Fritz Leiber Ombre del male

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Norman Saylor non era un marito ficcanaso, di quelli che vanno a curiosare nello spogliatoio della moglie. Però lo fece un po’ anche per questo, nella certezza che nulla potesse intaccare la solidità del suo legame con Tansy.

Non ignorava la sorte toccata alla moglie curiosa di Barbablù. Anzi, anni addietro, aveva studiato a fondo gli aspetti psicanalitici di questa strana favola e dei suoi armadi pieni di donne penzolanti. Ma non gli passò neanche per la mente che una disavventura analoga potesse capitare a un marito, moderno per giunta. Rischiava di scoprire una mezza dozzina di galanti appesi alle grucce dietro quella porta dai morbidi riflessi bianchi? L’ipotesi l’avrebbe fatto ridacchiare. Eppure Norman era uno specialista di psicologia femminile, e i suoi saggi sul parallelismo fra superstizioni primitive e nevrosi moderne gli avevano procurato una certa fama nell’ambito professionale.

Non aveva l’aspetto del distinto etnologo. Per prima cosa, era troppo giovane. Ancor meno pareva un professore di sociologia del Collegio Universitario di Hempnell. Gli mancava il sussiego, lo sguardo spaurito e la mascella sopraffattoria, tipici del corpo accademico di quel piccolo e illustre ateneo.

E non si sentiva per nulla un buon “Hempnelliano” fatto che lo rendeva oggi particolarmente felice.

Il sole primaverile fluiva dolcemente dalla finestra vicina, e un’arietta fragrante penetrava nella stanza. Norman si mise alla macchina da scrivere e attaccò allegramente l’ultima parte del suo saggio sulle «Radici sociali del culto moderno del Voodoo», troppo a lungo rimandato. Arrivato in fondo si staccò dal tavolo spingendo la sedia e tirò un sospiro di soddisfazione. Aveva raggiunto un punto culminante, nel ciclo interminabile dei piaceri e dispiaceri. Allora la coscienza si assopisce e ogni cosa si mostra sotto il suo lato migliore. Sono momenti che segnano, per un nevrotico o per un adolescente, l’inizio di un rapido capitombolo negli abissi della più nera malinconia; ma Norman aveva da tempo appreso a superarli inserendo al momento giusto un’attività nuova che smorzava l’inevitabile discesa.

Ciò non gli impediva però di godersi appieno la bellezza di quell’attimo fintanto che durava, assaporandone il languido piacere fino all’ultima goccia. Uscì dal suo studio, sfogliò un romanzo dalla copertina multicolore, lo abbandonò subito e lasciò vagare il suo sguardo sulle due maschere demoniache cinesi appese al muro. Oltrepassò la porta della camera da letto, guardò sorridente l’armadietto dove i liquori, secondo l’uso di Hempnell, erano tenuti in ombra, ma non aveva sete e tornò verso la camera da letto.

La casa era silenziosa. Appariva vecchiotta e riposante, quel pomeriggio, nelle sue dimensioni modeste, con le sue stanze piccole e numerose, affollate di mobili. Sopportava serenamente l’accumularsi dei libri, delle stampe e dei dischi così come imponeva l’ambiente medio intellettuale. Oggigiorno, la pittura lavabile ricopriva le modanature complicate del secolo scorso. I toni vivaci della libertà intellettuale e della gioia di vivere cercavano di mitigare l’austera dignità professorale.

Si vedeva dalla finestra della camera da letto il ragazzo del vicino col suo trenino carico di giornali impilati. Di fronte, oltre la strada, un vecchietto zappava tra i cespugli e posava cauto i piedi sul prato rasato. Il camioncino del lavandaio, diretto al collegio, passò rumorosamente. Norman aggrottò un attimo la fronte. Apparvero poi, nella direzione opposta, due studentesse sfaccendate che indossavano i calzoni lunghi e le camicette svolazzanti proibite in classe. Norman sorrise. Si sentiva ben disposto, oggi, verso la ridicola, mediocre cultura riassunta in qualche modo da quella strada. Era una cultura gretta, ostica, farcita di tabù, che vietava di menzionare la realtà e il sesso, che inneggiava alla stoica necessità di sopportare la routine del lavoro e degli affari. In mezzo a tutto ciò, il ricco, facoltoso, potente collegio universitario di Hempnell celebrava il rituale destinato a tener vive idee morte da un pezzo. Era come un’assemblea di stregoni che si riuniva sotto tende di pietra.

Come avevano fatto lui e Tansy a resistere tutti quegli anni e, per di più, in modo così brillante? Non si potevano certo definire né l’uno né l’altra dei tipi da piccolo collegio universitario. Soprattutto Tansy. Aveva sicuramente trovato ogni cosa esasperante i primi tempi: le lotte al coltello tra facoltà rivali, l’ossequio servile e falso per le cose rispettabili, l’accettazione implicita (cui si sarebbe ribellato il più umile degli operai) del fatto che le mogli dei professori dovessero lavorare gratis per il collegio, le complicate responsabilità mondane, l’eterna vigilanza sugli studenti, seccati e risentiti (perché Hempnell era uno di quei collegi che offrono ai genitori inquieti un’alternativa alla libertà non disciplinata di quegli istituti che Norman ricordava aver sentito definire da un politicante locale «focolai di comunismo e di libero amore», cioè le grandi università metropolitane).

Sarebbe stato naturale che lui e Tansy fossero fuggiti verso uno di quei «focolai», o avessero imboccato una serie di scomodi trasferimenti, un giorno, a causa di una questione di stipendio, un altro a causa di un battibecco sulla libertà accademica. O che avessero cercato di diventare scrittori oppure trovarsi un’attività ugualmente senza sbocco. Viceversa Tansy aveva trovato la forza, attingendo a una segreta fonte del suo carattere, di sfidare Hempnell sul suo stesso terreno. Si era adeguata all’ambiente senza perdere dignità, si era prodigata oltre il dovuto nelle manifestazioni mondane, e ciononostante era riuscita a tracciare intorno a Norman una specie di cerchio magico, all’interno del quale egli aveva potuto effettuare del buon lavoro, eseguire le sue ricerche, e scrivere quei saggi che lo avrebbero un giorno reso indipendente da Hempnell e dal modo di pensare di Hempnell. E forse quel giorno non era lontano, anzi, perché il professore di sociologia Redding era prossimo alla pensione e Norman era sicuro di ottenere la sua cattedra. Dopodiché sarebbero trascorsi pochi anni o pochi mesi, e qualche importante università si sarebbe certamente fatta avanti offrendogli il posto che si meritava.

Per un attimo Norman si abbandonò a sentimenti di grande ammirazione per sua moglie, come se ne vedesse per la prima volta le solide qualità. Perbacco! Si era prodigata per lui, senza mai farlo pesare. Gli aveva perfino fatto da segretaria, instancabile ed efficiente, in tutte le sue ricerche, e non se ne era mai lamentata. Nemmeno una volta Norman aveva provato rimorso oltreché gratitudine. A dire il vero Norman non prometteva molto, dapprincipio. Era un giovane insegnante talvolta brillante, sprezzante della vita accademica, felice come un ragazzino se riusciva a scandalizzare i colleghi anziani, e che, nelle sue discussioni con i decani e i presidi, dimostrava la tendenza suicida a ingrandire i problemi che non avevano assolutamente importanza. In mille occasioni aveva sfiorato la retrocessione, la rottura irreparabile con i suoi superiori. Eppure se l’era sempre cavata e ogni volta, ora se ne accorgeva, a causa dell’intelligente e indiretto aiuto di Tansy. Dal giorno in cui si erano sposati, la sua vita era stata sempre, solo e unicamente assistita dalla fortuna.

Come diavolo aveva fatto, lei, così pigra, e a tratti ribelle quanto lui, col suo carattere irrequieto, irresponsabile? Era figlia di un pastore protestante di campagna. La sua infanzia era stata solitaria e indisciplinata, illuminata forse da una vivace immaginazione, ma priva o quasi di quello spirito conservatore squisitamente borghese che era la più utile raccomandazione nell’ambiente di Hempnell.

Eppure vi era riuscita. Oggi Norman (fatto paradossale) era considerato come un ottimo, un solido Hempnelliano, «vanto dell’ateneo», «uno che farà grandi cose», molto amico del preside Gunnison («che poi non è così terribile, a ben conoscerlo»), sul quale si appoggiava l’insulso presidente Pollard. E a paragone del suo collega di sezione, Hervey Sawtelle, così pauroso e servile, Norman sembrava una robusta torre. Da iconoclasta era diventato idolo, senza compromettere affatto (questa era davvero la cosa stupefacente) i suoi veri ideali, e senza chinare il capo neanche una volta davanti a imposizioni reazionarie.

Nel suo presente umore meditativo e sereno, sembrò a Norman che vi fosse qualcosa di incredibile nella sua ascesa a Hempnell, qualcosa di magico e di spaventoso. Lui e Tansy erano come una coppia di pellirosse, un giovane guerriero e la sua sposa, capitati tra 1 fantasmi ancestrali, e che fossero riusciti a far credere che erano anche loro degli anziani di una tribù, debitamente seppelliti, nascondendo la loro vera natura di individui in carne e ossa. E tutto ciò, in mezzo a mille tranelli, era accaduto solo perché Tansy possedeva quel sortilegio protettivo destinato a trionfare in ogni situazione. Naturalmente la spiegazione era semplicemente che entrambi erano persone mature e consapevoli. Ogni essere umano doveva superare quel vecchio scoglio, cioè imparare a controllare l’impulso infantile, se non voleva rovinarsi l’esistenza. Eppure…

Il sole si fece più brillante, più caldo e più dorato. Pareva che un elettricista cosmico avesse dato un altro giro all’interruttore. Nello stesso momento una delle due studentesse dalla camicetta svolazzante girò l’angolo della strada e scoppiò in una lunga, giovanile risata. Norman voltò le spalle alla finestra. Proprio allora Totem, la gattina, si alzò dalla trapunta di seta rosa dov’era rimasta a sonnecchiare in mezzo a una chiazza di sole, e si abbandonò a uno sbadiglio stiracchiandosi in maniera tale che pareva doversi slogare ogni articolazione. Grato dell’esempio, Norman fece altrettanto, ma con più prudenza. Ah, certo, era un giorno meraviglioso, uno di quelli in cui la realtà è solo un susseguirsi di immagini così brillanti e nitide da far temere che all’improvviso quella sottile pellicola si strappi e riveli l’illimitata, ignota oscurità da essa ricoperta. È il momento in cui tutto sembra così giusto e amichevole, che ti prende la paura di quel lampo intuitivo che in un baleno scopre il cumulo di orrori, di odio, di brutalità e di ignoranza sul quale riposa la vita stessa.

Mentre Norman finiva il suo sbadiglio, sentì che quell’istante di estasi era arrivato agli sgoccioli.

Nello stesso momento gli cadde l’occhio sulla porta dello spogliatoio di Tansy.

Sentiva di dover fare ancora qualcosa, prima di rimettersi al lavoro, o di prendersi qualche svago. Sentiva la necessità di un gesto insolito, inutile, ozioso e, perché no, infantile, magari un po’ riprovevole, cui avrebbe ripensato poi con divertita vergogna.

Se ci fosse Tansy, naturalmente… Ma poiché era fuori, il suo spogliatoio avrebbe fatto le veci della sua deliziosa persona.

La porta socchiusa lo tentava. Intravedeva all’interno l’orlo di una sedia leggera, sulla quale era gettata una sottoveste che pendeva fino a terra, coprendo per metà una pantofolina ornata di piume. Accanto alla sedia, il ripiano del tavolo coperto di vasetti era piacevolmente oscuro perché lo spogliatoio, che non aveva finestre, era poco più di un grande armadio a muro.

Norman non aveva mai ficcato il naso nelle cose di Tansy, né aveva mai pensato di farlo. Nemmeno lei, per quanto ne sapesse, aveva mai avuto voglia di curiosare nelle cose del marito. Era un atteggiamento che sin dai primi giorni del loro matrimonio gli era sembrato logico, scontato e fondamentale nei rapporti fra marito e moglie.

La curiosità peccaminosa che egli provava ora non si poteva certo definire morbosa. Era simile a un gesto illecito d’amore, e in ogni caso una infrazione molto leggera.

Dopotutto nessun essere umano aveva il diritto di considerarsi perfetto e neppure così adulto da dover frenare qualche impulso briccone.

Inoltre, da quando si era allontanato dalla finestra non aveva fatto altro che porsi delle domande a proposito di sua moglie, dell’enigma che lei rappresentava, della sua strana abilità a sopportare e a vincere la soffocante atmosfera di un ambiente aggressivo come quello di Hempnell. Non era certo un problema importante e comunque non era di quelli che si possono risolvere con un rapido sopralluogo in uno spogliatoio. Eppure…

Esitò.

Totem aveva ripiegato le zampette bianche sotto la pettorina nera e lo stava osservando.

Entrò nello spogliatoio di Tansy.

Totem con un balzo saltò dal letto e lo seguì. Egli accese la lampada dal paralume rosa, ispezionò la fila dei vestiti appesi, gli scaffali delle scarpe. Vi era un leggero disordine; ma molto sano, adorabile. Un tenue profumo gli ricordava cose piacevoli.

Osservò le fotografie appese al muro intorno allo specchio. Una di queste rappresentava loro due vestiti da indiani. Era stata scattata l’estate in cui erano andati a studiare le tribù Yumas, tre anni prima. Apparivano entrambi solenni, come degli autentici indiani. Nell’altra fotografia, un po’ sbiadita, apparivano in costume da bagno foggia 1928, in piedi, sorridenti, su un piccolo molo inondato dal sole. Quell’istantanea era stata scattata a Bayport un anno prima che si sposassero. Una terza fotografia rappresentava un tumultuoso battesimo negro nel fiume. Era l’anno in cui Norman aveva ottenuto la borsa di studio Hazelton ed era andato a raccogliere il materiale destinato al suo saggio sul Comportamento del nero degli Stati del Sud e a quello successivo sull’Elemento femminile nella superstizione. Tansy gli era stata estremamente utile in quel periodo, aiutandolo a porre le basi della sua futura fama. Lei lo aveva accompagnato, aveva scrìtto sotto dettatura i racconti coloriti dei vecchi neri dagli occhi lucidi, che descrivevano i giorni della schiavitù con conoscenza di causa, essendo stati loro stessi schiavi, da giovani. Ricordò com’era Tansy all’epoca: esile, un po’ maschietta, tanto emotiva e forse un po’ goffa. Quella stessa estate avevano lasciato l’università di Gorham per venire a Hempnell. Quanta disinvoltura aveva acquistato Tansy, da quel lontano giorno!

La quarta fotografia rappresentava uno stregone nero, dal viso grinzoso, dalla fronte alta e fiera sotto la tesa di un logoro cappello. Si teneva eretto, le spalle indietro, lo sguardo sfolgorante, come se disprezzasse la cultura occidentale all’acqua di rose, e la respingesse perché lui possedeva ben altre cognizioni, molto più profonde. Non sarebbe stato più impressionante nemmeno con le guance tatuate e le penne di struzzo sul capo. Norman ricordava bene quell’individuo, uno dei suoi informatori più preziosi ma più difficili. Ce n’erano voluti degli incontri, prima di ottenere informazioni interessanti…

Guardò il tavolo con la specchiera e l’infinito numero di cosmetici. Tansy era stata la prima fra le mogli dei professori a usare rossetto e smalto per le unghie. Aveva suscitato critiche velate e chiacchiere a non finire sull’«esempio che diamo agli studenti.» Ma aveva tenuto duro e un bel giorno, anche Hulda Gunnison era comparsa al ballo mascherato dell’università con qualcosa che, a guardar bene, era indubbiamente una traccia violacea e inconfondibile di rossetto, leggera e storta sulle labbra. Da quel giorno in poi, tutto era andato liscio.

Fra due vasetti di crema c’era una piccola fotografia di Norman e davanti a questa un mucchietto di monetine: soldi e centesimi.

Rimproverò se stesso: non era questa l’indebita, peccaminosa curiosità che aveva inteso. Aprì un cassetto a caso, osservò un attimo le calze che lo riempivano, tutte accuratamente arrotolate, poi impugnò la maniglia d’avorio dell’altro cassetto.

E si fermò.

Che sciocchezza, pensò. Proprio in quel momento si accorse di avere esaurito l’ultima goccia dell’umore felice di poc’anzi. Come nell’attimo in cui aveva voltato le spalle alla finestra, ma con maggiore intensità, il tempo parve coagularsi. Ogni realtà, ogni momento vissuto fino a quel momento gli appariva in una luce folgorante e fugace, che sarebbe sparita subito, lasciando il posto a una densa oscurità.

Nel vano della porta Totem lo guardava.

Ma era ancor più sciocco voler analizzare un capriccio senza importanza, come se potesse avere un significato qualsiasi, in un modo o nell’altro.

Per dimostrare a se stesso che non significava nulla, avrebbe aperto ancora un cassetto.

Ma questo fece resistenza e fu costretto a forzarlo.

Una grande scatola di cartone, in fondo al cassetto, attirò la sua attenzione. Sollevò un angolo del coperchio e prese una delle boccettine di profumo, dal tappo di vetro, di cui la scatola era colma. Che razza di cosmetico poteva essere quello? Troppo scuro per trattarsi di una cipria. Somigliava piuttosto a un campione di terra per raccolte geologiche. Un ingrediente per una maschera facciale? Impossibile, Tansy aveva un orticello con tutte le erbe aromatiche di cucina. Si trattava forse di una di quelle?

I granuli secchi, scuri scorrevano facilmente come sabbia in una clessidra, mentre Norman faceva roteare la boccetta di vetro. Vi era pure un’etichetta indubbiamente scritta da Tansy, era la sua calligrafia. Portava un nome: Julia Frock, Roseland. Perché mai la parola Roseland suonava così sgradevole? Alzò il coperchio di cartone e prese un’altra boccetta, identica alla prima, solo che il contenuto era un po’ più rosso e sull’etichetta si leggeva: Phillip Lassiter, Hill. Un terzo specimen dello stesso colore del primo portava: J.P. Thorndyke, Roseland. Raccolse in fretta un gruppo di boccette: Emelyn Scatterday, Roseland, Mortimer Pope, Hill. Reverendo Bufort Ames, Roseland. Ed erano rispettivamente marrone, rossa e marrone.

Il silenzio all’interno della casa divenne inquietante. Perfino la luce del sole, nella stanza da letto, pareva crepitare, mentre il pensiero di Norman si concentrava su questo rebus.

Roseland e Hill. Roseland e Hill. Ah, sì!… ecco: «Siamo andati a Roseland e Hill…» era come una ninna nanna infantile, ma che, di colpo, si rivelava maligna e rendeva le boccette di vetro ripugnanti al tocco, «…e da lì non siamo più tornati».

Di colpo ottenne la risposta.

I due cimiteri locali.

Era terra di cimitero.

Perfettamente. Erano campioni di terra. Di terra di cimitero prelevata da determinate tombe. Un ingrediente principe nella magia nera dei neri.

Con un tonfo soffice Totem piombò sul tavolo e cominciò ad annusare le boccette. Fece un balzo indietro quando Norman ficcò la mano nel cassetto. Sentiva che dietro la grande scatola di cartone vi erano scatole più piccole. Aprì il cassetto con uno strappo sino in fondo ed esso cadde. Una delle scatole conteneva chiodi arrugginiti, storti, consumati, chiodi di ferro di cavallo. Nell’altra vi erano bustine per biglietti da visita, riempite di pezzettini di capelli. Ogni busta era catalogata, come le boccette, ma questa volta i nomi gli erano noti: Hervey Sawtelle… Gracine Pollard… Hulda Gunnison… In una busta che portava il nome di Evelyn Sawtelle vi erano pezzetti di unghie laccate.

Nel terzo cassetto non c’era nulla, ma nel quarto si trovavano tante cose disparate: pacchetti di piccole foglie disseccate e materia vegetale in polvere. Era questa, dunque, la roba che Tansy piantava insieme alle erbe aromatiche di cucina, nel suo orticello? Verbena, vimogna, spezie tostate e macinate, dicevano le etichette. Pezzi di magnetite con attaccati frammenti di ferro. Penne d’oca che a scuoterle lasciavano sfuggire perline di mercurio. Una scatola piena di monetine d’argento e di limatura pure d’argento, vecchissimo talismano protettivo. Questo spiegava il mucchietto di soldi davanti alla sua fotografia.

Eppure Tansy era una persona così sana, così apertamente sprezzante di chiromanzia, numerologia, astrologia e delle altre minori superstizioni. Era un tipo schietto di americana della Nuova Inghilterra, pragmatica e culturalmente edotta da quando collaborava col marito, del sottofondo psicologico esistente nelle superstizioni e nella magia primitiva. Edotta… ma sì, certo!

Si trovò a sfogliare una copia consunta del suo saggio sul Parallelismo fra superstizione e nevrosi…. non era per caso la copia smarrita in casa otto anni fa? Accanto a una formula magica di scaramanzia c’era una nota marginale scritta da Tansy: “Non funziona. Sostituire la limatura di rame con limature di ottone. Provare in novilunio, anziché in plenilunio”.

«Norman!!!»

Tansy era lì, nel vano della porta.

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