In alcune, rare occasioni, le persone che meglio conosciamo sono proprio quelle che ci appaiono totalmente fuori della realtà. Per un attimo i visi a noi più noti ci sembrano una combinazione arbitraria di superfici colorate, prive perfino di quell’ombra di personalità che attribuiamo anche a un passante appena intravisto.
Norman provò la sensazione di avere davanti a sé non più sua moglie, ma un ritratto di sua moglie. Era come se un Renoir o un Toulouse Lautrec dotati di magiche virtù avessero dipinto Tansy usando l’aria come tela. Le guance piatte erano rese con i toni più pallidi della carnagione e leggermente ombrate di verde; confluivano poi in un mento piccolo e insolente. Un tratto disinvolto aveva segnato su quel viso le labbra rosse dall’espressione meditativa. Gli occhi grigi (o verdi?) avevano un’espressione un po’ ironica e le sopracciglia erano soltanto un tratto scuro, neppure ondulato, diviso da un solco verticale in mezzo alla fronte. I capelli neri erano una pennellata infantile e sinistra che macchiava le zone bianche del collo scendendo fin sul vestito rosso vino. Colto alla perfezione, il gomito stringeva un pacco di sartoria, mentre due brutte manine si alzavano per togliere un cappelline anch’esso rosso vino, ornato di un piccolo ma vistoso gioiello di vetro argentato.
Se l’avesse toccata con la mano, pensò Norman, il dipinto sarebbe caduto a strisce dall’aria vuota come dal ritratto fantasma di un Dorian Gray femminile.
Rimase lì, stupito, a guardarla, col libro in mano e senza riuscire a dir nulla. Perlomeno non gli sembrò di aver parlato; ma, se l’avesse fatto, sapeva che la sua voce sarebbe risuonata come quella di un estraneo, come la voce di un qualche stupido professore.
Senza dir nulla, senza neanche mutare espressione, Tansy voltò i tacchi e uscì rapidamente dalla stanza da letto. Il pacco della sartoria cadde a terra. Ci volle un momento prima che Norman riuscisse a muoversi.
La raggiunse nel soggiorno, mentre si avviava verso l’ingresso. Quando Norman si rese conto che Tansy non si sarebbe né voltata né fermata, le passò un braccio intorno alla vita. E fu allora che lei reagì. Si dibatté con violenza, voltando il viso dall’altra parte, le braccia strette lungo il corpo come se fosse legata.
Con le labbra serrate e un tono di voce bassissimo, parve sputare le parole: «Non mi toccare!»
Norman si raddrizzò e prese solidamente appoggio sui piedi. C’era qualcosa di orribile nel modo in cui si divincolava, lanciandosi di qua e di là, tentando di liberarsi dalla stretta. Norman per un attimo immaginò una donna chiusa nella camicia di forza.
Continuava a ripetere con lo stesso tono: «Non mi toccare!» e lui implorava: «Ma Tansy…»
Improvvisamente cessò di opporre resistenza. Norman abbandonò la stretta e fece un passo indietro.
Lei però non si rilassava, rimaneva in piedi, rigida, col viso voltato da un lato e, per quel poco che Norman riusciva a vedere, con gli occhi nervosamente chiusi, le labbra strette. Un’analoga tensione invase anche lui e gli diede una stretta al cuore.
«Cara» le disse «mi vergogno di ciò che ho fatto. Non importa ciò che mi ha fatto scoprire. È stato un gesto meschino, vile, inutile, ma…»
«Non è per questo.»
Egli esitò.
«Vuoi dire che ti comporti così perché… insomma, perché ti vergogni di ciò che ho scoperto?»
Nessuna risposta.
«Ti prego, Tansy… è necessario che ne parliamo.»
Ancora nessuna risposta. Norman alzò scoraggiato la mano.
«Ma sono sicuro che non c’è niente di male, se vuoi dirmi… Tansy, ti prego…»
Lei non mutò atteggiamento, ma arricciò le braccia, facendo fischiare le sue parole: «Perché non mi prendi a frustate, non mi pungi le braccia con degli spilli… È così che si faceva un tempo, non è vero?»
«Tesoro, piuttosto che farti del male io sopporterei qualsiasi cosa. Ma questo è un argomento di cui dobbiamo assolutamente parlare.»
«Non posso. Se dici ancora una parola mi metto a strillare.»
«Cara, se lo potessi mi fermerei subito ma qui si tratta… Dobbiamo proprio parlare e spiegarci.»
«Preferirei morire.»
«Ma tu devi dirmi il perché… Devi proprio!»
Aveva alzato la voce.
Per un attimo credette che Tansy fosse svenuta. Mosse una mano per trattenerla, ma era solo perché il suo corpo si era improvvisamente rilassato. Tansy andò vicino alla sedia, lasciò cadere il cappellino sul tavolo e svogliatamente si mise a sedere.
«E va bene, parliamone.»
6.37 p.m. Gli ultimi raggi del sole tagliavano in due la libreria, sfioravano i denti rossi della maschera cinese, quella a sinistra. Tansy sedeva a un’estremità del divano, Norman all’altra, voltato verso di lei, col ginocchio sul cuscino, intento ad osservarla.
Tansy si voltò bruscamente, scuotendo il capo irritata, come se nell’aria il fumo delle parole fosse diventato denso oltre il sopportabile.
«Benissimo, e allora facciamo come vuoi tu. Io ho seriamente tentato di usare la magia nera. Ho fatto tutto ciò che una donna civile non dovrebbe mai fare. Ho cercato di gettare incantesimi sulle persone e sulle cose, ho tentato di cambiare il futuro, io ho… insomma tutta la filastrocca!»
Norman annuì con un leggero sussulto. Nello stesso modo si comportava in classe quando qualche ragazzo non troppo brillante pareva avesse afferrato finalmente, dopo ore di spiegazioni, l’oggetto stesso della discussione. Si chinò verso di lei.
«Ma perché lo hai fatto?»
«Per proteggerti, tu e la tua carriera.»
Aveva abbassato gli occhi e guardava fissa le sue ginocchia.
«Ma, sapendo tutto ciò che sapevi sul sottofondo delle superstizioni, come facevi a credere che…» La sua voce non squillava più, era fredda come quella di un legale.
Lei si voltò bruscamente. «Non lo so. Se la metti così… naturalmente… Ma, quando si desidera disperatamente che le cose accadano o non accadano in un certo modo alla persona che si ama… Io facevo ciò che milioni di altre persone hanno fatto. E poi, vedi, Norman, le cose che facevo, ebbene… pareva che funzionassero, perlomeno nella maggior parte dei casi…»
«Ma non capisci» continuò dolcemente «che sono appunto le eccezioni a dimostrare che le cose che tu facevi… non funzionavano? Che la loro riuscita era solamente il frutto di coincidenze?»
La voce di lei si alzò leggermente di tono. «Di questo io non so niente. Ci possono essere state influenze contrarie che…» Si voltò con slancio verso di lui. «Non so più neanch’io a che cosa credo. Non sono mai stata veramente certa che i miei sortilegi funzionassero. Non c’era modo di saperlo. Ma non capisci? Una volta che avevo cominciato non osavo più fermarmi!»
«E così sei andata avanti per tutti questi anni?»
Annuì con un’espressione imbarazzata. «Sin da quando siamo venuti a Hempnell.»
La guardò, cercando di capire. Non era possibile ammettere di punto in bianco che nella mente di quella ordinata, moderna creatura che lui conosceva così intimamente, si trovasse una zona immensa ch’egli non sospettava neppure, affine alle pratiche ormai scomparse che lui analizzava nei libri, una zona che apparteneva all’età della pietra ma non a lui, una parte immersa nell’oscurità, piegata dalla paura, sospinta da venti immani. Cercò di immaginare Tansy che mormorava incantesimi, che cuciva manine di flanella alla luce di una candela, che visitava cimiteri, e Dio sa quali altri luoghi in cerca di ingredienti. La sua immaginazione rifiutava di andare oltre. Eppure tutto era accaduto sotto i suoi occhi.
L’unico atteggiamento un po’ sospetto nel comportamento di Tansy, che egli riusciva a ricordare, era la sua mania di fare “una passeggiatina da sola”. Se mai gli fosse accaduto di chiedersi quale rapporto ci fosse tra Tansy e le superstizioni, non avrebbe fatto altro che rilevare con compiacimento che, pur essendo donna, Tansy era quasi immune da irrazionalità.
«Oh, Norman mi sento così confusa e infelice» interruppe lei. «Non so più che cosa dire e come cominciare.»
Norman aveva pronta la risposta, una tipica risposta da professore.
«Dimmi cos’è successo, cominciando dal principio.»
7.54 p.m. Erano sempre seduti sul divano. La stanza era quasi buia. Le maschere demoniache cinesi parevano ovali irregolari di tenebra. Norman non poteva scorgere l’espressione di Tansy, ma a giudicare dalla voce, il suo viso doveva essersi animato un poco.
«Aspetta un momento» la interruppe. «Mettiamo in chiaro certe cose. Tu dici che arrivando a Hampnell avevi paura di non adattarti al mio lavoro. Questo accadeva prima di fare quel viaggio nel Sud, con la borsa di studio Hazelton?»
«Oh, sì! Hempnell mi spaventava. Tutti erano così ostili e così tremendamente rispettabili. Io capivo di essere un disastro come moglie di professore. Me lo sono sentito dire in faccia. Non so chi fosse la peggiore delle due: Hulda Gunnison, che mi squadrava dall’alto in basso dicendomi: “Ma sì, penso che ce la farai”, quando commisi la sciocchezza di confidarmi con lei; oppure la vecchia signora Carr, che mi batteva sulla spalla dicendomi: “Sono sicura che tu e tuo marito sarete molto felici a Hempnell. Siete giovani, ma Hempnell ama la gente giovane”. Di fronte a quelle due donne io mi sentivo in pericolo, come la tua carriera.»
«Bene. E così, quando ti portai con me negli Stati del Sud, in mezzo alla zona più superstiziosa di tutta l’America, tu, esposta a quell’ambiente notte e giorno, eri matura per assimilare la sua allettante, magica sicurezza.»
Tansy rise senza convinzione. «Sul fatto della mia maturità non saprei che dire. Ma l’ambiente mi impressionò fortemente. Assorbii tutto quanto potei. Forse in fondo alla mia mente c’era questo strano ammonimento: un giorno potresti averne bisogno. Quando tornammo a Hempnell mi sentivo più sicura di me stessa.»
Norman assentì. Il ragionamento quadrava. A pensarci ora, c’era stato qualcosa di anormale nell’intenso, silenzioso entusiasmo con il quale Tansy si era immersa nel noioso lavoro di segretaria, subito dopo il loro matrimonio.
«Ma non hai mai tentato di fare dei sortilegi sul serio» continuò Norman «fino a quel giorno in cui mi ammalai di polmonite, quel primo inverno, non è vero?»
«Esatto. Fino a quel momento la magia nera era come una nube di pensieri vagamente rassicuranti, parole che mi sorprendevo a pronunziare svegliandomi nel bel mezzo della notte, gesti che evitavo intenzionalmente di fare perché portavano male, come per esempio scopare le scale all’imbrunire, incrociare coltelli e forchette. E poi, quando prendesti la polmonite… Che vuoi, quando una persona che si ama è vicina a morire, si tenta qualsiasi cosa.»
Per un attimo la voce di Norman assunse un tono comprensivo. «Naturalmente.» Poi tornò all’inflessione professorale. «Ma suppongo che solamente dopo quel mio dibattito con Pollard sull’argomento dell’educazione sessuale, dal quale uscii con onore, e specialmente dal momento in cui fu pubblicato il mio libro, nel 1931, e vi furono tante critiche favorevoli, tu cominciasti a credere che le tue pratiche magiche funzionassero davvero.»
«Esatto.»
Norman si appoggiò allo schienale. «Santo Iddio!» disse.
«Cosa c’è, caro? Non penserai che io voglia toglier ogni merito al successo incontrato dal tuo libro?»
Norman assunse un’espressione che mescolava il riso al ghigno. «Santo cielo, no! Ma…» si fermò. «Insomma questo è successo nel 1930. Va’ avanti, cos’è accaduto in seguito?»
8.58 p.m. Norman allungò il braccio e accese la lampada. Sussultò abbagliato, e Tansy nascose la faccia.
Lui si alzò e si massaggiò la nuca.
«Ciò che proprio mi sbalordisce, è il modo in cui questa faccenda ha invaso a poco a poco ogni più recondito angolo della tua vita, finché un bel momento tu non hai più potuto prendere alcuna decisione o lasciarmi prendere alcuna decisione, senza uno speciale incantesimo protettivo. È come…» Stava per dire: come una specie di paranoia.
La voce di Tansy era bassa e rauca. «Figurati che io allaccio i miei vestiti con ganci e occhielli anziché usare chiusure lampo, perché a quanto pare i ganci allontanano gli spiriti maligni. E quegli ornamenti fatti di frammenti di specchio… Ne porto sui cappelli, sui vestiti, sulle borsette… Hai proprio indovinato, sono talismani tibetani per allontanare il malocchio.»
Norman stava in piedi, ora, davanti a lei. «Senti, Tansy, ma perché hai fatto tutto questo?»
«Te l’ho detto.»
«Lo so, ma perché hai continuato, un anno dopo l’altro, quando per tua stessa ammissione, hai sempre sospettato che ingannavi te stessa e nient’altro? Lo capirei se si trattasse di un’altra donna, ma tu…»
Tansy esitò. «Ti sembrerò forse sentimentale, banale, sciocca; ma ho sempre avuto l’impressione che le donne fossero più primitive degli uomini, più vicine ai sentimenti antichi.» E disse velocemente: «E poi, ci sono delle cose che risalgono all’infanzia; pensieri strani e sbagliati che i sermoni di mio padre mi infondevano, storie che le donnette usano raccontare, allusioni…»
(Norman pensò: “E poi si dice una parrocchia di campagna, dalla sana atmosfera mentale, eccetera eccetera. Che errore!”)
«…E poi insomma, c’erano mille altre cose. Tenterò di spiegartele.»
«Benissimo» fece Norman posandole la mano sulla spalla. «Ma sarà meglio che mangiamo qualcosa mentre parliamo.»
9.17 p.m. Sedevano uno di fronte all’altra, nell’allegra cucina rossa e bianca. Sul tavolo c’erano i sandwich, neppure toccati, e due tazze di caffè, a metà bevute. Ovviamente la situazione fra i due si era capovolta. Ora era Norman ad avere lo sguardo perso nel vuoto e Tansy lo osservava preoccupata.
«Ebbene, Norman» riuscì infine a dire «pensi che io sia pazza o che lo stia diventando?»
Era proprio questa la domanda che aspettava. «No, credo di no» disse senza intonazione. «Sebbene, Dio sa cosa potrebbe pensare un estraneo se venisse a conoscenza di quello che hai fatto. Sono perfettamente sicuro che tu non sia pazza, e altrettanto sicuro che tu sia nevrotica, come lo siamo tutti. E la tua nevrosi ha preso una forma maledettamente insolita.»
Conscio a un tratto di essere affamato, egli afferrò un sandwich e cominciò a masticare mentre parlava, mordicchiando il bordo tutt’intorno prima di attaccare la parte centrale.
«Ascoltami, Tansy, tutti abbiamo i nostri rituali segreti, i nostri piccoli modi particolari di mangiare, di bere, di dormire e di andare alla toilette. Rituali dei quali siamo raramente consapevoli, ma se qualcuno li analizzasse parrebbero più che strani. Per esempio camminare o no sulle spaccature del marciapiede, e cose del genere. Io direi che i tuoi intimi rituali, date le circostanze particolari della tua vita, si sono mescolati con le pratiche di magia nera e ora non riesci più a distinguerli gli uni dagli altri.» Fece una pausa. «Ed ecco un punto molto importante: finché tu sola sapevi di eseguire dei rituali, non potevi criticare spontaneamente il tuo vincolo con la magia, così come nessuno critica la propria formula per addormentarsi. Non vi è conflitto sociale.»
Cominciò a camminare su e giù, mangiando il suo sandwich.
«Sant’Iddio! E pensare che ho passato metà della mia vita a indagare sul come e sul perché gli uomini e le donne sono superstiziosi. Avrei dovuto accorgermi che questi studi avevano avuto su di te un effetto contagioso. Cos’è la superstizione se non una scienza fuorviata, non obiettiva? D’altra parte perché meravigliarsi se la gente si aggrappa alla superstizione, in questo mondo di oggi, marcio, pieno di odio e già condannato a finire? Dio solo sa se accoglierei con piacere la più oscura delle magie nere, qualora questa potesse far qualcosa per allontanare il pericolo della bomba atomica.»
Tansy si era alzata, gli occhi stranamente lucidi e spalancati. «E allora» balbettò «francamente tu non mi odi, e non pensi che sto impazzendo?»
L’abbracciò. «No, perbacco!»
Tansy scoppiò in lacrime.
9.33 p.m. Erano tornati sul divano. Tansy non piangeva più, ma teneva sempre il capo appoggiato sulla spalla di Norman.
Per un istante rimasero lì, tranquilli, poi Norman riprese il discorso col tono pacato di un dottore che spiega al suo paziente che purtroppo dovrà sottostare a un’altra operazione.
«Naturalmente, tu smetterai subito.»
Tansy si alzò bruscamente. «Oh no! Norman non potrei!»
«E perché no? Hai ammesso in questo momento che era tutta una sciocchezza. Hai appena finito di ringraziarmi per averti aperto gli occhi.»
«Lo so, eppure… Non mi obbligare, Norm.»
«Andiamo Tansy, sii ragionevole. Fino a questo momento ti sei comportata da persona adulta. Sono fiero di te; ma capirai benissimo che non ti puoi fermare a metà strada. Una volta che ti sei resa conto della tua debolezza, logicamente, devi perseverare. Devi buttar via tutte quelle cianfrusaglie del tuo spogliatoio, tutti i talismani e portafortuna che hai nascosto ovunque. Tutto, tutto.»
Scosse la testa. «Non mi obbligare, Norman» ripeté. «Non tutto in una volta. Mi sentirei spogliata.»
«Non ti sentirai affatto spogliata, ti sentirai più forte. Perché ti accorgerai che tutto ciò che attribuivi alla magia era invece frutto della tua personale abilità.»
«No, Norman, perché mi dovrei fermare? Cosa importa, ora? Hai detto tu stesso che era una sciocchezza, una specie di mio rituale segreto.»
«Ora che lo so anch’io non è più segreto. E in ogni caso» aggiunse con tono minaccioso «è un rituale perlomeno insolito.»
«Ma non potrei smettere poco per volta?» Tansy lo implorava come un bambino. «Vedi, mi limiterei a non aggiungere altri talismani, ma lascerei quelli vecchi in giro.»
Norman scosse la testa. «No» le disse «è come smettere di fumare o di bere. Bisogna cessare totalmente.»
La voce di Tansy si alzò di tono.
«Ma Norman, io non posso. Ti assicuro, non posso proprio.»
Egli sentì che sua moglie era veramente una bambina. «Tansy, tu lo devi fare.»
«Ma non c’è mai stato nulla di malefico nella mia magia». La sua infantilità diventava preoccupante. «Non l’ho mai usata a danno di nessuno, né per chiedere cose irragionevoli, come ad esempio farti diventare preside di Hempnell dall’oggi al domani. Io ti volevo solamente proteggere.»
«Ma che differenza c’è?»
Il petto della ragazza era scosso da lunghi sospiri. «Norman, io ti dico che non rispondo più di ciò che ti potrà capitare se mi obblighi a togliere tutte le scaramanzie che ho seminato in giro.»
«Tansy, sii ragionevole. Come puoi credere che io abbia bisogno di protezioni di questo genere?»
«Allora tu credi che tutto ciò che hai avuto di buono nell’esistenza sia unicamente il frutto della tua sola abilità? Non trovi nella tua vita nessun elemento di fortuna?»
Gli venne in mente che lo aveva pensato anche lui, proprio quel pomeriggio, e la cosa lo irritò moltissimo. «Ora sentimi, Tansy…»
«E tu pensi che tutti ti amino, che ti augurino ogni bene, non è vero? Pensi che tutte quelle belve, sì, dico, la gente di Hempnell, siano soltanto un gruppo di gattini dagli artigli rientrati? Sorvoli sulla loro invidia, sulle gelosie, che ritieni trascurabili, troppo in basso perché tu li noti… Ma lascia che ti dica…»
«Tansy, non gridare!»
«…Che molta gente a Hempnell vorrebbe vederti morto, avrebbe voluto vederti morto da un pezzo, se fosse stato in suo potere.»
«Tansy!»
«Quali sentimenti credi che nutra per te Evelyn Sawtelle, nel vedere che stai per superare suo marito nella corsa alla cattedra di sociologia? Cosa credi, che ti voglia rimpinzare di dolci per questo? Magari una delle sue torte al cioccolato con le ciliegine? Pensi che Hulda Gunnison sia soddisfatta dell’influenza che hai acquistato su suo marito? È colpa tua, se lei non spadroneggia più nell’ufficio del preside. In quanto a quella cagna libidinosa della signora Carr, credi che le piaccia quella tua politica di libertà e franchezza che hai adottato con gli studenti, politica che fa a pugni con la sua sacrosanta rispettabilità del tipo il sesso è soltanto una brutta parola e tutto il resto? Cosa credi che quelle donne abbiano sempre fatto per i loro mariti?»
«Oh Dio! Tansy, perché tirare in ballo queste vecchie rivalità universitarie?»
«E tu credi che quelle si fermino alle sole pratiche di protezione? Immagini che donne come quelle possano distinguere fra magia bianca e magia nera?»
«Tansy, non sai ciò che dici. Se vuoi alludere… Tansy, quando parli a quel modo, mi sembri veramente una strega.»
«Ah, davvero?» Per un attimo ebbe un’espressione così tesa che il suo viso pareva solo un teschio.
«E forse lo sono. Ed è forse una fortuna per te che lo sia stata.»
L’afferrò per un braccio. «Ascoltami, sono stato paziente con te riguardo a tutta questa balordaggine da ignoranti; ma ora mi fai il piacere di usare il buon senso, e di usarlo subito.»
Le labbra di Tansy si arricciarono. «Capisco. Finora hai usato il guanto di velluto, ed ora sfoggerai la mano di ferro. E se non ti ubbidisco, mi spedisci al manicomio. È così?»
«No, cara. Ma tu devi mettere giudizio.»
«Ebbene, io mi rifiuto.»
«Ascolta, Tansy…»
10.13 p.m. La trapunta ripiegata sobbalzò quando Tansy si gettò sul letto. Altre lacrime avevano rigato e arrossato il suo volto, poi si erano asciugate. «D’accordo» disse con voce imbronciata. «Farò come vuoi tu. Brucerò tutte le mie cose.»
Norman si sentì sollevato. Pensò improvvisamente: “E dire che ho avuto il coraggio di fare tutto questo senza l’aiuto di uno psichiatra”.
«Più di una volta mi è venuta voglia di smettere» aggiunse dopo un po’. «E più di una volta ho desiderato smettere di essere una donna.»
Le ore che seguirono furono per Norman qualcosa di totalmente diverso dall’eccitazione precedente. Prima di tutto si trattò di rovistare lo spogliatoio di Tansy per scovare talismani nascosti e altre cianfrusaglie. A Norman vennero in mente le vecchie commedie del cinema muto, nelle quali si vedevano decine e decine di persone uscire tutte da un solo taxi. Pareva impossibile che pochi cassetti e qualche vecchia scatola da scarpe potessero riempire tanti cestini della carta straccia. Sull’ultimo di questi egli gettò la sua vecchia copia di Parallelismi e prese in mano il diario di Tansy, un libriccino rilegato in pelle. Lei scosse la testa con gesto rassicurante. Dopo una leggera esitazione, Norman lo ripose senza aprirlo.
Poi venne il resto della casa. Tansy correva sempre più svelta, di stanza in stanza, per recuperare manine di flanella dall’imbottitura delle sedie, da sotto i piani dei tavoli, nell’interno dei vasi, finché Norman si meravigliò di aver vissuto in quella casa per più di dieci anni senza mai imbattersi in uno di questi amuleti.
«Sembra quasi una caccia al tesoro, non ti pare?» disse lei con un sorriso malinconico.
C’erano amuleti anche fuori, sotto i gradini dell’ingresso, e alla porta di servizio, nel garage, nella macchina. A ogni manciata di rifiuti che gettavano nel fuoco crepitante acceso nel caminetto del soggiorno, Norman provava un sollievo sempre maggiore. Finalmente Tansy scucì i guanciali del suo letto, e ripescò due piccole figurine fatte di penne intrecciate, legate con filo sottile, che si erano amalgamate con la piuma contenuta nel guanciale.
«Vedi, una delle due è un cuore, l’altra è un’ancora. Assicurano protezione. È la magia delle piume, quella di New Orleans. Non hai fatto un solo passo, questi anni, senza trovarti nel raggio d’azione di uno dei miei amuleti»
Le figurine di penna divamparono nelle fiamme.
«Ecco fatto» gli disse. «Non senti niente? Nessuna reazione?»
«No» disse lui. «Perché? Avrei dovuto…»
Tansy scosse il capo. «È solo perché questi due erano gli ultimi. E così, se ci fossero in giro forze ostili che i miei talismani tenevano a rispettosa distanza…
Norman rise con indulgenza. Subito dopo la sua voce tornò a farsi dura. «Sei proprio sicura di averli distrutti tutti? Di non averne dimenticato qualcuno in giro?»
«Assolutamente certa. In casa, o vicino a casa, non ce n’è rimasto uno solo, Norm, e non ne ho mai piantati in altri posti perché temevo… insomma, temevo le interferenze. Li ho contati tutti, nella mia mente, decine di volte, e ora sono tutti andati…» guardò il fuoco «puff! Ora» disse quietamente «mi sento stanca, veramente stanca. Voglio andare subito a letto.»
Di colpo scoppiò a ridere. «Ma prima, devo ricucire quei guanciali; se no, troveremo delle piume dappertutto.»
Le mise il braccio intorno al collo. «Va bene, ora?»
«Sì, tesoro» gli rispose. «Una sola cosa ancora vorrei chiederti. Di non parlarne per un po’ di giorni, almeno. Neanche un’allusione. Sento che non potrei… Me lo prometti?»
La strinse a sé. «Assolutamente, cara. Stanne certa.»