16

Il ritmico dondolio del treno era come la ninna-nanna dell’Età della Macchina. Norman udiva russare la locomotiva. I campi verdi immensi, roventi, che sfilavano veloci nell’inquadratura del finestrino si assopivano nel sole di mezzogiorno. Le fattorie, le greggi, i cavalli che punteggiavano qua e là i campi si arrendevano al caldo. Anche a lui sarebbe piaciuto appisolarsi, ma sapeva di non potervi riuscire. In quanto a… lei, in apparenza non dormiva mai.

«Vorrei proprio riassumere una o due cose» le disse.» «Interrompimi se ti sembra che sbagli, o se non capisci.»

Con la coda dell’occhio osservò la figura seduta fra lui e il finestrino far cenno di sì col capo.

Norman si rimproverò la sua meschinità, quella sua facilità ad adattarsi a ogni situazione, che gli rendeva consueta perfino… la presenza di lei, tant’è che a distanza di solo un giorno e mezzo, egli era in grado di trattarla come una macchina pensante, e le chiedeva ricordi e reazioni nello stesso modo in cui si ordina a un inserviente di mettere un disco sul grammofono.

Allo stesso tempo sapeva che solo un severo dominio di sé, delle sue azioni e dei suoi pensieri gli permetteva di tollerare quel continuo, intimo contatto. Ad esempio, non la guardava mai in faccia. Lo confortava d’altra parte l’idea che la condizione di Tansy fosse passeggera. Guai se si lasciava andare un attimo a pensare a ciò che sarebbe stata la sua vita se avesse dovuto condividere letto e mensa con quel blocco di freddezza, con quella oscurità interiore, con quella vacuità…

Purtroppo la gente notava la differenza. Quelle persone, ad esempio, nella folla a New York, fra le quali si era fatto strada a spintoni. Generalmente si scansavano tutti per non essere sfiorati da Tansy, e Norman si era accorto che più di una persona si voltava e li seguiva con lo sguardo, incerta fra il timore e la curiosità. E quando una donna aveva cominciato a urlare… Per fortuna erano riusciti a perdersi tra la folla.

La breve fermata a New York gli aveva dato il tempo di prendere importanti decisioni, ed era felice di non dovervi più pensare. Lo scompartimento-salone gli sembrò un’oasi di pace e di isolamento.

Cosa mai notavano gli altri in Tansy? A guardarla attentamente, la truccatura formava un contrasto vistoso e grottesco con il pallore dell’incarnato, e la cipria non ricopriva del tutto quel livido intorno alla bocca. La veletta era stata utilissima. Bisognava però guardarla da vicino, perché il trucco era in effetti un trucco da teatro. O era il suo modo di camminare che gli altri notavano? O il modo con cui erano indossati gli abiti? I vestiti ora le cadevano inerti alle spalle, come quelli di uno spaventapasseri, e non se ne capiva la ragione. O vi era veramente qualcosa che confermava ciò che aveva detto la cameriera di Bayport.

“Tu lasci vagare il tuo pensiero” disse fra sé “perché non vuoi intraprendere il compito sgradevole che ti sei assegnato.” Quel compito, egli lo odiava, perché era falso, o perché forse era troppo vero.

Cominciò rapidamente a dissertare: «La magia è una scienza empirica». Parlava al muro, come se dettasse una lezione. «C’è un’immensa differenza fra la formula di fisica e una formula magica, sebbene abbiano, lo stesso nome. La prima descrive con un simbolo squisitamente matematico, il rapporto di causa ed effetto, considerato uno stratagemma che mira ad ottenere qualcosa o a compiere qualcosa. Tiene sempre conto del movente o del desiderio della persona che invoca la formula, sia esso movente l’avidità, l’amore, la vendetta o altro. Tutt’al contrario, l’esperimento fisico è essenzialmente indipendente dallo sperimentatore. In breve non vi è stata che poca o nessuna magia pura da potersi paragonare alla scienza pura.

“Questa distinzione fra fisica e magia, è soltanto un incidente storico. La fisica è cominciata anch’essa come una specie di magia, vedi l’alchimia e vedi anche la matematica mistica di Pitagora. E la fisica moderna è, in ultima analisi, tanto empirica quanto la magia diretta. Si potrebbe dare alla magia una simile superstruttura per mezzo della ricerca di magia pura e con l’indagine e la correlazione delle formule magiche dei popoli e di epoche diverse, nell’intento di scoprire le formule fondamentali da esprimere in simboli matematici e che potrebbero trovare una estesa applicazione. La maggior parte delle persone che praticano la magia hanno sempre gli occhi fissi sui risultati immediati e non si preoccupano della teoria. Ma appunto perché la ricerca scientifica pura ha finito per portare a risultati che sembrano dovuti al caso e capaci di larga applicazione pratica, così la ricerca in fatto di magia pura potrebbe eventualmente portare ad analoghi risultati.

“Gli studi di Rhine, dell’università di Duke, sono arrivati molto vicini alla magia pura con una dovizia di esempi di chiaroveggenza, profezia e telepatia, e con l’indagine sui legami diretti fra tutte le menti, le loro possibilità di influenzarsi istantaneamente a vicenda, anche se si trovano ai poli opposti della terra.»

Attese un momento prima di proseguire.

«La materia stessa della magia è affine a quella della fisica, perché si occupa di certe forze e di certi materiali, sebbene questo…»

«Io credo sia più affine alla psicologia» interruppe la voce.

«Come mai?» disse Norman. Ma continuava a non guardarla.

«Perché concerne il controllo di altri esseri, li comanda, li costringe a eseguire certe azioni.»

«Bene, questo è interessante. Per fortuna le formule mantengono la loro validità fintanto che il loro riferimento è chiaro, anche se ignoriamo la vera natura delle entità alle quali si riferiscono. Per esempio uno studioso di fisica può anche non essere in grado di descrivere visualmente l’atomo, sebbene il termine apparenza visiva si possa difficilmente attribuire all’atomo. Allo stesso modo uno stregone non ha bisogno di descrivere l’apparenza e la natura dell’entità che egli invoca, donde i consueti riferimenti, nella letteratura magica, a indescrivibili e innominabili orrori. Ma il paragone è valido. Molte forze, in apparenza impersonali, quando sono sufficientemente analizzate diventano qualcosa di molto simile alla personalità. Non è troppo arrischiato dichiarare che sarebbe necessaria una scienza affine alla psicologia per descrivere il comportamento di un singolo elettrone con tutti i suoi capricci e i suoi impulsi, sebbene l’elettrone, considerato nel suo aspetto collettivo, ubbidisce a leggi relativamente semplici, come avviene con gli uomini considerati sotto l’aspetto di moltitudine. Lo stesso dicasi, e in grado perfino maggiore, delle entità fondamentali della magia.

«Ed è in parte per questo motivo che l’operazione di magia si dimostra così infida e pericolosa, e che il suo effetto può essere annullato con tanta facilità se la presunta vittima sta in guardia, così le tue formule, per quanto ne sappiamo, si sono rese inoperanti da quando la signora Gunnison ti ha rubato il diario.»

Le parole di Norman giungevano alle stesse orecchie con uno strano tono enfatico. Ma era indispensabile che mantenesse quel suo modo asciutto, professionale, per poter proseguire il suo ragionamento. Sapeva che se si lasciava andare a un tono casuale, la confusione mentale lo avrebbe ben presto sopraffatto.

«Rimane da fare una considerazione importante» riprese senza fermarsi. «La magia ci appare come una scienza decisamente subordinata all’ambiente, cioè alla posizione del mondo e delle condizioni generali del cosmo in un determinato momento, qualunque esso sia. Per esempio la geometria di Euclide è utile sulla terra; ma fuori, nell’immensità dello spazio, una geometria non euclidea si dimostra più pratica. Ed è così anche per la magia, e forse in maniera ancora più evidente. Sembra che nella magia le formule fondamentali non espresse cambino col passare del tempo e necessitino di continue riformulazioni. È lecito pensare che tali modifiche ubbidiscano a leggi non ancora scoperte. È anche stata fatta l’ipotesi che le leggi delle fisica ubbidiscono a un’analoga tendenza evolutiva. Ma ammettendo questa possibilità di evoluzione, essa è molto meno rapida nella fisica che nella magia. Ad esempio, si ritiene che la velocità della luce muti lentamente col passare dei secoli. È naturale che le leggi della magia si modifichino più rapidamente, poiché la magia dipende da un contatto fra il mondo materiale e un altro livello di esistenza. Questo contatto è complesso ed è soggetto a rapidi cambiamenti.

“Prendiamo ad esempio l’astrologia. Nel corso di molti secoli, la successione degli equinozi ha portato il sole in case celesti molto diverse, i segni dello zodiaco, per gli stessi periodi dell’anno. Si dice tuttora che una persona nata, poniamo, il 22 marzo, si trovi sotto il segno dell’Ariete, per quanto in realtà sia nata quando il sole era ancora nella costellazione dei pesci. Se si trascurano i cambiamenti avvenuti dal giorno in cui fu scoperta l’astrologia sino ad oggi, risulteranno inesatte e antiquate le formule per…”

«È mia convinzione» interruppe la voce, come un grammofono che si mette improvvisamente a suonare «che l’astrologia sia sempre stata inesatta. E una delle varie scienze occulte pure, e che viene usata alla stessa stregua della vetrina di un negozio, a scopo di richiamo… Ne sono convinta.»

«Penso che sia proprio così» disse Norman «e questo aiuta a capire perché la magia in sé è sempre stata discreditata come scienza, ed è questo appunto che io volevo dimostrare.

“Supponiamo che le formule fondamentali della fisica, come ad esempio le tre leggi del moto di Newton, siano mutate varie volte nel corso di queste ultime migliaia di anni. La scoperta delle altre leggi fisiche, in qualsiasi momento, sarebbe stata molto difficile. Gli stessi esperimenti, condotti in epoche diverse, darebbero risultati diversi. Questo accade invece con la magia e spiega perché essa venga periodicamente discreditata e ripugni a una mente razionale. Mi ricorda un po’ ciò che diceva il vecchio Carr a proposito della distribuzione delle carte al bridge. Rimescolando varie volte una moltitudine di fattori cosmici, le leggi della magia si modificano. Un occhio attento riesce a scoprire i mutamenti, ma sono necessari esperimenti continui, del tipo “sbaglia e impara”, al fine di mantenere l’efficacia delle formule magiche, soprattutto per il fatto che le formule fondamentali e le formule generali non sono mai state scoperte.

“Prendiamo un esempio concreto, la formula che io ho usato doménica notte. Comporta vari ingredienti che denunciano una recente revisione. Per esempio nella formula originale, non modificata, cosa si usava al posto di una puntina di grammofono?»

«Un fischietto in legno di salice, di determinata forma, nel quale si era fischiato una volta sola.»

«E il platino e l’iridio?»

«La formula originale diceva argento. Ma un metallo più pesante conviene di più. Il piombo, però, si era dimostrato inefficace. Lo avevo provato una volta. Forse era troppo dissimile dall’argento per altri versi.»

«Appunto. Tentativi empirici, sbagliare e riprendere da capo. Inoltre, in mancanza di esauriente indagine, non possiamo essere certi che tutti gli ingredienti di una formula magica siano indispensabili alla sua riuscita. Un paragone fra le formule usate in paesi diversi in epoche diverse sarebbe molto utile. Indicherebbe quali ingredienti sono comuni a tutte le formule, e quindi presumibilmente indispensabili e quali sono quelli non essenziali.»

Bussarono alla porta. Norman disse qualcosa, e la figura seduta accanto a lui abbassò il velo sul viso e si volse verso la finestra come se contemplasse i prati che sfilavano davanti. Solo allora egli aprì la porta.

Era l’ora di colazione, che gli era parsa tanto lunga a venire, come lo era stata la prima colazione. E l’inserviente era diverso ora. Un uomo color caffè anziché il nero d’ebano della prima volta. Evidentemente il cameriere di prima, che aveva mostrato evidenti segni di nervosità a ogni andirivieni, aveva deciso di lasciare che fosse un altro a prendersi la mancia finale.

Con impazienza mista a curiosità, Norman attese le reazioni del nuovo arrivato. Era in grado di indovinarle quasi tutte: prima un rapido sguardo alla persona seduta vicino a Norman (avrà pensato che lui e Tansy fossero i personaggi più misteriosi di tutto il treno). Poi un lungo sguardo di fianco mentre allestiva il tavolo pieghevole per la colazione, poi uno sguardo sorpreso, gli occhi che si spalancavano. Avvertiva quasi il brivido che percorreva quella pelle colore del caffè. E, dopo, solo sguardi involontari e una nervosità crescente, che si manifestava con una certa goffaggine, nel maneggiare le posate, i bicchieri. Poi un largo sorriso e una veloce uscita dallo scompartimento.

Una volta solamente Norman intervenne e fu per raddrizzare i coltelli e le forchette e piazzarli ad angolo retto nella loro usuale posizione.

Il pasto fu semplice, quasi frugale. Norman non guardava di fronte a sé mentre mangiava. Vi era qualcosa di più di una voracità animalesca in quel cibarsi metodico. Dopo il pasto tornò a sedersi comodamente e stava per accendere una sigaretta quando la figura accanto a lui disse:

«Non dimentichi nulla?» Le parole erano pronunciate senza alcuna modulazione.

Si alzò e mise tutti gli avanzi in una piccola scatola di cartone. Li coprì col tovagliolo di carta che aveva usato per ripulire tutti i piatti e mise la scatola nella valigia, accanto alla busta che conteneva i ritagli d’unghia che si era tagliato al mattino. La vista dei piatti scrupolosamente ripuliti dopo la prima colazione aveva contribuito a turbare il primo cameriere, ma Norman aveva deciso di aderire inflessibilmente a tutti i tabù espressi da Tansy.

E così aveva raccolto i resti del cibo, aveva badato a che nessun coltello né altro oggetto tagliente fosse rivolto contro di lui, o contro la sua compagna, e che dormendo avessero il capo rivolto verso la locomotiva, nella direzione stessa del loro viaggio, e aveva ubbidito ad altre regole minori. I pasti in privato permettevano di soddisfare un altro tabù, ma per questo c’era più di un motivo.

Diede un’occhiata all’orologio. Fra mezz’ora sarebbero arrivati a Hempnell. Non si rendeva conto di essere così vicino, C’era un leggerissimo senso di resistenza quasi fisica nell’avanzare verso quella regione, come se l’aria fosse diventata più densa. E la sua mente era alle prese con un gran numero di problemi non ancora vagliati.

Con le spalle voltate di proposito alla sua compagna, disse:

«Secondo il mito, le anime possono essere imprigionate in diversi modi: in scatole, nodi, animali, pietre… Hai qualche idea in proposito?»

Come aveva temuto, questa domanda gli portò la solita risposta. Le parole erano pronunciate con la stessa ostinazione monotona della prima volta in cui le aveva udite.

«Voglio la mia anima.»

Strinse la mani incrociate sul grembo. Per questo aveva finora evitato la domanda. Ma doveva cercare di saperne di più, se possibile.

«Ma dove, esattamente, la dobbiamo cercare?»

«Io voglio la mia anima.»

«Sì…» Gli era difficile controllare la propria voce. «Ma dove, con precisione, può essere nascosta? Se lo sapessi sarebbe più facile.»

Dopo una lunga pausa, Tansy gli disse imitando come un robot i suoi modi professorali.

«L’habitat dell’anima è il cervello umano. Se è libero, cerca subito di integratisi. Si dice che anima e corpo siano creature separate, che convivono per simbiosi, una simbiosi così stretta, intima, che normalmente le fa apparire come un’unica cosa. Questo contatto sembra essersi fatto sempre più stretto col passare dei secoli. In effetti, quando muore il corpo ch’essa occupava, l’anima generalmente non riesce ad evadere e sembra morire con esso. Ma a causa di interventi sovrannaturali, l’anima talvolta si separa dal corpo che la ospita. E allora se non può ritornare nel proprio corpo, viene irresistibilmente attratta da un altro, sia che questo corpo possegga già un’anima o no. E così l’anima prigioniera è generalmente racchiusa nel cervello di chi l’ha catturata ed è obbligata a sentire, a seguire, nella più totale intimità, l’agire di quell’anima. In questo risiede forse il suo tormento peggiore.»

Il sudore colava a gocce sulla fronte di Norman.

La sua voce non tremò ma era anormalmente forte e sibilante quando chiese: «Com’è Evelyn Sawtelle?»

Nel dare la risposta, Tansy pareva leggesse il riassunto di una scheda informativa politica.

«È dominata da una bramosia di prestigio sociale. Impiega quasi tutto il tempo in falliti tentativi di snobismo. Nutre idee romantiche sul proprio conto, ma poiché queste idee sono troppo ambiziose per potersi realizzare, diventa moralista e puritana, e sfoggia severissime regole di condotta. È convinta di essere defraudata di qualcosa per via di quel marito che ha, e teme continuamente di vedergli perdere quel terreno che lei è riuscita faticosamente e fargli guadagnare. Quella sua personale mancanza di sicurezza le fa commettere azioni malefiche e inspiegabilmente crudeli. In questo momento è attanagliata dalla paura, ed è sempre in guardia. Per questa ragione aveva già pronti i suoi sortilegi quando ha ricevuto la telefonata.»

Norman chiese: «E la signora Gunnison, cosa pensi di lei?».

«È una donna di grande vigore e grandi appetiti. È una buona massaia e anche una buona padrona di casa: ma quelle attività non intaccano la sua energia. Avrebbe dovuto essere la padrona di una grande proprietà feudale. È un tiranno, congenitamente, e solo nella tirannia si sente a suo agio. Le sue bramosie, che per la maggior parte non possono essere apertamente soddisfatte nella nostra società contemporanea, trovano sfogo nondimeno per vie traverse. Le domestiche dei Gunnison hanno raccontato molte cose, ma solo di rado e con molta circospezione, perché lei è spie tata verso coloro che tradiscono la sua fiducia o minacciano la sua sicurezza.»

«E la signora Carr?»

«Di lei si può dir poco. È una donna convenzionale, governa suo marito con indulgenza, e le piace farsi passare per una soave, santa donna. Ma è avida di gioventù. Sono convinta che sia diventata strega nell’età matura, e quindi soffre di un profondo senso di frustrazione. Non sono sicura dei suoi moventi profondi. È strano, ma poco o niente della sua mente traspare oltre la superficie.»

Norman assentì. Poi facendosi forza disse in fretta: «Cosa sai della formula per riprendere un’anima rubata?»

«Poca cosa. Avevo molte di queste formule segnate nel diario che la signora Gunnison mi ha rubato. Avevo la vaga idea di escogitare un sortilegio di salvaguardia nel caso di un’eventuale aggressione in tal senso. Ma non le ricordo e dubito che ve ne sia una veramente efficace. Non le ho mai provate e, per mia esperienza, le formule non riescono mai al primo tentativo. Devono essere continuamente corrette dalla pratica.»

«Ma se fosse possibile paragonarle tra di loro, ricavando una formula fondamentale, una specie di denominatore comune, forse che…?»

Bussarono. Il portabagagli veniva a prendere le valigie.

«Arriviamo a Hempnell fra cinque minuti, signore. Le do una spazzolata qui in corridoio, signore?»

Norman gli diede la mancia e declinò l’offerta. Gli disse pure che si sarebbe portato le valigie da solo. Il portabagagli sorrise e se ne andò.

Norman si mise al finestrino. Per alcuni secondi vide solo la parete di pietra di una gola che gli correva davanti agli occhi con un sibilo, e alcuni alberi che svettavano sopra di essa. Ma poi la parete di sasso cedette il posto all’ampio panorama, e le rotaie cominciarono a scendere a zig-zag giù per la collina.

Vi erano più boschi che prati nella valle. Gli alberi parevano invadere la città, restringerla. Ma gli edifici del collegio vi spiccavano con fredda chiarezza. Avrebbe quasi potuto individuare la finestra del suo studio.

Quelle torri grigie, austere, quei tetti scuri davano l’impressione di un’intrusione da parte di un mondo molto diverso e molto più vecchio. Il suo cuore cominciò a martellare nel petto, come se già gli fosse apparsa in quel momento la fortezza del nemico.

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