Avevano appena riordinato i resti di una cena affrettata quando si udì il primo trillo del campanello. Con gran sollievo di Norman, Tansy aveva accettato senza far domande la spiegazione poco convincente del suo ritardo. Vi era qualcosa di strano, però, nella serenità che sua moglie aveva ostentato in questi ultimi giorni. Generalmente era più curiosa, più acuta. Naturalmente lui aveva badato a nasconderle gli incidenti preoccupanti e si riteneva soddisfatto di vedere che Tansy aveva dei nervi robusti.
«Tesoro! Sono secoli che non ti vediamo» disse la signora Carr, abbracciando e accarezzando Tansy. «Come stai? Come stai?» La domanda aveva un tono di curiosità particolarmente incisivo. Norman lo addebitò alla tipica aggressività Hempnelliana. «Oh Dio!» continuò la signora Carr «temo di avere un granello di polvere nell’occhio, il vento sta diventando atroce.»
«Violento» corresse il professor Carr, che insegnava matematica. Provava un’innocua soddisfazione a trovare sempre il termine appropriato per ogni cosa. Era un ometto piccolino con le guance rosse e una barbetta bianca a punta, ingenuo e distratto come si presume siano tutti i professori di collegio universitario. Dava l’impressione di vivere in un paradiso tutto speciale, fatto di numeri trascendentali e dei geroglifici della logica simbolica che egli manipolava con un’abilità che gli era valsa una fama non indifferente fra i matematici americani. Anche se Russel e White avevano inventato quei geroglifici, quando si trattava di manipolarli, di amare, coccolare quella esasperante, misteriosa materia, Carr era il primo dei prestigiatori.
«Mi pare se ne sia andato» disse la signora Carr, rifiutando il fazzoletto di Tansy e muovendo varie volte le palpebre sugli occhi rimasti spiacevolmente nudi fino al momento in cui calzò nuovamente le sue spesse lenti. «Ah, ecco gli altri!» disse mentre il campanello squillava nuovamente. «Non è stupendo che tutti siano così puntuali, a Hempnell?»
Mentre Norman andava ad aprire immaginò, in un attimo di pazza fantasia, che qualcuno stesse roteando una raganella fuori della porta, poi realizzò che era solo il vento che si stava adeguando alla definizione del professor Carr.
Si vide davanti Evelyn Sawtelle, con la sua figura angolosa, e il vento che le sbatteva il soprabito nero sulle gambe. Il viso, ugualmente angoloso, con gli occhi a succhiello, era proteso verso di lui.
«Mi faccia entrare, o il vento ci spingerà dentro a forza» gli disse. Tutti i suoi tentativi di essere spiritosa non sortivano mai alcun risultato, forse perché, uscendo dalla sua bocca, tutto pareva così stupidamente cupo.
Entrò, con Hervey a rimorchio, e puntò direttamente su Tansy.
«Cara, come stai? Cos’hai fatto tutto questo tempo?»
Norman fu di nuovo colpito dal tono inquisitorio della domanda. Per un secondo si chiese se quella donna avesse intuito qualcosa della mania di Tansy e della sua recente crisi. Ma la signora Sawtelle quando parlava ascoltava solo la propria voce, perciò dava un tono così enfatico a ogni parola.
Ci fu un rumoroso intreccio di saluti. Totem miagolò e fuggì come una freccia fuori dai piedi. La voce della signora Carr si udì al di sopra delle altre, con i suoi toni acuti da adolescente.
«Professor Sawtelle, le volevo dire quanto ci è piaciuta la sua conferenza sulla pianificazione della città. Era veramente molto significativa» Sawtelle si agitò tutto.
Norman pensò: “Allora è lui il preferito per la cattedra”.
Il professor Carr si diresse ai tavolini da gioco e si mise ad accarezzare distrattamente le carte.
«Ho studiato le probabilità matematiche del mazzo di carte» disse con l’occhio lucido, appena Norman fu a portata di voce. «Si ritiene che battendo le carte e rimescolandole, il gioco diventi una questione di fortuna o sfortuna. Ma non è vero affatto». Tolse la fascetta da un pacco di carte nuove e stese le carte sul tavolo.
«Il fabbricante dispone queste carte per seme… tredici quadri, tredici picche, tredici cuori, e così via. Ora supponi che io rimescoli perfettamente le carte, cioè divida il pacco di carte in parti uguali e alterni le carte a una a una.»
Tentò una dimostrazione ma le carte gli scivolarono di mano.
«Non è così difficile come sembra» continuò senza scomporsi. «Alcuni giocatori ci riescono ogni volta, in un battibaleno. Ma non è questo il punto. Immagina che io rimescoli due volte in modo perfetto le carte di un pacco nuovo. Ecco che, indipendentemente dal modo con cui sono state tagliate le carte, ogni giocatore riceverà tredici carte di un solo seme, il che, secondo la legge della probabilità, accadrebbe solo una volta in centocinquantaquattro miliardi di combinazioni, per una sola mano trascurando le altre tre.»
Norman annuì e Carr sorrise deliziato.
«Questo è soltanto un esempio. In fondo si tratta di questo: ciò che noi chiamiamo fortuna è in realtà il risultato di diversi fattori perfettamente definiti, fra l’altro e soprattutto il modo di giocare le carte di ogni mano, e la maniera tipica di battere le carte di ogni giocatore.» Dal modo come lo diceva sembrava tanto importante quanto la teoria della relatività «Certe volte le serie sono molto comuni, altre volte sono sempre più strane man mano che va avanti il gioco: lunghe sequenze, mancanza assoluta di un seme, e così via. Alcune sere le buone carte sono tutte al nord e al sud, altre sere all’est e all’ovest. Caso? Fortuna? Niente affatto. È il risultato di cause note. Alcuni giocatori molto esperti fanno senz’altro tesoro di questo principio per determinare l’ubicazione probabile delle carte. Ricordano come sono state giocate le mani nell’ultimo giro, come sono state riunite le carte per rifare il mazzo, ricordando che la maniera di mescolare influisce sul ridisporre le carte e interpretano questi dati secondo le chiamate e gli attacchi del giro successivo. Ecco, è semplicissimo. Voglio dire, sarebbe semplicissimo per uno di quei giocatori di scacchi che giocano con gli occhi bendati. Logicamente ogni giocatore di bridge…»
La mente di Norman cominciò a distrarsi… Se si applicasse questo principio fuori del bridge? Se le coincidenze o altri eventi inaspettati non fossero dovuti al caso come invece sembrano? Supponiamo ci siano individui particolarmente dotati per la chiamata e l’attacco. Ma questa era un’idea logica… non vi era nulla in essa da suscitare quel brivido che lui aveva provato.
«Mi chiedo perché i Gunnison non siano ancora arrivati» osservò il professor Carr «Si potrebbe cominciare subito con un tavolo di bridge. Si riuscirebbe forse a fare una partita in più.»
Il suono del campanello mise fine all’attesa.
Gunnison aveva l’aspetto di chi ha buttato giù la cena troppo in fretta, e Hulda pareva di cattivo umore.
«Abbiamo dovuto fare tutto in fretta» brontolò, mentre Norman teneva aperta la porta. Come le altre due donne, la signora Gunnison quasi lo ignorò e concentrò i suoi saluti su Tansy. Il che diede a Norman un senso di disagio che gli ricordava i primi mesi a Hempnell e le visite ai membri della facoltà, visite che avevano messo i suoi nervi a dura prova. Tansy appariva in posizione di svantaggio, disarmata di fronte a quelle tre megere dai modi aggressivi.
“E con questo?” si disse. Era una cosa normale, per le mogli dei professori di Hempnell. Si comportavano sempre come se passassero le notti a meditare per eliminare ogni ostacolo che si frapponesse fra il proprio marito e il seggio di preside.
Mentre Tansy… Ma era proprio ciò che Tansy aveva fatto, o piuttosto ciò che Tansy diceva che quelle tre stessero facendo. Lei non lo aveva mai fatto, aveva soltanto… Norman sentì che i suoi pensieri cominciavano a vorticare paurosamente e cambiò strada.
Stavano sorteggiando i compagni di tavolo.
Le carte parvero confermare la teoria di Carr. Le mani erano uniformemente mediocri, anormalmente medie. Nessuna lunga sequenza, nient’altro che una comune distribuzione: 4-4-3-2 e 4-3-3-3. Si annunciava una presa se ne facevano due, si annunciavano due prese, si andava sotto di una.
Dopo il secondo giro Norman ricorse al suo personale rimedio contro la noia, il gioco della ricerca del carattere primitivo, da giocarsi da solo, segretamente. Era un esercizio adatto all’immaginazione di un etnologo. Si partiva dal presupposto che la gente intorno a sé apparteneva a una razza barbarica, e ci si figurava in quale maniera la personalità di ognuno si sarebbe manifestata su quello sfondo ambientale.
Questo gioco stasera funzionava fin troppo bene. Per gli uomini, nulla di speciale. Gunnison, naturalmente poteva essere un prosperoso capo tribù. Forse sarebbe stato in quel ruolo un po’ più grasso di adesso, servito a puntino da giovani fanciulle, ma con una moglie gelosa e vendicativa pronta ad aggredire chiunque. Carr poteva essere il cestaio, un ometto anziano e vivace dal sorriso un po’ scimmiesco, che intesseva fibre di paglia secondo tradizionali figure matematiche. Sawtelle sarebbe stato naturalmente il capro espiatorio della tribù, bersaglio di infiniti e malvagi scherzi.
Ma le donne!
Ad esempio, la signora Gunnison, che gli era compagna nel gioco. La si poteva immaginare con la pelle scura, lasciarle la zazzera rossa, intrecciare alcuni ornamenti di rame nei capelli. L’essere più robusto che si potesse immaginare, una vera montagna di carne, più forte della maggior parte degli uomini della tribù, capace di maneggiare la lancia e la clava. Lasciarle quegli occhi di bruto, allungarle il labbro inferiore facendolo sporgere in modo da darle un’espressione più apertamente accigliata e prepotente. Era fin troppo facile immaginare come avrebbe trattato le povere ragazze alle quali suo marito avrebbe mostrato di interessarsi. O come gli avrebbe imposto di seguire quella o questa politica tribale, appena soli nella loro capanna. O come la sua voce tonante avrebbe intonato gli inni di morte con i quali le donne aiutavano gli uomini impegnati in guerre lontane.
Ora le altre due. La signora Sawtelle e la singora Carr si erano portate al tavolo “dei campioni”, con lui, Norman, e con la moglie di Gunnison. Vediamo ora la signora Sawtelle. Immaginarla più magra ancora, segnare le guance con gli sfregi tribali. Tatuare la spina dorsale. Una strega, cattiva come la scorza del chinino perché aveva un marito incapace. Figurarsela mentre si agita con un feticcio tempestato di chiodi, mentre vocifera incantesimi e strappa la testa a un gallo.
«Attento, Norman! Non tocca a lei» disse la signora Gunnison.
«Mi scusi.»
E la signora Carr: spettinarla un poco, lasciarle soltanto poche ciocche di capelli bianchi sul cranio pallido come una pergamena. Toglierle gli occhiali e lasciare apparire i suoi occhi sporgenti. Si guarderebbe in giro senza veder nulla, a causa della sua miopia. Sorriderebbe con una bella bocca sdentata, alzando le braccia ossute. Una brava, innocua vecchietta, che raccoglierebbe intorno a sé i ragazzi della tribù (sempre quella sua sete di gioventù) per raccontar loro le vecchie leggende. Ma la sua mascella sarebbe sempre in grado di scattare come una trappola d’acciaio, le sue mani ad artiglio si muoverebbero agilmente per applicare il veleno sulle frecce, e non avrebbe veramente bisogno di una buona vista perché possiederebbe altri mezzi per vedere le cose, e perfino il più coraggioso dei guerrieri si sarebbe sentito a disagio se l’avesse guardata troppo a lungo.
«Quei campioni, al tavolo numero uno sono terribilmente silenziosi» disse Gunnison sorridendo. «Devono giocare molto seriamente.»
Streghe, streghe tutt’e tre, impegnate a spingere i loro mariti al vertice della gerarchia tribale.
Nell’arco della porta, all’altra estremità della stanza, la gatta, Totem, li osservava con aria curiosa, come se anch’essa valutasse un’analoga eventualità.
Ma Norman non riusciva a collocare Tansy nel quadro. La poteva immaginare fisicamente diversa, con i capelli crespi e degli anelli alle orecchie, un tatuaggio sulla fronte. Ma non riusciva a immaginarsela come un membro della stessa tribù. Nella sua fantasia, lei continuava a essere un’estranea, una prigioniera, che il resto della tribù guardava con sospetto e con odio.
O forse apparteneva a quella stessa tribù, ma aveva commesso qualche infrazione, tradito la fiducia delle altre donne. Una specie di sacerdotessa che ha violato un tabù. La strega che ha rinunciato alla stregoneria.
A un tratto il suo campo visivo si concentrò sul blocchetto segna-punti. Evelyn Sawtelle vi stava disegnando distrattamente degli ometti di aste, mentre la signora Carr meditava su un’uscita. Il primo pupazzo era quello di un uomo con le braccia alzate e con tre o quattro palline al disopra del capo, una specie di giocoliere. Poi veniva la figura, sempre fatta di aste, di una regina, poi una specie di L rovesciato dal quale pendeva una figura rigida. Una forca. Finalmente un grossolano carretto fatto di un rettangolo e di due ruote, di fronte a un uomo che alzava le braccia dalla paura.
Erano soltanto cinque scarabocchi, ma Norman sapeva che quattro di essi si ricollegavano a qualcosa che non ricordava sul momento, ma che giaceva in fondo alla sua memoria. Uno sguardo al morto gli fornì la risposta.
Carte.
Ma questa cognizione si riferiva all’antica storia delle carte, quando tutto il mazzo era una fonte di magia, quando vi era un cavaliere fra il fante e la regina, quando i semi erano spade, bastoni, coppe e denari, e quando vi erano ventidue tarocchi speciali, o carte, per indovinare il futuro, delle quali soltanto il Joker era rimasto.
Che Evelyn Sawtelle possedesse cognizioni di cose tanto remote come le carte dei tarocchi? E così bene da scarabocchiarle distrattamente? Quella stupida manierata, convenzionale Evelyn Sawtelle? Era impensabile, eppure… Quattro carte del mazzo di tarocchi, rappresentavano un giocoliere, l’imperatrice, una torre e l’impiccato.
Solo il quinto scarabocchio, quello dell’uomo e del veicolo non quadrava. Vishnu e il suo carro? La vittima urlante che sta per essere travolta dalle ruote di un idolo inarrestabile? Era molto probabile. Ecco un punto in favore della cultura esoterica della stupida Evelyn Sawtelle.
Poi, di colpo, comprese. Quello era lui. Lui e un camion, un camion enorme. Era il significato della quinta figura.
Evelyn Sawtelle conosceva dunque la sua più intima avversione?
La guardò fissamente. Lei cancellò i suoi scarabocchi e gli restituì lo sguardo con sussiego.
La signora Gunnison era china in avanti, muoveva le labbra come se stesse contando gli atout.
La signora Carr sorrideva. Giocò la carta di apertura. Il vento si era alzato e ricominciava a ululare con quello strano boato intermittente che già si era fatto udire all’inizio della serata.
Norman scoppiò a ridere stupidamente e le tre donne lo guardarono. Che sciocco era stato. Crucciarsi pensando a qualche stregoneria mentre gli scarabocchi di Evelyn Sawtelle non raffiguravano altro che un bambino nell’atto di giocare alla palla. Un bambino: il figlio che lei non poteva avere. Una regina fatta di aste: lei stessa. Una torre: la cattedra di sociologia ambita da suo marito o qualche altra, molto più fondamentale potenza. Un impiccato: l’impotenza di Hervey (questa era un’idea di Norman!). Un uomo spaventato da un camion: lei, Evelyn con la sua energia sessuale che spaventava e schiacciava Hervey.
Rise di nuovo e le tre donne si accigliarono. Le guardò l’una dopo l’altra con espressione enigmatica.
Eppure, si chiese, proseguendo nella sua meditazione, ma in una vena più leggera, perché no? Erano tre megere che usavano scienze occulte né più né meno di Tansy, per mandare avanti la carriera del marito ed emergere contemporaneamente anche loro. Tre megere che si servivano del sapere dei mariti per infondere alla stregoneria una piega mostruosa. Inquiete, sospettose del fatto che Tansy avesse rinunciato alla magia, spaventate all’idea che Tansy avesse escogitato una magia più forte e progettasse di farne uso.
Tansy, invece, era lì, improvvisamente disarmata, forse ignara dei cambiamenti avvenuti nel loro atteggiamento, perché, rinunciando alla magia, aveva perduto la sua sensibilità alle cose soprannaturali, il suo intuito femminile. E perché non andare fino in fondo al suo ragionamento? Le donne erano tutte custodi delle antiche usanze e delle tradizioni dell’umanità, compreso l’uso della magia. Combattevano le battaglie dei loro mariti dietro le scene per mezzo della stregoneria. E mantenevano segreto il loro armeggiare. Se venivano scoperte, lo addebitavano a una debolezza femminile per la superstizione.
Metà della razza umana praticava dunque attivamente la stregoneria? E perché no?
«Tocca a lei, Norman» disse piano la signora Sawtelle.
«Sembra che lei abbia qualcosa in mente» disse la signora Gunnison.
«Come te la cavi, laggiù, Norman?» disse Gunnison. «Non ti sei ancora fatto stritolare da quelle donne?»
Stritolare. Norman tornò alla realtà con un sussulto. Era proprio ciò che quelle tre erano quasi riuscite a fare. Tutto ciò, perché l’immaginazione umana era uno strumento del quale non ci si poteva assolutamente fidare. Un po’ come un regolo elastico. Vediamo: se lui giocava il suo re, la signora Gunnison rimaneva padrona del seme con una regina e si giocava di fila tutti i suoi picche.
Mentre la signora Carr copriva il re con il suo asso, Norman fu conscio del sorriso enigmatico che si era diffuso sulle labbra di quella donna.
Dopo quel giro, Tansy servì rinfreschi. Norman la seguì in cucina.
«Hai visto come ti guardava» disse allegramente a Norman in un sussurro. «Mi vien quasi da pensare che quella cagna sia innamorata di te.»
Rise «Vuoi dire Evelyn?»
«No, naturalmente, intendo la signora Carr. Nel suo intimo è ancora una donna ardente. Non hai visto come guarda talvolta gli studenti, come se sperasse di avere anche l’aspetto conforme ai loro desideri?»
Norman ricordò di aver pensato esattamente la stessa cosa al mattino.
Tansy proseguì: «Non mi lusinga l’idea di averla vista guardare anche me nello stesso modo. Mi vengono i brividi a pensarci».
Norman assentì. «Mi fa pensare alla cattiva…» Si trattenne.
«…Strega di Biancaneve, non è vero? E ora faresti meglio a tornare in salotto, caro mio, o arriveranno tutte qui a ricordarmi che un professore di Hempnell non è al suo posto in cucina.»
Tornando nel soggiorno, sentì che la conversazione abituale, su questioni di collegio, era già cominciata.
«Ho visto Pollard, oggi» notò Gunnison servendosi un’ampia porzione di torta al cioccolato. «Mi ha detto che aveva una riunione con i consiglieri domattina per decidere, fra le altre cose, l’assegnazione della cattedra di sociologia.»
Hervey Sawtelle si strozzò con una briciola di torta e stava quasi per rovesciare la sua tazza di cacao.
Norman vide la signora Sawtelle che gli lanciava sguardi velenosi. Poi, cambiando espressione mormorò: «Ah? molto interessante». Norman sorrise, Quell’odio era comprensibile, non si poteva confondere con la stregoneria.
Tornò in cucina per prendere un bicchier d’acqua per la signora Carr e incontrò la signora Gunnison che usciva dalla camera da letto. Stava infilando nella sua capace borsetta un libriccino rilegato in pelle. A Norman venne in mente il diario di Tansy. Probabilmente si trattava del libretto degli indirizzi di Hulda.
Totem sgattaiolò dietro di lei, sibilando pomposamente.
«Odio i gatti» disse la signora Gunnison bruscamente e gli passò davanti.
Il professor Carr aveva provveduto a sistemare, per un ultimo giro di bridge, mettendo insieme tutti gli uomini, mentre le donne avrebbero giocato fra loro.
«Ma questa è una barbara sistemazione» disse Tansy strizzando l’occhio. «Non penserete che riusciremo mai a giocare seriamente?»
«Al contrario, mia cara. Credo che giocherete benissimo» rispose Carr seriamente. «Ma sono io, lo confesso, che talvolta preferisco giocare con gli uomini, Intuisco meglio che cos’hanno in mente. Mentre le donne, mi sconcertano ancora.»
«E così dev’essere» aggiunse la signora Carr. Tutti scoppiarono a ridere.
Le carte, improvvisamente, si fecero fantasiose, con le sequenze molto anormali, e il gioco divenne interessante. Ma Norman non riusciva a concentrarsi e questo rese Sawtelle, il suo compagno di gioco, ancor più nervoso e agitato del solito.
Norman continuava a tendere l’orecchio a ciò che dicevano le donne all’altro tavolo. La sua immaginazione ribelle persisteva a scoprire allusioni nascoste nelle più innocue osservazioni.
«Generalmente hai delle ottime mani, Tansy. Oggi invece non ti viene neppure una carta» disse la signora Carr. Che invece si riferisse alle mani ritagliate nella flanella?
«Mah! Sfortunata al gioco… sapete com’è il proverbio…»
Chissà come intendeva finire la frase, la signora Sawtelle? Fortunata in amore? Fortunata in magia? Stupida idea.
«Tansy, hai fatto due dichiarazioni emotive l’una dietro l’altra. Farai bene a stare attenta, o ti raggiungeremo.»
Cosa poteva significare, nel gergo della signora Gunnison “due dichiarazioni emotive”? Una specie di bluff nelle scienze occulte? Una falsa pretesa di rinunciare alla stregoneria?
«Io mi chiedo» mormorò dolcemente la signora Carr a Tansy «se questa volta non nascondi una meravigliosa mano, cara, e se non ci prepari un tranello.»
Il regolo di gomma. Ecco il guaio con la fantasia. Con un regolo elastico, un elefante sarebbe parso un sorcio, una linea a zig-zag e una curva sarebbero state uguali e parallele. Cercò di concentrarsi sulla sua dichiarazione di slam.
«Le donne fanno del gioco una lunga chiacchiera» mormorò Gunnison a mezza voce.
Gunnison e Carr vinsero una strenua partita di duemila punti, e chiacchierarono ancora piacevolmente mentre attendevano, in piedi, di congedarsi.
Norman ricordò una domanda che voleva fare alla signora Gunnison.
«Harold mi diceva che lei ha scattato un certo numero di fotografie di quel drago di pietra, quel grondone o doccione, che si voglia chiamare, che sta sul tetto di Estrey. È proprio di fronte alla finestra del mio studio.»
Lei lo guardò un po’, poi assentì.
«Credo di averne una qui con me, l’ho scattata circa un anno fa.»
Estrasse un’istantanea molto sciupata dalla borsetta. Lui la studiò e gli venne retrospettivamente un brivido. Era davvero incomprensibile. Invece di essere posto al centro del tetto, o sull’orlo, il drago era situato sulla cima. Che cosa significava? Uno scherzo che durava da mesi, da settimane? Oppure…? La sua mente ondeggiò, si impennò come un cavallo impaurito. Eppur si muove…
Guardò il retro della fotografia. Vi era un’iscrizione confusa segnata con un rossetto per le labbra. La signora Gunnison gliela tolse di mano per mostrarla agli altri…
«Il vento ulula come un’anima perduta» disse la signora Carr, stringendosi nel suo soprabito, mentre Norman apriva la porta.
«Un’anima molto chiacchierona, probabilmente quella di una donna» aggiunse suo marito con un risolino.
Quando l’ultimo degli ospiti ebbe preso congedo, Tansy prese il braccio del marito e disse: «Sto proprio invecchiando. Mi è sembrato meno pesante del solito. Perfino le occhiate della signora Carr non mi hanno scioccata. Per una volta, parevano tutti umani».
Norman la guardò intensamente. Tansy sorrideva, tranquilla. Totem era uscita dal suo nascondiglio e si fregava il muso contro la sua gamba.
Con uno sforzo Norman tornò alla realtà e assentì dicendo: «Difatti. Ma, santo cielo, quel cacao! Beviamo qualcosa».