IV NELLA BERTESCA DEL VINCULA

— Hai visite, Littore — mi salutò la sentinella, e, quando io feci solo un cenno di assenso, aggiunse: — Sarebbe meglio che prima ti cambiassi, Littore. — Non ebbi bisogno di chiedere chi fosse il visitatore, perché solo la presenza dell’arconte poteva spingere la sentinella ad usare quel tono.

Non mi fu difficile raggiungere il mio appartamento senza passare dall’ufficio dove mi occupavo degli affari del Vincula e tenevo i conti relativi. Trascorsi il tempo necessario a togliermi lo jelab preso a prestito e ad indossare il mio manto di fuliggine, riflettendo sul perché l’arconte, che prima d’allora non era mai venuto da me, e che, se era per questo, avevo raramente incontrato al di fuori della sua corte, avesse sentito la necessità di fare una visita al Vincula, apparentemente senza scorta.

Quelle riflessioni mi erano gradite, perché servivano a tenere a distanza certi altri pensieri. Nella nostra stanza c’era un grande vetro argentato, che, come specchio, era molto più efficace delie piccole lastre di metallo lucido cui ero abituato; quando mi accostai ad esso per esaminare il mio aspetto, notai per la prima volta che Dorcas aveva scribacchiato sulla sua superficie, servendosi della schiuma di sapone, quattro versi di una canzone che mi aveva cantato un tempo:

Corni di Urth, levate al cielo le vostre note,

Verdi e buone, verdi e buone.

Cantate al mio passaggio; trovato ho una più dolce radura.

Innalzatemi, oh, innalzatemi fino alla caduta verzura!

Nello studio c’erano parecchie sedie comode, e mi ero aspettato di trovare l’arconte seduto su una di esse (anche se mi era passato per la mente il pensiero che potesse aver approfittato dell’occasione per dare una scorsa alle mie carte, cosa che aveva pieno diritto di fare, se solo avesse voluto). Invece, era in piedi vicino al davanzale, intento a fissare la sua città più o meno come io stesso l’avevo osservata all’inizio del pomeriggio dai bastioni del Castello di Acies. Aveva le mani serrate dietro la schiena, e notai che esse si muovevano come possedute da vita propria, generata dai pensieri dell’arconte. Passò qualche tempo prima che si voltasse e mi vedesse.

— Sei qui, Maestro Torturatore. Non ti ho sentito entrare.

— Sono solo un artigiano, Arconte.

Questi sorrise e sedette sul davanzale, la schiena rivolta al precipizio. Aveva un volto ordinario, con un naso a becco e gli occhi grandi e bordati di carne scura, ma non era un volto mascolino: sembrava piuttosto quello di una donna brutta.

— Anche ora che ti ho reso responsabile di questo luogo, rimani sempre un semplice artigiano?

— Posso essere elevato solo dai maestri della nostra corporazione, Arconte.

— Ma tu sei il migliore dei loro artigiani, a giudicare dalla lettera che mi hai portato, dal fatto che ti abbiano scelto per venire qui e dal lavoro che hai svolto da quando sei arrivato. Comunque, quaggiù nessuno saprebbe che non ne hai il diritto, se tu scegliessi di darti un po’ di arie. Quanti maestri ci sono?

— Lo saprei io, Arconte. Ce ne sono solo due, a meno che qualcuno sia stato elevato dopo la mia partenza.

— Scriverò loro e chiederò di elevarti in absentia.

— Ti ringrazio, Arconte.

— Non c’è di che. — L’arconte si volse a guardare fuori dalla finestra come se quella situazione lo imbarazzasse. — Suppongo che dovresti ricevere conferma della cosa entro un mese.

— Non mi eleveranno, Arconte, ma il Maestro Palaemon sarà felice di apprendere che tu hai un’opinione tanto buona di me.

— Non c’è sicuramente bisogno di essere tanto formali. — L’arconte tornò a voltarsi per guardarmi. — Il mio nome è Abdiesus, e non c’è motivo per cui tu non lo possa usare quando siamo soli. Tu sei Severian, vero?

Annuii, e l’arconte distolse nuovamente lo sguardo.

— È una finestra molto bassa: la stavo esaminando proprio prima che tu entrassi, ed ho notato che il muro mi arriva a stento alle ginocchia. Temo che qualcuno potrebbe facilmente cadere giù di qui.

— Solo una persona alta come te, Abdiesus.

— In passato, non si eseguivano talvolta le sentenze gettando la vittima da un’alta finestra o giù da un precipizio?

— Sì, entrambi questi metodi sono stati impiegati.

— Non da te, suppongo. — Si volse ancora a fissarmi.

— Non sono più stati praticati a memoria d’uomo vivente, per quel che ne so, Abdiesus. Ho eseguito decapitazioni, sia con il ceppo che con la sedia, ma questo è tutto.

— Ma non avresti da obiettare ad utilizzare altri metodi? Se sei stato istruito nel loro impiego.

— Io sono qui per eseguire le sentenze dell’arconte.

— Ci sono occasioni, Severian, in cui le esecuzioni pubbliche servono al bene pubblico, ma ce ne sono altre, in cui tali esecuzioni farebbero solo del male, e fomenterebbero disordini.

— Questo è chiaro, Abdiesus. — Come talvolta si possono vedere sul volto di un ragazzo le preoccupazioni dell’uomo che questi sarà un giorno, adesso potevo leggere sul volto dell’arconte quel futuro senso di colpa che era già disceso sui suoi lineamenti (forse senza che egli se ne accorgesse).

— Ci saranno alcuni ospiti a palazzo, stanotte, Severian, e spero che ci sarai anche tu.

— Fra le altre ripartizioni dell’amministrazione — risposi inchinandomi, — esiste anche da lungo tempo l’usanza di escludere una persona, la mia, dalla compagnia degli altri.

— E tu senti che questo è ingiusto, com’è naturale. Questa notte, se ti fa piacere vederla in questo modo, faremo ammenda.

— Noi della corporazione non ci siamo mai lamentati di subire ingiustizie, e ci siamo invece sempre gloriati del nostro isolamento. Stanotte, tuttavia, gli altri potrebbero sentirsi in diritto di protestare con te.

— Questo non mi preoccupa. — Un sorriso apparve sulle sue labbra. — Ecco, questo ti permetterà di entrare. — Tese la mano verso di me, tenendo delicatamente, come se temesse che potesse volargli via, uno di quei dischetti di carta rigida, non più grandi di un criso e scritti con elaborati caratteri in oro di cui avevo spesso sentito parlare da Thecla (che si agitò nella mia mente nel momento in cui lo presi) ma che non avevo mai visto in precedenza.

— Grazie, Arconte. Stanotte, hai detto? Cercherò di trovare un abito adeguato alla circostanza.

— Vieni vestito così come sei. Sarà una festa in maschera… il tuo abito sarà il tuo costume. — Si alzò e si stiracchiò, con l’aria, pensai, di una persona che abbia quasi ultimato un lungo e spiacevole incarico. — Un momento fa, abbiamo parlato di alcuni modi meno elaborati di svolgere la tua attività. Sarebbe bene che stanotte tu portassi con te gli strumenti necessari, quali che siano.

Allora compresi. Non avrei avuto bisogno di altro se non delle mie mani, e lo dissi; quindi, sentendo che avevo già trascurato fin troppo i miei doveri di padrone di casa, lo invitai ad accettare i rinfreschi che potevo offrirgli.

— No — rispose. — Se tu sapessi quante cose sono costretto a bere ed a mangiare per obbedire ai canoni della cortesia, capiresti quanto mi sia gradita la compagnia di una persona le cui offerte posso declinare. La tua confraternita ha mai pensato di usare il cibo, e non il digiuno, come forma di tortura?

— La chiamiamo planterazione, Arconte.

— Dovrai parlarmene, una volta o l’altra: vedo che la tua corporazione precorre di molto la mia immaginazione, ed indubbiamente già da una dozzina di secoli. Dopo la caccia, la vostra deve essere la scienza più antica che ci sia. Ma non posso fermarmi oltre. Ci vediamo questa sera?

— È già quasi sera, Arconte.

— Alla fine del prossimo turno di guardia, allora.

Uscì, e soltanto dopo che la porta si fu richiusa alle sue spalle percepii il tenue odore di muschio che emanava dalla sua tunica.

Osservai il cerchietto di carta che avevo in mano, rivoltandolo fra le dita. Dipinte sul dietro, c’erano una serie di maschere, ed io riconobbi uno degli orrori… un volto che era poco più di un’immensa bocca orlata di denti, che avevo visto nel giardino dell’Autarca quando i cacogeni si erano tolte le maschere, ed anche il volto di uno degli uomini scimmia delle miniere abbandonate, vicino a Saltus.

Ero stanco per la lunga camminata e per il lavoro (quasi un’intera giornata, poiché mi ero alzato presto) che l’aveva preceduta. Così, prima di tornare ad uscire, mi spogliai, mi lavai, e mangiai un po’ di frutta e di carne fredda, sorseggiando un bicchiere dello speziato tè settentrionale… Quando un problema mi turba profondamente, rimane nella mia mente anche se non me ne accorgo, e così accadde allora: per quanto non ne fossi consapevole, il pensiero di Dorcas stesa nella sua stretta stanza nella locanda ed il ricordo della ragazza morente sul suo letto di paglia mi chiudevano gli occhi e mi tappavano gli orecchi. Fu per questo, credo, che non sentii il mio sergente fino a che non ebbe fatto il suo ingresso nella stanza, e che mi accorsi solo allora che stavo prendendo e spezzando fra le mani i rametti per attizzare il fuoco contenuti in una cassetta accanto al camino. Il sergente mi chiese se dovevo uscire ancora, e, dato che lui era, in mia assenza, responsabile del Vincula, risposi affermativamente, ed aggiunsi che non sapevo quando sarei tornato; quindi lo ringraziai per avermi prestato il suo jelab, e gli spiegai che non mi sarebbe più servito.

— Puoi prenderlo quando vuoi, Littore, ma non era di questo che mi preoccupavo. Volevo suggerirti di portare con te un paio dei nostri clavigeri, se intendi scendere in città.

— Ti ringrazio — replicai, — ma la città è ben pattugliata e non correrò alcun pericolo.

— È una questione che investe il prestigio del Vincula, Littore. — Il sergente si schiarì la gola. — In qualità di comandante, devi avere una scorta.

Vedevo chiaramente che stava mentendo, ma capivo anche che lo stava facendo per quello che considerava il mio bene, quindi risposi:

— Ci penserò, supponendo che tu abbia due uomini presentabili di cui puoi fare a meno. — S’illuminò subito in volto, ma io aggiunsi: — Tuttavia, non voglio che siano armati: sto andando a palazzo, e sarebbe un’offesa per il nostro signore l’arconte se vi giungessi con una scorta armata.

A quelle parole, il sergente prese a balbettare qualcosa, ed io mi rivoltai contro di lui come se fossi infuriato, gettando via la legna rotta che si abbatté fragorosamente al suolo.

— Sputa fuori! Credi che io sia minacciato? Che cosa c’è?

— Nulla, Littore. Nulla che ti riguardi personalmente. È solo che…

— Solo cosa? — Sapendo ormai che avrebbe parlato, mi avvicinai alla credenza e versai due tazze di rosolio.

— Ci sono stati parecchi omicidi in città, Littore. Tre la notte scorsa e due quella precedente. Grazie, Littore, alla tua salute.

— Alla tua. Ma gli assassini non sono una novità, vero? Gli eclettici non fanno altro che pugnalarsi a vicenda.

— Questi uomini sono stati arsi vivi, Littore. In realtà non so molto in merito, …sembra che nessuno sappia qualcosa. Forse tu stesso ne sai di più. — Il volto del sergente era altrettanto privo d’espressione quanto un rozzo pezzo di legno intagliato, ma notai che, nel parlare, aveva lanciato una rapida occhiata al focolare spento, e compresi che aveva attribuito il fatto che stessi spezzando la legna (quegli stecchi che erano stati così duri e secchi nelle mie mani ma che non mi ero accorto di stringere se non parecchio tempo dopo che egli era entrato, così come forse Abdiesus non si era reso conto di contemplare la propria morte se non molto dopo che io lo stavo osservando) a qualcosa, ad un oscuro segreto, ad un ordine impartitomi dall’arconte, quando in realtà io stavo pensando solo a Dorcas ed alla sua disperazione, ed alla mendicante malata che confondevo con lei. — Ho due uomini in gamba che aspettano fuori, Littore — aggiunse. — Sono pronti a muoversi quando lo vorrai tu e ti aspetteranno fino a che sarai pronto a tornare indietro.

Gli dissi che così andava benissimo, e lui si allontanò immediatamente, in modo che io non potessi intuire quello che sapeva, o ciò che credeva di sapere, e cioè più di quanto mi aveva riferito. Ma le sue spalle rigide ed il collo teso, i passi rapidi con cui raggiunse la porta, mi fornirono più informazioni di quante avessero voluto darmene i suoi occhi impassibili.


La mia scorta era costituita da due uomini massicci, scelti per la loro forza. Brandendo le loro grosse clave di ferro, mi accompagnarono mentre io, con Terminus Est appoggiata alla spalla, mi avviavo lungo le strade tortuose, disponendosi ai miei lati quando la strada era abbastanza larga, oppure precedendomi e seguendomi. Giunto all’Acis, li congedai, ed aumentai la loro ansia di lasciarmi dicendo che potevano trascorrere il resto della serata come preferivano. Noleggiai quindi un piccolo caicco (con una volta gaiamente dipinta che non mi serviva a nulla, ora che era trascorso anche l’ultimo turno di guardia della giornata) per risalire il fiume fino al palazzo.

Quella era la prima volta che solcavo le acque dell’Acis, e mi sedetti a poppa, fra il proprietario-timoniere ed i suoi quattro rematori, con le fredde e limpide acque che mi scorrevano tanto vicine che vi avrei potuto immergere entrambe le mani, se solo avessi voluto. Mi parve impossibile che quel fragile guscio di legno, che dalla finestra della nostra bertesca non doveva apparire più grande di un insetto, potesse sperare di guadagnare anche solo una spanna su quella vorticosa corrente. Poi, il timoniere diede un comando, e partimmo, tenendoci vicini alla riva per sicurezza, ma procedendo con la velocità di una pietra lanciata, tanto rapidi e perfettamente armoniosi erano i colpi dei nostri otto remi e tanto snella e leggera era la nostra imbarcazione, viaggiando più nell’aria al disopra dell’acqua che nell’acqua stessa. Una lanterna pentagonale, con pannelli di vetro color ametista, era appesa a poppa, e, proprio nel momento in cui io, nella mia ignoranza, pensavo che stavamo per essere colpiti dalla corrente, rovesciati e trascinati in fondo al fiume e verso il Capulus, il timoniere abbandonò il timone e accese lo stoppino.

Naturalmente, lui aveva ragione, ed io torto. Nel momento in cui lo sportello della lanterna si richiudeva sulla fiammella gialla e la trasformava in un raggio violetto, un vortice ci prese, ci fece roteare su noi stessi, ci spinse a monte per un centinaio di passi e più, mentre i rematori ritiravano i remi, e ci lasciò in una baia in miniatura, quieta come la polla di un mulino e piena per metà di vivaci barche di piacere. Una fila di scalini, molto simili a quelli dai quali, da ragazzo, solevo tuffarmi nel Gyoll, per quanto fossero più puliti, usciva dalle profondità del fiume e saliva verso il chiarore delle torce e gli elaborati cancelli del palazzo.

Avevo visto spesso il palazzo dal Vincula, e quindi sapevo che non era una struttura sotterranea modellata sull’esempio della Casa Assoluta, come avrei potuto aspettarmi. Non era neppure una cupa fortezza come lo era stata la nostra Cittadella… a quanto pareva, l’arconte ed i suoi predecessori avevano ritenuto che i punti di forza rappresentati dal Castello di Acies e dal Capulus, collegati com’erano da mura e forti che si stendevano lungo le creste delle colline, garantissero una sufficiente sicurezza alla città. Qui nel palazzo, i terrapieni erano semplici strutture squadrate destinate soprattutto ad impedire la vista ai curiosi ed a bloccare eventuali ladri. Gli edifici dalle cupole dorate erano sparpagliati su un giardino che sembrava al contempo intimo e colorato, e, visti dalla mia finestra della bertesca, mi erano sembrati perle cadute dal loro filo e sparpagliatesi su un tappeto multicolore.

C’erano alcune sentinelle vicino alle porte di filigrana, soldati a piedi con corazza ed elmetto d’acciaio, con le lance fiammeggianti e lunghe spade da cavalleria, ma essi avevano l’aria di attori dilettanti o di comparse, uomini cordiali ma temprati, che godevano di quella breve pausa ai combattimenti ed al servizio di pattuglia. I due soldati cui mostrai il mio cerchietto di carta dipinto gli diedero a malapena un’occhiata prima di lasciarmi entrare.

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