XV EGLI TI PRECEDE!

Il marito che sarebbe dovuto arrivare prima di cena non arrivò e noi quattro… la donna, il vecchio, il bambino ed io… mangiammo il pasto serale senza di lui. Io avevo all’inizio pensato che il suo preannunciato arrivo non fosse che una menzogna intesa a distogliermi da qualsiasi atto criminale potessi avere in mente, ma poi, man mano che il cupo pomeriggio trascorreva in quel silenzio che fa presagire una tempesta imminente, divenne evidente che la donna credeva in quel che mi aveva detto e che ora era sinceramente preoccupata.

La nostra cena fu il pasto più semplice che fosse possibile immaginare, ma la mia fame era tale che essa fu uno di quei pasti che rammento con maggior gratitudine. Mangiammo vegetali bolliti senza sale né burro, pane secco e poca carne. Non c’erano né vino né frutta, nulla di fresco o di dolce, eppure credo di aver mangiato più di tutti gli altri tre messi insieme.

Quando terminammo la cena, la donna (il cui nome appresi essere Casdoe) prese da un angolo un lungo bastone dalla punta di ferro e si dispose ad andare a cercare il marito, assicurandomi che non aveva bisogno di essere scortata e dicendo al vecchio, che non parve ascoltarla, che non si sarebbe allontanata troppo, ma sarebbe tornata presto. Notando che il vecchio rimaneva come sempre distratto, vicino al fuoco, convinsi il bambino a venirmi vicino, e mi guadagnai la sua confidenza permettendogli di vedere Terminus Est e perfino di tenerla per l’elsa e di cercare di sollevarla; gli chiesi quindi perché Severa non scendeva a prendersi cura di lui, ora che sua madre era fuori.

— È tornata la notte scorsa — mi rispose il ragazzo.

— Sono certo che tornerà anche stanotte — replicai, convinto che stesse parlando di sua madre, — ma non pensi che Severa dovrebbe prendersi cura di te, ora che la mamma è fuori?

Come fanno talvolta i ragazzi, quando non hanno abbastanza dimestichezza con il linguaggio per discutere, il bambino scrollò le spalle e tentò di allontanarsi, ma io lo fermai.

— Ora, piccolo Severian, voglio che tu salga di sopra e le dica di scendere. Prometto che non le farò alcun male.

Il bambino annuì e si diresse con riluttanza verso la scaletta, dicendo:

— È una donna cattiva.

Poi, per la prima volta da quando ero entrato in quella casa, il vecchio parlò.

— Becan, vieni qui! Ti voglio parlare di Fechin.

Ci misi un momento prima di comprendere che si stava rivolgendo a me, nella convinzione che io fossi suo genero.

— Era il peggiore di tutti noi, quel Fechin. Un ragazzo alto e selvaggio con peli rossi sulle mani e sulle braccia, come una scimmia, cosicché se vedevi sporgere una mano da dietro un angolo per afferrare qualcosa, potevi capire solo dalle dimensioni della mano che non si trattava di una scimmia. Una volta prese la nostra padella di rame, quella che Mamma usava per cuocere la salsa, ed io ho visto il suo braccio, ma non ho detto chi era stato, perché lui era mio amico. Non l’ho mai ritrovata né rivista, sebbene sia stato con lui migliaia di volte. Credo che l’abbia usata per farci una barca e l’abbia varata nel fiume, perché questo era quello che avrei voluto farci io stesso. Mi sono avviato lungo il fiume per cercarla, ed è scesa la notte prima che me ne accorgessi, prima ancora che mi fossi avviato verso casa. Forse avrà lucidato il fondo per specchiarsi… qualche volta amava dipingere se stesso. Forse avrà riempito la padella d’acqua per specchiarvisi.

Avevo attraversato la stanza e mi ero avvicinato per ascoltarlo, in parte perché parlava confusamente ed in parte per rispetto, perché il suo volto venerando mi ricordava un poco quello del Maestro Palaemon, anche se differiva nello sguardo.

— Una volta ho incontrato un uomo della tua età che aveva posato per Fechin — dissi.

Il vecchio sollevò gli occhi verso di me, e, rapida come l’ombra di un uccello che voli su uno straccio gettato sull’erba, vidi passare sul suo volto la consapevolezza, che però svanì subito, che io non ero Becan.

L’uomo non smise di parlare né rilevò in alcun altro modo la cosa: era come se quello che aveva da dire fosse tanto impellente da dover essere detto a qualcuno, riversato in un qualsiasi orecchio prima che andasse perduto per sempre.

— Il suo viso non era affatto quello di una scimmia. Fechin era bello… il più bello di tutti, e riusciva sempre ad ottenere cibo e denaro dalle donne, riusciva ad ottenere qualsiasi cosa dalle donne. Mi ricordo una volta che stavamo camminando lungo una pista che portava al punto in cui sorgeva il vecchio mulino. Io avevo un pezzo di carta che mi era stato dato dal maestro di scuola. Carta vera, anche se non era bianca ma aveva sfumature marroni e qualche puntino qua e là, che la facevano somigliare ad una trota nel latte. Il Maestro me l’aveva data perché potessi scrivere una lettera a mia madre… a scuola scrivevamo sempre sulle lavagne, poi le pulivamo con una spugna quando dovevamo scrivere ancora e quando nessuno ci guardava tiravamo le spugne contro i muri o contro la testa di qualcuno. Ma Fechin amava disegnare, e, mentre camminavamo, io ci pensai e pensai a che faccia avrebbe fatto se avesse avuto un po’ di carta su cui tracciare un disegno da conservare.

«I disegni erano l’unica cosa che conservava. Tutto il resto lo perdeva oppure lo regalava o lo gettava, ed io, siccome sapevo quello che a mia madre interessava soprattutto, decisi che, se avessi scritto in piccolo, avrei potuto far stare tutto su metà del foglio di carta. Fechin ignorava che avevo la carta, ma io la tirai fuori, gliela feci vedere, poi la piegai e la divisi in due.

Sopra le nostre teste, potevo sentire la vocetta del bambino, anche se non capivo cosa stesse dicendo.

— Quello era il giorno più bello che abbia mai visto — proseguì il vecchio. — Il sole sembrava avere in sé nuova vita, come accade ad un uomo che è stato male ieri e starà ancora male domani, ma che oggi si muove, cammina e ride, cosicché se uno straniero dovesse vederlo concluderebbe che non è affatto malato e che il letto e le medicine sono per qualcun altro. Nelle preghiere si dice sempre che il Nuovo Sole sarà troppo luminoso perché lo si possa guardare, e, fino a quel giorno, io avevo sempre creduto che fosse solo un adeguato modo di dire, come si dice che un bimbo è bello o si loda qualsiasi cosa un brav’uomo abbia fatto con le sue mani, e che, anche se ci fossero stati due soli in cielo, sarebbe stato possibile fissarli entrambi. Ma quel giorno imparai che le preghiere erano vere, perché la luce che apparve sul volto di Fechin fu tale che non potei sopportarla e mi fece lacrimare gli occhi. Fechin mi ringraziò e proseguimmo fino a raggiungere una casa in cui viveva una ragazza. Non riesco a ricordarmi il suo nome, ma era davvero bella, nel modo in cui lo sono talvolta le ragazze più quiete. Fino a quel momento non avevo avuto idea che Fechin la conoscesse, ma egli mi chiese di aspettare, ed io sedetti sul primo gradino davanti al cancello.

Qualcuno più pesante del bambino stava camminando sopra le nostre teste verso la scaletta.

— Non rimase dentro a lungo — continuò il vecchio, — ma quando venne fuori, e la ragazza si affacciò alla finestra, capii cosa avevano fatto. Fissai Fechin, che allargò le sue magre e lunghe braccia da scimmia. Come poteva dividere con me quello che aveva avuto? Alla fine, convinsi la ragazza a darmi un pezzo di pane ed un po’ di frutta, quindi tracciò il mio ritratto su una facciata del foglio e quello della ragazza sull’altra, ma se le tenne entrambe.

La scaletta scricchiolò ed io mi volsi a guardare. Come mi ero aspettato, stava scendendo una donna. Non era alta, ma aveva la figura piena e la vita stretta, ed il suo abito era quasi altrettanto stracciato quanto quello della madre del ragazzo, ma molto più sporco. Abbondanti capelli castani le ricadevano sulla schiena, ed io credo che la riconobbi prima ancora che si voltasse e vedessi gli alti zigomi ed i lunghi occhi castani… era Agia.

— Allora hai sempre saputo che ero qui — disse.

— Potrei rivolgerti la stessa osservazione. Sembra che tu sia arrivata qui prima di me.

— Ho solo intuito che saresti venuto da questa parte. In effetti, sono arrivata poco prima di te, e ho detto alla padrona di casa cosa mi avresti fatto se lei non mi avesse nascosta — mi rispose (e suppongo desiderasse farmi capire che aveva un’alleata, per quanto debole fosse).

— Hai cercato di uccidermi da quando ti ho intravista fra la folla, a Saltus.

— Sarebbe un’accusa? Sì.

— Stai mentendo.

Quella fu una delle poche volte in cui vidi Agia presa alla sprovvista.

— Solo che hai cercato di uccidermi prima ancora di Saltus.

— Con l’avern. Sì, naturalmente.

— Ed anche in seguito. Agia, io so chi è Hethor.

Attesi che rispondesse, ma non disse nulla.

— Il giorno in cui ci siamo incontrati, mi hai detto che c’era un vecchio marinaio che voleva che tu andassi a vivere con lui. Vecchio, brutto e povero, l’hai definito, ed io non sono riuscito a capire come tu, una donna giovane e bella, potessi anche solo considerare la sua offerta se non stavi morendo di fame. Avevi il tuo gemello che ti proteggeva, ed il denaro che ti veniva dal vostro negozietto.

— Sarei dovuta andare da lui e dominarlo — mi rispose, sorprendendomi a sua volta. — Adesso l’ho dominato.

— Pensavo che ti fossi semplicemente promessa a lui, se mi avesse ucciso.

— Gli ho promesso questa e molte altre cose, e così l’ho sottomesso. Lui ti precede, Severian, ed aspetta solo una mia parola.

— Con qualcun’altra delle sue bestie? Grazie per l’avvertimento. È di questo che si tratta, vero? Lui minacciava te ed Agilus con gli animaletti che aveva portato con sé da altri mondi.

— Venne a vendere i suoi vestiti — annuì Agia, — che erano del tipo che s’indossava a bordo delle vecchie navi che salpavano al di là dei confini del mondo molto tempo fa, e non erano un costume, o una contraffazione, e neppure vecchi abiti rimasti al buio per secoli, ma erano invece quasi nuovi. Lui ha detto che le sue navi… tutte quelle navi… si erano perdute nell’oscurità, fra i soli, dove non passano gli anni, perse al punto che neppure il Tempo le poteva ritrovare.

— Lo so — risposi. — Me lo ha detto Jonas.

— Dopo aver saputo che avresti ucciso Agilus, sono andata da lui. Hethor è forte come il ferro sotto certi aspetti, debole sotto altri. Se avessi risparmiato il mio corpo, non avrei potuto ottenere nulla da lui, ma ho fatto invece tutte le strane cose che lui voleva e gli ho fatto credere di amarlo, ed ora lui farà qualsiasi cosa io gli chieda. Ti ha seguito, dopo che hai ucciso Agilus; con il suo argento, ha ingaggiato gli uomini che hai ucciso vicino alla vecchia miniera, e le creature che lui riesce a comandare ti uccideranno per me, se non lo farò qui io stessa.

— Suppongo che intendessi attendere fino a che non mi fossi addormentato per poi scendere ad assassinarmi.

— Prima ti avrei svegliato, una volta che ti avessi puntato il coltello alla gola. Ma il bambino mi ha detto che sapevi che ero qui, ed ho pensato che così sarebbe stato ancora più piacevole. Dimmi una cosa, però… come hai fatto ad intuire chi fosse Hethor?

Un alito di vento trapelò dalle finestre aperte, facendo fumare il fuoco, e sentii il vecchio, che era ripiombato nel silenzio, tossire e sputare sui carboni. Il ragazzino, che era sceso lungo la scala mentre io ed Agia parlavamo, ci stava fissando con i suoi grandi occhi, senza capire.

— Avrei dovuto intuirlo molto prima — replicai. — Il mio amico Jonas era stato un marinaio di quel genere. Ti ricorderai di lui, credo… lo hai intravisto all’imboccatura della miniera e devi aver saputo della sua presenza.

— Sapevamo di lui.

— Forse, provenivano dalla stessa nave, o forse ciascuno dei due era in grado di riconoscere l’altro in base a qualche segno particolare, o forse Hethor temeva che Jonas lo potesse riconoscere. Comunque sia, mi è venuto raramente vicino quando viaggiavo con Jonas, mentre prima era apparso tanto ansioso di stare in mia compagnia. L’ho visto fra la folla, allorché ho giustiziato un uomo e una donna, a Saltus, ma non ha tentato di unirsi a me laggiù. Lungo la strada verso la Casa Assoluta, lo abbiamo visto che ci seguiva, ma non si è avvicinato finché Jonas non se n’è andato, per quanto dovesse avere un disperato desiderio di recuperare le sue notule. Quando è stato gettato nell’anticamera della Casa Assoluta, non ha fatto alcun tentativo di venire a sedersi con noi, anche se Jonas era quasi morto, ma qualcosa che lasciava dietro di sé una scia di fango stava frugando il luogo quando noi lo abbiamo lasciato.

Agia non disse nulla, e, così in silenzio, avrebbe potuto essere la giovane donna che avevo visto, il mattino dopo aver lasciato la nostra torre, mentre staccava le grate che proteggevano le finestre polverose del suo negozio.

— Voi due dovete aver perso la mia pista sulla strada per Thrax — continuai. — Oppure qualche incidente vi ha fatto ritardare. Anche dopo aver scoperto che ero in città, non avete saputo subito che avevo la sovrintendenza del Vincula, altrimenti Hethor non avrebbe mandato la sua creatura di fuoco a vagare per le strade alla mia ricerca. Poi, chissà come, avete trovato Dorcas al Nido dell’Anitra…

— Alloggiavamo là anche noi — spiegò Agia. — Eravamo arrivati solo pochi giorni prima, e ti stavamo ancora cercando quando sei venuto. In seguito, quando ho scoperto che la ragazza nella cameretta era la pazza che avevi trovato al Giardino Botanico, non ho ancora intuito che eri stato tu a portarla là, perché la megera della locanda ci ha detto che l’uomo che l’aveva accompagnata indossava abiti comuni. Ma abbiamo pensato che Dorcas potesse sapere dov’eri, e che sarebbe stata più disposta a parlare con Hethor. Tra parentesi, il suo nome vero non è Hethor: lui dice che è un nome molto più antico che nessuno conosce ormai più.

— E lui ha parlato a Dorcas della creatura di fuoco — dissi, — e Dorcas lo ha riferito a me. Avevo già sentito parlare in precedenza di quella cosa, ma Hethor le ha dato un nome… l’ha chiamata salamandra. Non ci ho fatto caso quando Dorcas me l’ha detto, ma più tardi mi sono ricordato che Jonas aveva saputo dare un nome a quelle cose nere che ci avevano inseguiti fuori dalla Casa Assoluta: le aveva chiamate notule, ed aveva detto che la gente delle navi le chiamava così perché esse tradivano la loro presenza con un’ondata di calore. Se Hethor sapeva dare un nome a quella creatura di fuoco, mi sembrava logico supporre che si trattasse di un nome da marinaio, e che fosse collegato alla natura della creatura stessa.

— Così — fece Agia, con un sottile sorriso, — ora sai tutto, e mi hai dove mi volevi… a patto che tu riesca a maneggiare quella tua grossa spada qui dentro.

— Ti tengo anche senza di essa. Se è per questo, già alla bocca della miniera ti avevo sotto il mio piede.

— Ma io ho ancora il mio coltello.

In quel momento, la madre del ragazzo entrò ed entrambi ci arrestammo. La donna fissò stupita prima Agia e poi me, quindi, come se non ci fosse sorpresa in grado di trapassare il dolore che provava o di alterare quello che doveva fare, chiuse la porta e mise al suo posto la pesante spranga di legno.

— Mi ha sentita mentre ero di sopra, Casdoe — disse Agia, — e mi ha fatto scendere. Mi vuole uccidere.

— E come posso impedirlo io? — replicò stancamente la donna, volgendosi poi verso di me. — L’ho nascosta perché ha detto che le volevi fare del male. Ora ucciderai anche me?

— No, e non ucciderò neanche lei, come Agia sa bene.

Il volto di Agia, distorto dall’ira, mi fece pensare al volto di un’altra adorabile donna, modellato, magari dallo stesso Fechin, con cera colorata, improvvisamente trasformato da una fiammata che l’avesse fatta al contempo squagliare e bruciare.

— Tu hai ucciso Agilus e te ne sei gloriato! Non sono degna di morire quanto lo era lui? Eravamo della stessa carne! — Non le avevo creduto quando mi aveva detto di essere armata con un coltello, ma ora l’arma era lì, una delle ritorte daghe di Thrax, senza che l’avessi notata mentre l’estraeva.

Da qualche tempo, l’aria era pesante per l’imminenza del temporale, ed ora il tuono rimbombò fra i picchi che ci circondavano, e, quando i suoi echi si furono spenti, qualcosa gli rispose: non so descrivere quella voce, perché non era una voce umana e non era neppure il verso di una bestia.

Ogni stanchezza abbandonò Casdoe, e venne sostituita invece da una fretta disperata: pesanti imposte di legno erano appoggiate alla parete accanto a ciascuna piccola finestra, e lei afferrò la più vicina, sollevandola come se non fosse stata più pesante di una padella e la incastrò al suo posto. Fuori, il cane abbaiò freneticamente, poi tacque, cosicché l’unico suono che rimase fu il tamburellare della pioggia.

— Così presto! — gridò Casdoe, — così presto! — E, rivolta al figlio: — Togliti di mezzo, Severian.

Attraverso una delle finestre aperte, giunse il richiamo di una voce infantile che diceva:

Padre, non puoi aiutarmi?

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