriottici, canti di lavoratori, di rivoluzionari, blues, romanze di Brahms, di Schubert, piano all’inizio, poi a voce spiegata.
Continuavano a evocare ricordi. E a bere.
Tuttavia, come in una luminosa sfera di cristallo, i pensieri ostili roteavano paurosamente nel cervello di Norman. L’alcool gli permetteva di contemplarli spassionatamente senza doverli respingere di continuo in nome del buon senso. Con la semplicità di ragionamento tipica dello stato d’ubriachezza, la sua mente erudita chiamava a raccolta esempi generalizzati di stregoneria. Per esempio: se non era probabile che gli impulsi autolesionisti fossero imputabili a magia. Quegli impulsi universali erano in diretta contraddizione con le leggi della conservazione e della sopravvivenza. Edgar Poe li aveva definiti, con la sua infinita fantasia, il demonietto della perversione, e gli psicoanalisti avevano faticosamente ipotizzato un desiderio di morte. Era molto più semplice attribuirli alle forze malefiche, estranee all’individuo, operanti con mezzi non ancora identificati e quindi considerati soprannaturali.
Le esperienze di quei due ultimi giorni si potevano dividere in due categorie. La prima comprendeva quegli eventi sfortunati ma naturali e gli antagonismi dai quali Tansy lo aveva protetto con i suoi sortilegi. Il tentato omicidio di Jennings si poteva facilmente assegnare a quella categoria. E vi erano molte ragioni di includervelo, Jennings era senza dubbio uno psicopatico. Quell’aggressione egli l’avrebbe tentata anche prima se Tansy non vi avesse opposto una barriera. Venuto a mancare quello schermo protettivo, appena Norman aveva bruciato l’ultima “manina”, la volontà omicida era improvvisamente maturata nel cervello di Jennings come sboccia di colpo un fiore in una serra. Jennings stesso lo aveva ammesso. Aveva detto: non mi ero reso conto fino a un momento fa…
L’accusa di Margaret Van Nice, l’interesse improvviso di Thompson per i suoi trascorsi extra-professionali, e la scoperta della laurea di Cunningham da parte di Sawtelle, anche quelli probabilmente appartenevano alla stessa categoria.
Nell’altra (stregoneria attiva e malefica diretta contro la sua persona) avrebbe…
«Si può sapere a che pensi?» disse Tansy guardandolo al disopra del suo bicchiere.
«Pensavo al ricevimento dello scorso Natale» replicò pacatamente ma con voce incerta «e a Welby che camminava a quattro zampe imitando un San Bernardo, con lo scendiletto di pelle d’orso sulla schiena e la fiaschetta di whisky appesa al collo, e mi chiedevo perché i giochi più brillanti appaiono così banali dopo un certo tempo. Preferisco comunque essere banale che rispettabile.»
Si sentì molto fiero dell’abilità con la quale aveva evitato la trappola tesagli da sua moglie. E nello stesso tempo considerava Tansy come una strega e una donna potenzialmente nevrotica che a ogni costo bisognava difendere dalle allusioni pericolose. L’alcool lo faceva ragionare a brani staccati, che non avevano alcun contatto reciproco.
Le cose accaddero a piccoli balzi successivi: la sua coscienza si oscurò, sebbene negli intervalli di lucidità i suoi pensieri si manifestassero con esagerata solennità professionale.
Tansy e lui cantavano a squarciagola St. James Infirmary. E lui pensava: “E perché le donne non dovrebbero essere delle streghe? Posseggono l’istinto, il senso della tradizione, sono irrazionali. E, soprattutto, sono superstiziose. Inoltre, per la maggior parte, come Tansy, non sono mai certe dei loro sortilegi”.
Avevano arrotolato il tappeto e si erano messi a ballare sull’aria di Chloé. Tansy, chissà in quale momento, si era messa la vestaglia rosa.
Norman pensava: “Nella seconda categoria ci metto il drago di Estrey, animato da uno spirito, umano o disumano, introdottovi per sortilegio dalla signora Gunnison e manovrato per mezzo di fotografie. Ci metto anche il coltellino di ossidiana, il vento a comando, l’aggressività omicida del camion.”
Ora che suonavano il Bolero di Ravel, Norman segnava il tempo battendo col pugno.
E proseguiva nel suo ragionamento. “I magnati della finanza giocano in borsa seguendo i consigli delle cartomanti. I cultori di numerologia dirigono la carriera dei divi del cinematografo. Metà del mondo si lascia governare dall’astrologia; la pubblicità usa costantemente riferimenti alla magia, al miracolo e gran parte dell’arte moderna, fra l’altro l’arte surrealista, non è altro che un tentativo di stregoneria con l’aiuto di forme prese a prestito agli stregoni e idee rubate ai teosofi moderni.”
Guardava Tansy che si era messa a cantare St. Louis Blues, con una voce rauca, singhiozzante. Era proprio vero, come Welby aveva sempre sostenuto, che Tansy era un’attrice nata. Sarebbe stata un’ottima cantante.
E d’altra parte ragionava: “Tansy ha fermato il drago di Estrey con i nodi. Ma le sarà difficile rifare qualcosa di simile perché la signora Gunnison le ha rubato il diario contenente le formule e può escogitare altri espedienti per circuirla”.
Stavano bevendo dallo stesso bicchiere un whisky così forte che gli avrebbe bruciato la gola se questa non fosse stata intorpidita, e ne sentiva tutto il cordiale beneficio.
Pensava: “Quel pupazzo col camion è la chiave di una serie di sortilegi. Le carte sono state, all’origine, strumenti di magia, come l’arte. Queste magie mirano alla mia distruzione. La raganella agisce da altoparlante. La cosa invisibile, che mi sta alle spalle, con la voce monotona e le mani pesanti, è un guardiano assegnato alla mia persona e bada aché io non esca dal sentiero del mio destino. La galleria stretta. Ancora due settimane”.
La cosa singolare di questi pensieri stava nel fatto che non erano affatto repellenti. Avevano la loro bellezza, selvaggia, scura, velenosa, avevano un loro scintillìo affascinante e mortale. Possedevano il fascino dell’impossibile, dell’incredibile. Suggerivano paesaggi inverosimili. Anche nella loro forma più paurosa non perdevano nulla della loro agghiacciante, struggente bellezza. Erano come le visioni indotte da una droga proibita. Attiravano la mente come l’ignoto peccato e la suprema bestemmia. Norman capiva ora qual era la forza che costringeva i praticanti di magia nera a correre qualsiasi rischio.
L’alcool gli infondeva sicurezza perché aveva suddiviso la sua mente in infinite particelle, e quelle particene erano immuni dalla paura perché non potevano essere colpite. Così come gli atomi, nel corpo dell’uomo, non vengono annientati dal proiettile che lo uccide.
In quel momento le particelle mentali vorticavano all’impazzata. La lucidità si allontanava.
Tansy era fra le sue braccia e gli sussurrava con voce invitante:
«Tutto ciò che è mio è tuo? Tutto ciò che è tuo è mio?»
La domanda destava sospetto nella sua mente, non capiva perché. Pensava che quelle parole costituissero un tranello. Ma quale tranello? I suoi pensieri procedevano inciampando…
Lei diceva (e parevano quasi parole della Bibbia): «Ho bevuto nella tua coppa e tu hai bevuto nella mia».
Il suo viso era un tremulo ovale, e i suoi occhi due annebbiati gioielli.
«Tutto ciò che hai è mio? Me lo dai senza ritegno e di tua spontanea volontà?»
Un tranello, c’era un tranello nascosto da qualche parte.
«Tutto ciò che è tuo è mio? Dillo, Norman, una volta almeno, per farmi piacere.»
Egli l’adorava, naturalmente, l’amava più di qualsiasi cosa al mondo. Avvicinò il viso di lei al suo, e tentò di baciare quegli occhi annebbiati.
«Sì, sì, tutto…» si sorprese a dire.
Poi la sua mente si afflosciò, sprofondò in un oceano senza fondo, fatto di oscurità, di silenzio e di pace.