13

Il conduttore dell’autobus al quale lo avevano indirizzato nel New Jersey era un tipo robusto, con lo sguardo assonnato, ma un’espressione d’uomo in gamba. Era appoggiato al muro e fumava una sigaretta.

«Certo, dev’essere stata nella mia corriera» disse a Norman dopo un attimo di riflessione. «Una donna carina, piuttosto del tipo piccolino, con un abitino grigio e una spilla come quella che mi avete descritto, una valigetta di cinghiale leggero. Mi sono immaginato che andasse a vedere una persona molto malata, o che fosse stata coinvolta in un incidente, forse…»

Norman frenò la sua impazienza. Se non fosse stato per quella mezz’ora di ritardo fuori Jersey City, il treno sarebbe arrivato prima della corriera anziché venti minuti dopo di essa.

«Se fosse possibile, vorrei avere un’idea di dove sia andata dopo che ha lasciato la vostra corriera. L’impiegato dell’agenzia non mi ha saputo dir nulla.»

Il conducente guardò Norman ma non gli chiese: “per quale motivo desiderate saperlo?” e Norman gliene fu grato. Pareva soppesare Norman e gli disse: «Non ne sono sicuro al cento per cento, signore, ma c’era un autobus locale che portava al mare. Penso abbia preso quello.»

«Ferma a Bayport?»

Il conducente fece un cenno di assenso.

«Da quanto tempo è partito?»

«Da circa venti minuti.»

«Potrei arrivare a Bayport prima dell’autobus? Con un taxi?»

«Probabilmente sì. Se lei è disposto a pagare anche la corsa di ritorno e qualcosa di mancia, penso che Alec la possa portare.»

Indicò un uomo seduto in un taxi accanto alla stazione. «Però, signore, io non sono certo che quella signora abbia preso l’autobus che porta alla spiaggia.»

«Va bene, non importa, grazie molte.»

Nel chiarore del lampione stradale, gli occhi volpini di Alec erano più incuriositi di quelli dell’autista della corriera; ma non fece alcun commento.

«Si può fare» disse con slancio «salga su, non c’è tempo da perdere.»

L’autostrada del mare attraversava tratti solitari di palude e di terre incolte. Norman talvolta udiva il fruscio sibilante delle canne altissime e, fra il puzzo delle industrie, distingueva talvolta il tanfo salmastro delle piccole baie attraversate da lunghi pontili bassi, l’odore caratteristico di Bayport.

Riconobbe le fabbriche, le raffinerie di petrolio, le case sparse.

Sorpassarono tre o quattro autobus senza che Alec facesse alcun commento. Stava attento alla strada. Disse dopo un po’: «Questo autobus dovrebbe essere il suo.»

Una costellazione di luci posteriori, verdi e rosse, svaniva oltre la salita. «Siamo circa a tre miglia da Bayport» continuò. «Che cosa facciamo?»

«Arrivi a Bayport un po’ prima dell’autobus, e si fermi alla stazione delle corriere.»

«Okay.»

Raggiunsero e sorpassarono l’autobus. I finestrini erano troppo alti perché Norman potesse vedere gli occupanti. Per di più, le luci interne erano spente.

Quand’ebbero sorpassato, Alec disse: «Era proprio quello.»

La stazione delle corriere di Bayport si trovava nel deposito ferroviario. Vagamente Norman ricordava le banchine dalle assi pericolanti, le scorie accumulate nelle giunture degli assi e le rotaie della ferrovia. Il deposito era più piccolo e più malandato di come lo ricordava, sebbene fosse riuscito a conservare gli ornamenti di legno intagliato che risalivano ai tempi in cui Bayport era stata la spiaggia di ritrovo dei cittadini ricchi di New York. Le finestre del deposito erano scure, diverse automobili e un unico taxi locale vi erano parcheggiati. Alcuni uomini formavano una cerchia e parlavano a bassa voce. C’erano uno o due militari, del Forte Monmouth nella vicina Sandy Hook, probabilmente.

Ebbe il tempo di fiutare l’aria salsa, con la sua leggera ma non spiacevole traccia di odore di pesce. Poi l’autobus si fermò.

Alcuni passeggeri scesero e si guardarono in giro per cercare la gente venuta ad aspettarli.

Tansy fu la terza a scendere. Guardava fisso davanti a sé. Aveva in mano la valigia di cinghiale.

«Tansy» le disse.

Lei non lo guardò. Norman notò una macchia larga e scura sulla mano destra e ricordò l’inchiostro rovesciato sul tavolo dello studio.

«Tansy» ripeté. «Tansy!»

Lei gli passò vicino, così vicino che la sua manica sfiorò il braccio di Norman.

«Tansy, cos’hai? Che ti succede?»

Si era voltata e lui le corse dietro. Si dirigeva verso il taxi locale. Norman sentì che la gente faceva silenzio e lo guardava senza simpatia.

Questo lo irritò. Non si fermò a riflettere. La afferrò per un gomito e la fece voltare. Udì dietro di lui un mormorio di sdegno.

«Tansy, non fare così, smettila Tansy!»

Il suo viso era impietrito. Guardava Norman senza vederlo, senza riconoscerlo.

La cosa lo fece infuriare. Non ci pensò due volte. La tensione che si era accumulata in lui esplose, la prese per i gomiti e la scosse. Lei continuava a guardare oltre, completamente estranea, la perfetta immagine di una aristocratica signora che subisce maltrattamenti. Se avesse reagito e gridato i presenti non sarebbero intervenuti.

Lo tirarono indietro.

«La lasci stare.»

«Ma chi crede di essere?»

Lei rimaneva eretta, pazzamente indifferente. Notò che teneva in mano un pezzetto di carta. In quel momento lo sguardo di Tansy si incrociò con quello di Norman e lui credette di leggervi la paura. Provò un leggero, strano fremito, come se qualcosa fosse passato dagli occhi di lei in quelli di lui. Simultaneamente al brivido e al rizzarsi dei suoi capelli, gli parve di vedere, dietro di lei, per un attimo solo, una figura scapigliata, nera, alta due volte quanto lei, larga di spalle, le mani protese, gli occhi fissi e luminescenti.

Fu però un attimo. Quando voltò le spalle era sola, sebbene, egli pensò, l’ombra di lei sul muro del deposito fosse ingrandita sino a un’altezza che la posizione del lampione stradale non giustificava. Fu subito attorniato e perdette di vista Tansy.

In una specie di sogno (perché il tipo di allucinazione che aveva provato in quel momento non si fondeva con altro tipo di emozione) li udì che lo insultavano. «Lei merita la frusta» diceva una delle voci.

«Faccia pure» rispose Norman «tanto mi tengono le mani.»

Udì la voce di Alec che diceva: «Cosa succede laggiù?» La sua voce era prudente, ma non ostile, come se stesse riflettendo. «Quello è il mio cliente, ma non so nulla di lui.»

Uno dei militari disse: «Dov’è la signora? Non mi pare si sia lamentata di nulla.»

«Già, dov’è?»

«È salita sul taxi di Jake ed è andata via» qualcuno disse.

«Forse quell’uomo aveva le sue ragioni per agire in quella maniera» osservò il soldato.

Norman sentì che la folla cambiava atteggiamento.

Uno degli uomini che lo teneva fermo rispose: «Nessuno ha diritto di trattare una signora a quel modo.» Ma l’altro allentò la stretta e chiese a Norman: «Sentiamo un po’, lei aveva un motivo per comportarsi così?»

«Sì, ma è affar mio.»

Una donna dalla voce acuta disse: «Tanto trambusto per nulla.» Ed un uomo molto ironicamente: «…fra moglie e marito…»

Brontolando i due uomini lo lasciarono andare.

«Ma l’avverto» disse il più bellicoso dei due «che se la signora si fosse lamentata, ero pronto a suonargliele.»

«Va bene, me le avrebbe suonate» disse Norman. Cercava con lo sguardo quel pezzetto di carta.

«Nessuno può dirmi che indirizzo ha dato all’autista del taxi?» chiese in giro.

Una o due delle persone presenti scossero la testa. Le altre fecero finta di non sentire. I loro sentimenti di ostilità non si erano raddolciti al punto di collaborare con lui. E molto probabilmente, nel trambusto, nessuno aveva udito quell’indirizzo.

In silenzio la piccola folla si diradò. La gente aspettò di essere fuori portata di voce prima di cominciare a discutere sull’accaduto. La maggior parte delle automobili se ne andò. I due soldati si sedettero sulle panchine davanti al deposito per aspettare il loro treno o il loro autobus.

Norman era solo, con Alec.

Trovò il ritaglio di carta di Tansy in una fessura fra due assi: era quasi passato dall’altra parte.

Lo portò vicino al taxi e si mise a studiarlo.

Udì Alec che diceva: «E ora, dove andiamo?» disse in tono dubitativo.

Consultò l’orologio. Le dieci e trentacinque. Mancava meno di un’ora e mezzo a mezzanotte. Poteva intraprendere tante cose per rintracciare Tansy, ma in quel momento non poteva tentarne più di un paio. I suoi pensieri procedevano con fatica, quasi con dolore, come se quella cosa che egli aveva visto dietro Tansy avesse ferito il suo cervello.

Gettò uno sguardo sui tristi edifici. I lati a mare di alcuni lampioni stradali mostravano ancora tracce di pittura nera, dei tempi di guerra in cui vigeva l’oscuramento delle coste. Una delle strade laterali era abbastanza animata. Guardò il pezzo di carta.

Pensò a Tansy. La pensò intensamente. Si trattava di sapere che cosa fosse più utile fare per lei, o che cosa il suo profondo affetto, la profonda solidarietà per lei, gli avrebbero dettato. Poteva rincorrerla su e giù sul lungomare, lungo le rotaie della ferrovia, ma chissà dove il suo taxi l’aveva mai portata… Poteva ritrovare l’antico pontile dove andavano da giovani a fare il bagno e tentare di aspettarla laggiù. O poteva aspettare che il taxi che lei aveva preso tornasse indietro. Poteva anche andare al commissariato di polizia, dire che sua moglie voleva suicidarsi, chiedere loro di aiutarlo nelle sue ricerche.

Ma gli venivano in mente altri pensieri. L’ammissione di Tansy di aver usato la magia. L’ultima manina protettiva che aveva bruciato, le improvvise telefonate di Jennings e della Van Nice, l’ostilità e le indesiderabili rivelazioni che lo avevano perseguitato in collegio. Ricordò il tentativo di omidicio di Jennings, la registrazione della raganella, la fotografia del drago, i pupazzi raffiguranti i personaggi dei tarocchi. Pensò alla morte di Totem, al fulmine dai sette rami, alle sue crisi di autolesionismo, ai suoi propositi suicidi. Pensò alle allucinazioni che aveva avuto da ubriaco, a quella cosa che lo aveva afferrato alle spalle e gli aveva tappato la bocca. Pensò all’allucinazione di pochi minuti prima quando aveva visto quell’ombra dietro Tansy.

E si decise.

«Dovrebbe esserci un albergo, nella via principale di Bayport» disse ad Alec. «Mi porti lì.»

Загрузка...