XXIV IL CADAVERE

Non ho mai scoperto a quale uso fossero destinati quegli altri edifici, e non compresi neppure a cosa servisse questo, che era circolare e coperto da una cupola. Le sue pareti erano di metallo… non il lucido metallo scuro che copriva le nostre torri della Cittadella, ma una qualche lega che sembrava argento lucidato.

Quel lucente edificio sorgeva su una sorta di piedistallo munito di scalini, ed io mi meravigliai della cosa, dal momento che le grandi immagini dei catafratti nelle loro antiche armature si ergevano invece semplicemente sulla strada. C’erano cinque porte lungo la circonferenza della costruzione (poiché facemmo un giro completo prima di penetrarvi) ed esse erano tutte aperte. Osservandole da vicino ed esaminando il suolo dinnanzi ad esse, cercai di determinare se erano aperte da molto tempo, ma a quell’altitudine c’era ben poca polvere, cosicché non potei esserne del tutto certo. Quando avemmo terminato la nostra ispezione, raccomandai al bambino di lasciarmi passare per primo ed entrai.

Non accadde nulla. Anche quando il ragazzo mi seguì, le porte non si chiusero, nessun nemico ci assalì, nessun lampo d’energia colorò l’aria ed il pavimento rimase saldo sotto i nostri piedi. Nondimeno, avevo la sensazione che eravamo chissà come entrati in una trappola, che fuori, sulla montagna, eravamo liberi, per quanto affamati ed assetati, mentre qui non lo eravamo più. Credo che mi sarei voltato e sarei fuggito se il bambino non fosse stato con me, ma, così come stavano le cose, non volevo apparire spaventato o superstizioso, e mi sentivo obbligato a tentare di trovare cibo ed acqua.

In quell’edificio c’erano molti congegni cui non saprei dare un nome: non erano pezzi di mobilio, né casse, e neppure macchine nel senso in cui io intendevo quel termine. Molti di essi presentavano una strana angolazione, e ne vidi alcuni che sembravano avere nicchie in cui era possibile sedersi, anche se chi vi si fosse seduto sarebbe rimasto rattrappito e si sarebbe trovato di fronte ad una qualche parte del congegno invece che ai suoi compagni. Altri apparecchi contenevano alcove in cui forse un tempo qualcuno aveva riposato.

Quei congegni si trovavano ai lati di corridoi, ampi corridoi che andavano verso il centro della struttura, dritti come i raggi di una ruota. Guardando lungo quello da cui eravamo entrati, distinsi in lontananza qualcosa di rosso, e, su di esso, un oggetto più piccolo, di colore marrone. All’inizio, non prestai grande attenzione a nessuno dei due, ma quando mi fui pienamente accertato che i congegni che ho descritto non potevano esserci utili e neppure dannosi, condussi il bambino verso di essi.

L’oggetto rosso era una sorta di giaciglio, molto elaborato, con cinghie adatte a trattenere un prigioniero, ed intorno vi erano dei meccanismi che sembravano essere destinati alla nutrizione ed all’evacuazione. Il giaciglio era posto su una piccola piattaforma, ed era occupato da ciò che un tempo era stato il corpo di un uomo con due teste. L’aria sottile e secca della montagna aveva disseccato quel corpo molto tempo addietro… come i misteriosi edifici, esso poteva risalire ad uno come a mille anni prima. Era stato un uomo più alto di me, forse perfino un esultante, e dalla possente muscolatura, mentre ora mi sembrava che avrei potuto strappargli via un braccio con un semplice gesto. Non portava indumenti di sorta, e, sebbene si sia abituati agli improvvisi cambi di dimensioni degli organi procreativi, era strano vedere come essi si fossero accartocciati in lui. Sulle teste rimanevano alcuni capelli, e mi parve di capire che quella sulla sinistra era stata biondiccia, e quella sulla destra bruna. Gli occhi di entrambe le teste erano chiusi, e le bocche aperte, munite di alcuni denti. Notai che le cinghie che avrebbero potuto essere usate per tenere ferma quella creatura non erano allacciate.

Il quel momento, tuttavia, ero più interessato al meccanismo che un tempo l’aveva nutrito. Dissi a me stesso che quelle antiche macchine avevano spesso una durata stupefacente, e che, sebbene fossero abbandonate da lungo tempo, avevano goduto delle condizioni ideali alla loro preservazione, e così premetti ogni pulsante che trovai e spostai ogni leva, nel tentativo di far loro produrre un po’ di nutrimento. Il bambino mi osservava, e, dopo che ebbi manipolato quegli apparecchi per qualche tempo, mi chiese se saremmo morti di fame.

— No — risposi. — Possiamo andare avanti senza cibo molto più a lungo di quanto tu creda. Avere qualcosa da bere è più urgente, ma, se non riusciamo a trovare nulla qui, vi sarà certamente un po’ di neve più in alto, sulla montagna.

— Come è morto? — mi chiese. Per chissà quale ragione, non ero riuscito a costringermi a toccare il cadavere, mentre ora il bambino fece scorrere le dita grassottelle sul braccio avvizzito.

— Gli uomini muoiono. Quel che mi meraviglia è che un simile mostro sia vissuto: creature del genere, di solito muoiono alla nascita.

— Credi che gli altri lo abbiano lasciato qui quando se ne sono andati? — domandò.

— Che lo abbiano lasciato qui vivo, vuoi dire? Suppongo che potrebbero averlo fatto. Forse non ci sarebbe stato un luogo adatto per lui nelle pianure, o forse lui non è voluto andare. Forse lo hanno legato su questo giaciglio quando si è comportato male, o forse era soggetto a pazzia o ad attacchi d’ira violenta. Se una qualsiasi di queste supposizioni è vera, deve aver trascorso i suoi ultimi giorni vagabondando sulla montagna e tornando qui per mangiare e bere, morendo poi quando il cibo e l’acqua da cui dipendeva si sono esauriti.

— Allora qui non c’è acqua — osservò, pratico, il ragazzo.

— Questo è vero. Eppure, non possiamo essere certi che le cose siano andate in quel modo. Potrebbe essere morto per una qualsiasi altra ragione prima che le sue provviste si esaurissero. I vari tipi di ragionamento che abbiamo fatto sembrano suggerire che questa creatura fosse una sorta di animale domestico o di mascotte per la gente che ha intagliato la montagna, e questo è un modo molto elaborato per conservare un animale domestico. Ad ogni modo, non credo che sarò mai in grado di riattivare questo meccanismo.

— Credo che dovremmo scendere a valle — annunciò il bambino, mentre uscivamo dall’edificio circolare.

Mi volsi e mi guardai alle spalle, pensando a quanto fossero stati sciocchi i miei timori. Le porte erano rimaste aperte, nulla si era mosso, nulla era cambiato. Se quella era mai stata una trappola, era una trappola che la ruggine aveva bloccato ormai da secoli.

— Lo penso anch’io — replicai. — Ma il giorno è quasi finito… vedi ora quanto sono lunghe le nostre ombre? Non voglio essere sorpreso dal buio mentre stiamo scendendo lungo l’altro versante, quindi ho intenzione di vedere se posso raggiungere l’anello che abbiamo visto stamattina. Forse troveremo anche l’acqua oltre all’oro. Stanotte dormiremo in quell’edificio rotondo, al riparo dal vento, e domattina cominceremo a discendere il versante settentrionale, alle prime luci dell’alba.

Il bambino annuì per indicare che aveva compreso e mi accompagnò di buon animo quando mi misi a cercare un sentiero che conducesse all’anello. Esso si trovava sul braccio meridionale, quindi stavamo in un certo senso tornando sui nostri passi anche se in effetti ci eravamo avvicinati agli splendenti catafratti provenendo da sud-est. Avevo temuto che l’ascesa fino al braccio si sarebbe dimostrata difficoltosa; invece, non appena raggiungemmo il punto in cui l’immensa altezza del torace e del braccio si levavano dinnanzi a noi, trovai ciò che avevo desiderato parecchie ore prima: una stretta scala. C’erano centinaia di scalini, il che rese la salita ugualmente faticosa, e mi costrinse a trasportare il ragazzo per buona parte di essa.

Il braccio era di pietra liscia, tanto ampio da presentare ben poco pericolo che il bambino potesse cadere, fintanto che rimanevamo nel centro. Lo presi per mano e mi avviai a passo svelto, il manto agitato dal vento.

Alla nostra sinistra, giaceva la salita che avevamo percorso il giorno precedente, e, al di là di essa, c’era la sella montana, verde sotto la sua coltre di giungla. Più in là ancora, velata dalla distanza, c’era la montagna su cui Becan e Casdoe avevano costruito la loro casa. Nel camminare, cercai d’individuare la loro capanna, o almeno la radura in cui essa sorgeva, ed alla fine trovai quella che mi sembrava la superficie della collina che avevo disceso per raggiungerla, una piccola macchia di colore sul fianco della montagna meno alta, con un bagliore d’acqua cadente al suo centro che creava una nota iridescente…

Quando l’ebbi individuata, mi volsi ed osservai il picco sui cui pendii stavamo ora camminando. Adesso potevo vedere la faccia, con la sua mitra di ghiaccio, e, sotto di essa, una spalla su cui un migliaio di cavalleggeri avrebbe potuto esercitarsi agli ordini del loro chiliarca… Davanti a me, il ragazzo indicò e gridò qualcosa che non compresi, mostrandomi i sottostanti edifici e le figure delle guardie di metallo. Ci volle un momento prima che comprendessi quello che intendeva dire… le facce delle statue si erano voltate di tre quarti verso di noi, come lo erano state quella mattina. Le teste si erano mosse. Per la prima volta, seguii la direzione dei loro sguardi… e scoprii che stavano fissando il sole.

— Ho visto! — gridai al ragazzo, annuendo.

Eravamo sul polso, con la piccola pianura della mano stesa dinnanzi a noi, ancor più ampia e sicura del braccio. L’anello era sull’indice, un indice più grosso di un tronco tagliato dal più grande degli alberi. Il piccolo Severian corse su di esso, mantenendo l’equilibrio senza difficoltà, e lo vidi allungare le mani per toccare l’anello.

Vi fu un lampo di luce… brillante ma non accecante nel chiarore pomeridiano, e, poiché era tinta di violetto, parve quasi un’oscurità.

La luce lasciò il ragazzo annerito e consumato. Per un momento, credo, sopravvisse ancora, poiché la testa si gettò all’indietro e le braccia si allargarono. Poi ci fu uno sbuffo di fumo, portato immediatamente via dal vento. Il corpo cadde, contraendosi come fanno le zampe di un insetto morto, e rotolò fino a scomparire dalla mia vista nel crepaccio che separava l’indice dal medio.

Io, che avevo visto marchiare ed accecare tante persone, e che avevo perfino usato personalmente il ferro rovente (fra gli altri bilioni di cose, rammento perfettamente il bruciare della carne delle guance di Morwenna), riuscii a stento a costringermi ad andare a vedere.

In quella stretta fenditura fra le dita c’erano altre ossa, ma erano ossa molto vecchie, che si spezzarono sotto i miei piedi quando saltai giù, come le ossa che costellavano i sentieri della nostra necropoli, ed io non mi curai di esaminarle. Estrassi l’Artiglio. Quando avevo imprecato contro me stesso per non averlo usato allorché il corpo di Thecla era stato portato al banchetto di Vodalus, Jonas mi aveva detto di non essere stupido, e che i poteri dell’Artiglio, quali che fossero, non avrebbero potuto ridare la vita alla carne arrostita.

Ed ora non potei fare a meno di pensare che, se la gemma avesse avuto effetto sul piccolo Severian, non mi sarebbe rimasto altro da fare che condurlo in un luogo sicuro e poi tagliarmi la gola con Terminus Est, perché, se avesse avuto effetto su di lui, allora avrebbe potuto anche richiamare in vita Thecla, se lo avessi usato, mentre ora Thecla era parte di me stesso ed era morta per sempre.

Per un momento, mi parve che ci fosse un luccichio, un’ombra luminosa o un’aura, poi il corpo del bambino si afflosciò in un mucchio di cenere nera agitata dal vento inquieto.

Mi alzai, riposi l’Artiglio e mi avviai per tornare indietro, chiedendomi vagamente quante difficoltà avrei incontrato nel lasciare quella crepa e nel tornare sul dorso della mano. (Alla fine, dovetti poggiare Terminus Est sulla sua punta e mettere un piede sull’elsa per salire, e poi strisciare a testa in avanti fino a che non riuscii ad afferrarla ed a recuperarla). Non c’era alcuna confusione nella mia memoria, ma per un certo tempo ci fu solo una confusione mentale, ed il bambino si fuse in essa con quell’altro bambino, Jader, che aveva vissuto con la sorella morente nello jacal sulla collina di Thrax. Il primo, che era divenuto tanto importante per me, non ero riuscito a salvarlo, mentre avevo curato il secondo, di cui m’importava così poco. In qualche modo, mi sembrava che essi fossero lo stesso bambino, ed indubbiamente quella fu solo una reazione protettiva della mia mente, un rifugio che essa cercò dalla tempesta della pazzia; comunque, mi parve chissà perché che, finché Jader fosse vissuto, il bambino che sua madre aveva battezzato Severian non sarebbe realmente morto.

Avevo avuto intenzione di soffermarmi sulla mano per guardarmi indietro, ma non lo feci… la verità è che temetti di finire per tornare sull’orlo del precipizio e gettarmi di sotto. In effetti, non mi arrestai fino a che non ebbi raggiunto la stretta scalinata di così tante centinaia di scalini che riportava nel grembo della montagna. Allora mi sedetti e, ancora una volta, individuai quella macchia di colore che era la collina sotto cui sorgeva la casa di Casdoe. Mi ricordai l’abbaiare del cane marrone, come lo avevo udito uscendo dalla foresta. Era stato un codardo, quel cane, quando era venuto l’alzabo, ma poi era morto con i denti affondati nella carne di uno zoantropo, mentre io, codardo a mia volta, ero rimasto indietro. Rammentai il volto stanco e grazioso di Casdoe, il bambino che sbirciava da dietro le sue gonne, il modo in cui il vecchio sedeva a gambe incrociate con la schiena al fuoco, parlando di Fechin. Adesso erano tutti morti, Severa e Becan, che non avevo mai visto; il vecchio, il cane, Casdoe, ora il piccolo Severian, Fechin, tutti morti, tutti dispersi nella nebbia che oscura i nostri giorni. Mi sembra che il tempo sia una cosa che si erge altrettanto solida quanto una successione di pali di ferro, con il suo alternarsi interminabile degli anni; e noi fluttuiamo oltre come il Gyoll, durante il nostro viaggio verso un mare da cui torneremo solo sotto forma di pioggia.

Conobbi allora, là sul braccio della gigantesca figura, l’ambizione di riuscire a dominare il tempo, un’ambizione accanto alla quale il desiderio di raggiungere soli lontani era solo l’avidità di un piumato capitano da quattro soldi di riuscire a soggiogare un’altra tribù.

Rimasi seduto là fino a che il sole non fu quasi del tutto scomparso dietro i monti ad ovest. Scendere avrebbe dovuto essere più facile che salire, ma ero molto stanco, ed il sobbalzo di ciascuno scalino mi faceva dolere le ginocchia. La luce era quasi svanita, ed il vento si era fatto gelido. Una delle coperte era bruciata con il bambino, ed io mi avvolsi l’altra intorno al petto ed alle spalle, sotto il mantello. Quando fui a circa metà della discesa, mi soffermai a riposare: del giorno rimaneva solo una sottile mezzaluna rossastra, che si assottigliò ulteriormente e svanì. In quel preciso momento, ciascuno dei grandi catafratti di metallo sotto di me sollevò una mano in un gesto di saluto. Erano così silenziosi e saldi, che avrei quasi potuto credere che fossero stati costruiti con il braccio sollevato, come apparivano in quel momento.

Per un po’, la meraviglia di quanto avevo visto annullò in me ogni senso di dolore, e potei solo provare stupore: rimasi dov’ero, fissandoli, senza osare muovermi, poi la notte si stese sulle montagne, e, nell’ultima, tenue luce crepuscolare, osservai le potenti braccia abbassarsi.

Ancora stupefatto, penetrai nel silenzioso gruppo di edifici che sorgevano in grembo alla figura. Se avevo visto fallire un miracolo, ne avevo visto accadere un altro, ed anche un miracolo apparentemente privo di scopo è un’inesauribile fonte di speranza, perché ci dimostra che, dal momento che non comprendiamo ogni cosa, le, nostre sconfitte… così più numerose delle nostre poche e vuote vittorie… potrebbero essere altrettanto speciose.

Per un qualche stupido errore, riuscii a perdere la strada quando tentai di ritrovare l’edificio rotondo in cui avevo detto al ragazzo che avremmo trascorso la notte, ed ero troppo stanco per mettermi a cercarlo.

Invece, mi trovai un angolo riparato e lontano dai guardiani di metallo, e là mi massaggiai le gambe dolenti e mi coprii meglio che potevo per difendermi dal freddo. Anche se dovetti addormentarmi immediatamente, venni ben presto destato da un soffice rumore di passi.

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