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Il giorno dopo, l’aspetto di Norman era più o meno quello di un soldato al termine di una battaglia. Eppure aveva dormito a lungo, di un sonno profondo, ma appariva istupidito dalla stanchezza e dalla tensione nervosa. E lo era. Perfino Harold Gunnison lo notò.

«Non è nulla» rispose Norman. «Mi sento pigro.»

Gunnison sorrise con scetticismo. «Hai lavorato troppo, e questo finisce per esaurire. Dirada un po’ le tue ore di lavoro. Otto ore al giorno sono più che sufficienti.»

Poi proseguì con apparente indifferenza. «I consiglieri del collegio sono buffi personaggi, talvolta. E in un certo senso Pollard è un uomo politico più che un educatore. Ma è lui che fa entrare i capitali, e i presidi in fondo sono proprio fatti per quello.»

Norman fu grato a Gunnison del suo commento delicato sulla perdita della cattedra di sociologia poiché sapeva quale sforzo fosse per Harold dover criticare Pollard su qualsiasi punto. Ma si sentiva distante da Gunnison come si sentiva distante dai suoi alunni, quella schiera di vestiti multicolori che riempivano i viali e si raccoglievano in crocchi.

Era come se fra lui e loro ci fosse un muro di vetro appannato. L’unico suo desiderio, anch’esso impreciso, era quello di prolungare il suo attuale stato di pigrizia, dopo gli eventi della notte precedente, ed evitare di ragionare su chicchessia.

“I pensieri sono pericolosi” disse fra sé “e quelli contro la scienza, la sanità mentale, l’intelligenza raffinata sono i più pericolosi di tutti.” Sentiva qua e là la loro presenza nel suo cervello, come sacche di veleno, innocue finché rimangono incastrate come cisti e non si tenta di pungerle.

Uno di questi pensieri ricorreva più spesso degli altri. Si era manifestato la sera prima, al culmine della burrasca. Si sentì lieto di non poterne vedere l’interno.

Un altro ragionamento-ciste concerneva Tansy, e il fatto che Tansy si fosse mostrata così cordiale e spensierata quella mattina.

Un’altra idea, un’idea di grandissime proporzioni, era immersa in fondo alla sua mente, ed egli percepiva soltanto una piccola parte della sua superficie globulare. Sapeva che si ricollegava a un’emozione insolita, irosa, distruttiva, che aveva avvertito in sé più d’una volta il giorno avanti, e sapeva che per nessun motivo questa idea doveva essere provocata. La sentiva pulsare lentamente e ritmicamente come un mostro addormentato nel fango.

Un’altra idea concerneva le mani… Mani guantate di flanella. Un’altra ancora, molto più piccola, ben visibile, ora, si ricollegava in un certo modo alle carte.

E ve n’erano altre, molte altre.

Norman si trovava in una situazione analoga a quella dell’eroe leggendario che deve attraversare una stretta galleria senza mai toccarne i muri dall’aspetto falsamente seducente ed avvelenati.

Sapeva di non potere evitare il contatto dei pensieri-cisti ma nel frattempo quelli potevano ridursi e scomparire.

La giornata s’intonava al suo umore superficialmente triste e letargico. Anziché rinfrescarsi, com’era prevedibile dopo un temporale, l’aria aveva assunto un anticipato tepore primaverile. Le assenze degli studenti si erano notevolmente accresciute. Quelli che venivano alle lezioni erano disattenti e mostravano altri sintomi di eccitazione primaverile.

Solo Bronstein era lucido e presente. Non faceva che prendere da parte gli studenti a due a due e parlava con loro animatamente. Norman si accorse che tentava di dare il via a una petizione di protesta per la nomina di Sawtelle, e gli chiese di desistere. Bronstein rifiutò, ma comunque non era riuscito a trascinare con sé gli altri alunni.

Le lezioni di Norman erano fiacche. Si era accontentato di trasformare i suoi appunti in una descrizione verbalmente accurata, che gli aveva richiesto il minimo sforzo mentale. Guardava le matite degli alunni muoversi metodicamente mentre prendevano appunti, o si perdevano in ghirighori complicati. Due ragazze erano intente a disegnare il bel profilo del presidente dell’associazione studentesca, seduto in seconda fila. Vedeva che la loro fronte si aggrottava quando cercavano di riprendere il filo della lezione, per poi distendersi nuovamente quando lo abbandonavano. E in tutto quel tempo la sua mente sgattaiolava per vie laterali, troppo simili ai sogni e troppo irrazionali per meritare il nome di pensiero. Si trattava di una catena di parole come quelle che usano gli psicologi nei test associativi. Una di queste catene cominciò a muoversi quando ricordò una battuta che definiva le lezioni “l’atto di trasferire il contenuto del notes del professore nel notes degli alunni, senza passare dalla mente né dell’uno né degli altri”. Questo pensiero lo riportò all’idea del ciclostile.

“Ciclostile”, proseguì “Margaret Van Nice, Theodore Jennings, rivoltella, vetro della finestra, Galileo, cartiglio… (Allontanati subito da questa idea… è territorio proibito!)”

Il sogno a occhi aperti indietreggiò e prese una svolta diversa. “Jenning, Gunnison, Pollard, preside, imperatore, imperatrice, giocoliere, torre, impiccato… (Basta! non andare oltre!)”

Mentre la giornata proseguiva monotona, i sogni a occhi aperti assumevano un colore uniforme.

Rivoltella, coltello, scheggia, vetro rotto, unghia, tetano.

Dopo la lezione tornò nel suo studio e rimase assorto per un po’, poi si applicò ai lavoretti di poco conto, sempre chiuso nei suoi pensieri, al punto che talvolta si dimenticava di ciò che stava facendo. I sogni a occhi aperti non gli davano pace.

“Guerra, corpi ammucchiati, mutilazioni, delitto, corda, impiccato… (Lascia stare, basta con questi pensieri!)… Gas, rivoltella, veleno.

“Il colore del sangue e le ferite del corpo”.

E sempre più intenso diventava quel pulsare lento, il respiro del mostro annidato nel profondo della sua mente ove passavano sogni di carneficina dai quali si sarebbe presto svegliato emergendo da una pozza di fango. Lui non poteva fare nulla per fermarlo. Gli pareva di essere una palude coperta di una crosta che a vederla pareva terreno sano, e sotto, l’acqua che spingeva questa crosta, a tratti impercettibile, millimetro per millimetro, finché alla fine scoppiava d’un sol colpo in una vasta eruzione argillosa.

Tornando a casa s’imbatté nel professor Carr.

«Buona sera, Norman» esordì l’anziano signore alzando il suo panama per asciugarsi la fronte che si prolungava in una zona abbastanza alta di calvizie.

«Buona sera, Linthicum» disse Norman. Ma la sua mente seguiva un altro ragionamento. Pensava che se si fosse lasciato crescere l’unghia del pollice e l’avesse accuratamente affilata, si sarebbe potuto tagliare le vene dei polsi e morire dissanguato.

Il professor Carr si passò il fazzoletto sotto la barba.

«Mi è molto piaciuta la nostra partita a bridge di ieri» disse. «Si potrebbe giocare ancora noi quattro insieme, per esempio mercoledì, quando le nostre mogli andranno alla riunione delle mogli dei professori, non credi? Io e te potremmo essere compagni e usare il metodo Culbertson.» La sua voce tradiva una vogliosa aspettativa. «Sono stufo di giocare sempre secondo il metodo Blackwood.»

Norman assentì, ma stava pensando: “Come fanno certi uomini a imparare a inghiottire la propria lingua e poi morire soffocati?” Si provò a farlo. Ma questi erano pensieri da campo di sterminio! Le visioni macabre continuavano a nascere nella sua mente, una dopo l’altra. Avvertì le pulsazioni di quella cosa nascosta sotto i suoi pensieri, pulsazioni che diventavano intollerabili e potenti. Il professor Carr gli fece un cenno gentile col capo e se n’andò. Norman affrettò il passo, come se le pareti della galleria, in analogia alla fiaba, si stessero stringendo sul guerriero. Se non raggiungeva presto l’uscita avrebbe dovuto spingersi con tutta forza su quelle pareti per farsi strada.

Raggiunse il viale cittadino. Il semaforo era rosso. Si fermò sul marciapiede. Un grosso camion arrivava con un rumore di tuono verso l’incrocio a velocità sostenuta. Norman seppe in quel momento che cosa stava esattamente per accadere. Non avrebbe potuto fermarsi.

Egli avrebbe aspettato finché il camion fosse vicino, e poi si sarebbe gettato sotto le ruote. Fine della lunga galleria.

Era il significato del quinto pupazzetto, il gioco dei tarocchi deviato dalla sua tradizione.

Imperatrice, giocoliere. Ora il camion era vicino. Torre. Il semaforo segnava giallo, ma il camion non si sarebbe fermato. Impiccato…

Fu solo nel momento in cui si chinava in avanti, tendendo i muscoli della gamba, che la voce piatta gli parlò nell’orecchio, una vocetta dal tono uniforme eppure diabolicamente vivace, la voce dei suoi sogni: «Non ancora, non prima di due settimane, al minimo. Non prima di due settimane».

Riprese il suo equilibrio. Il camion gli passò accanto tuonando. Guardò dietro di sé, in alto prima, poi tutt’intorno. Non c’era nessuno. Solo un bambino nero e un vecchio, mal vestito, con una sporta infilata nel braccio. Nessuno dei due gli era vicino. Un brivido gli guizzò per tutta la schiena.

Allucinazioni, senza dubbio, pensò tra sé. Quella voce era dentro la sua testa. Tuttavia continuava a guardare a destra e a sinistra, annusando l’aria come per frugare nell’invisibile. Attraversò la strada e proseguì verso casa. Appena entrato, si versò da bere in misura più che abbondante. Strano, Tansy aveva già preparato il whisky e l’acqua minerale sulla credenza. Agitò il bicchiere e bevve tutto d’un fiato. Poi guardò il bicchiere vuoto con espressione dubitativa.

In quel momento udì una macchina che si fermava, e subito dopo Tansy entrò con in mano un pacco. Sorrideva, era accaldata. Con un sospiro di sollievo posò il pacco e respinse sulle tempie le ciocche nere che le cadevano sulla fronte.

«Uffa! che brutta giornata. Lo sapevo che avresti gradito un aperitivo. Quello però lo finisco io.»

Quando posò sul tavolo il bicchiere di Norman, vi era dentro solo il ghiaccio.

«Ecco, ora siamo fratelli di sangue, o qualcosa del genere. Tu versatene un altro.»

«Era già il secondo» le disse.

«Però! Credevo di averti defraudato della tua bibita!»

Sedette sull’orlo del tavolo e alzò l’indice in direzione del suo viso: «Caro signore, voi avete bisogno di riposo. O di distrazione. Non so quale dei due. Forse di tutti e due. Allora vi faccio questa proposta: una cena fredda, dei sandwich, poi, quand’è buio, prendiamo la macchina, e facciamo una passeggiata sulla collina. Sono anni che non lo facciamo. Che ne pensate, mio signore?»

Egli esitò. Con l’aiuto dell’alcool i suoi pensieri stavano cambiando direzione. Metà della sua mente lavorava disperatamente per trovare una spiegazione all’allucinazione che aveva testé provato, e a quello slancio suicida, inspiegabile e a… non ricordava che altro. L’altra metà della sua mente si arrendeva al buon umore di Tansy. Questa allungò la mano e gli prese il naso fra le dita. «E allora?»

«Va bene» le disse.

«Ehi! Potresti mostrare un po’ più di interesse!» Scivolò dal tavolo, andò in cucina e aggiunse da sopra la spalla: «Ma quello verrà più tardi.»

Era carina, provocante. Norman non vedeva nessuna differenza fra la ragazza di quindici anni fa e quella di adesso. Pensò che era la centesima prima volta che la vedeva.

Sentendosi quasi rilassato, o perlomeno, distratto dai suoi pensieri, si sedette sulla poltrona. Ma, all’atto di piegarsi, sentì qualcosa di duro, di angoloso contro la coscia. Si alzò d’un balzo, ficcò la mano in tasca e estrasse la rivoltella di Theodore Jennings.

La guardò spaventato, incapace di ricordare quando l’avesse presa dal cassetto, nel suo studio. Poi diede un’occhiata veloce in cucina, e corse fino al comò della stanza da letto, aprì l’ultimo cassetto in basso e nascose l’arma sotto una pila di biancheria.

Quando arrivarono i sandwich, stava leggendo il giornale del pomeriggio. Era un articolo di cronaca, nella quinta pagina, che aveva attratto la sua attenzione.


Un perfetto scherzo vale la pena di un bel disturbo e di un gran spreco di forza. Perlomeno così la pensa un gruppo di studenti di Hempnell, non ancora identificati. Ma ci chiediamo come l’abbia presa il professore Norman Saylor quando, questa mattina, guardando fuori della finestra ha visto un doccione di pietra enorme (non peserà meno di un quintale e mezzo) ritto in mezzo al prato rasato della sua casa. Era stato asportato dal tetto di un edificio del collegio. Come abbiano fatto gli studenti a staccarlo, farlo scendere dal tetto e trasportarlo sino alla casa del prof. Saylor, è tuttora un mistero.

Quando al preside Pollard è stato chiesto di commentare l’accaduto, ha risposto ridendo: “È forse colpa del nostro programma di educazione fisica, che fa dei nostri giovani degli uomini eccezionalmente robusti”.

Il preside Pollard, al momento in cui l’abbiamo intervistato, stava uscendo per recarsi al Lions’ Club dove avrebbe pronunciato il suo discorso su “La grande Hempnell — il collegio e la città”. (Vedi a pagina 1 il testo del discorso).


C’era da aspettarselo, le solite inesattezze. Non era un doccione. I doccioni sono grondaie, mostri che sputano acqua. E neppure un accenno al fulmine. Il giornalista l’aveva probabilmente trascurato perché non quadrava con la sua idea convenzionale di un articolo cosiddetto non convenzionale. Eppure i giornali adoravano le coincidenze. Ma perbacco! Lasciavano passare le migliori.

E, per finire, il consueto colpetto di pollice che riesce a trasformare un fatto di cronaca in un inserto pubblicitario a favore dell’educazione fisica impartita a Hempnell. Bisognava ammettere che l’ufficio pubblicità di Hempnell era di un’indiscutibile efficienza.

Tansy gli portò via di mano il giornale.

«Il mondo può attendere» disse. «Eccomi qui, assaggia un po’ del mio sandwich.»

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